Che David Lynch fosse, senza ironie, un romantico – anzi, assieme a Michael Mann e a Woody Allen, l’ultimo romantico del cinema statunitense –, lo si era capito fin dai tempi di The Elephant Man (1980). La si fa sempre molto lunga, e intellettuale, a proposito dei suoi film, e certo non a torto (è anche l’ultimo dei geni del cinema statunitense, senza sparring partner in questo caso), ma l’altra metà del gioco, la metà che filtra dal rompicapo narrativo o dallo sconfinamento fantastico o dall’eccentricità per eccesso, è quasi sempre la celebrazione di cose semplici e pure (come accade, in forma perfetta, nelle sue canzoni). Prima tra tutte l’amore, che si tratti di quello ritrovato tra due fratelli – Una storia vera (1999) – o di quello allucinato tra due fantasmi – Dale Cooper e Laura Palmer, che nelle tre stagioni di Twin Peaks (1990, 1991, 2017) non smettono mai di incontrarsi e in fondo amarsi senza essersi davvero mai incontrati – o, più classicamente, di quello tra un uomo e una donna. Non sorprende, dunque, che nella tutto sommato rispettosa (fin dal titolo) riscrittura del romanzo di Barry Gifford, uscito nel 1989, dal quale è tratto Cuore Selvaggio (1990), Lynch abbia deciso di stravolgere il finale, sostituendo all’addio un po’ troppo pratico e arreso tra Sailor (Nicholas Cage) e Lula (Laura Dern) – Lui, uscito dal carcere dopo dieci anni, a Lei che è corsa ad accoglierlo sfidando ancora una volta la madre: «Ce l’hai fatta benissimo senza di me, piccioncino. Non c’è alcun bisogno di complicarsi la vita più di quanto non lo sia già» – una sequenza happy end che, all’epoca, scatenò fischi e risate di scherno tra i critici della sofisticata platea di Cannes (dove comunque si aggiudicò, tra molti applausi e un’altra dose di fischi e sonori buu, la Palma d’oro – presidente di giuria, Bernardo Bertolucci). Ma l’amore è, appunto, complicazione, come hanno dimostrato per tutto il film (e il libro) Sailor e Lula, sopravvivendo a chi quell’amore vorrebbe spezzarlo, possibilmente in modo definitivo e violento, e facendo sopravvivere quell’amore a un’interruzione di dieci anni. Ha dunque ragione Lynch a sabotare in modo tanto vistoso la conclusione del romanzo di Gifford, che del resto porta in esergo una frase di Tuesday Weld: «Hai bisogno di un uomo per andarci all’inferno insieme». In breve: il lettore, questa volta, ha capito la storia meglio del suo autore.
E allora sì, l’happy end, ma anche – da buon romantico – il fuoco, tanto, tantissimo, quello in cui brucia il padre di Lula, quello degli accendini avvicinati alle sigarette (Cuore selvaggio è probabilmente il film più “fumoso” della storia del cinema), quello delle dissolvenze, che sono gialle, arancione, rosse, bianche (i colori del fuoco, appunto). E poi Elvis Presley, Love Me Tender, che Sailor canta proprio nel finale in piedi sul cofano di una macchina (e a cantarla è l’attore), chiedendo implicitamente a Lula di sposarlo (nel frattempo, mentre Sailor scontava la pena, è nato un bambino). Già, il finale incriminato (oggi: uno dei finali più belli della storia del cinema). Un po’ come accade in Velluto blu, Lynch non si accontenta di “finire bene”, svoltando più o meno inaspettatamente il melodramma in commedia romantica, per quanto bruciata. Come nel film del 1986, trasforma l’happy end in una specie di rito e di spettacolo e di sogno a occhi aperti, interpretando alla lettera, e quindi, fatalmente, per eccesso, il senso profondo, e quindi l’ideologia, di questo frammento narrativo con cui il cinema hollywoodiano classico ha ermeticamente sigillato migliaia di film – un po’ “e vissero tutti felici e contenti”, un po’ “la messa è finita, andate in pace”. Così, prende Sheryl Lee (che ha da poco trasformato in Laura Palmer), la veste da Good Witch, la fa scendere da un cielo cobalto e le fa recitare una classicissima sequenza di battute lynchiane a beneficio di Sailor: Lula ti ama, tu ami Lula, non avere paura, lotta per i tuoi sogni, non voltare le spalle all’amore (in Velluto blu: «Guarda, sono tornati i pettirossi»). È un sogno, o forse no, potrebbe anche non esserlo, impossibile stabilirlo (più che altro, inutile): perché quest’ultimo riferimento a Il Mago di Oz – molti altri punteggiano il film, con Marietta (Diane Ladd), la madre di Lula (e la madre di Laura Dern…), trasformata nella Wicked Witch of the West – è volutamente letterale e, insieme, sghembo. Altro attentato al cinema hollywoodiano classico e alla sua visione del mondo: quel confine nettissimo tra sogno e realtà (bianco e nero vs. colore) su cui si gioca tutto il film del 1939, e grazie al quale nessuno si perde nel primo e Dorothy può alla fine riordinare tutto, dando un volto famigliare al perturbante fantasy technicolor, in Cuore selvaggio si sfalda e consuma, e così Lula, dopo la sadica seduzione di Bobby Peru (William Dafoe), batte davvero tre volte le scarpe rosse, perché gli incubi, come i sogni, non stanno (più) nascosti dietro una porta e, anzi, sarebbe ingenuo pensarlo (e perché, va da sé, quel cinema hollywoodiano è ormai molto più che una citazione). Lynch riutilizzerà il film di Victor Fleming dieci anni dopo, come palinsesto di Mulholland Drive (che non è un sogno dal quale, a un certo punto, Betty/Diane si risveglia), lavorando in modo ancor più sottile su quello sconfinamento e sulla dolorosa porosità che esso consegna alla vita.
Cuore selvaggio ha appena compiuto trent’anni – per l’esattezza, uscì il 17 agosto 1990 –, ma in tutto questo tempo l’opinione comune non è cambiata granché (anzi, l’anniversario ne è stata una conferma): resta, anche per i fan più accaniti del regista, un Lynch minore – per molti, l’unico Lynch minore, anche perché “perfettamente postmoderno”, e ai critici cinematografici italiani la parola non è mai piaciuta. In realtà, assieme a Velluto blu, Cuore selvaggio è il film che prepara tutto il resto, nel quale Lynch scatena per la prima volta (o, almeno, per la prima volta in modo tanto sfacciato) quel gusto per l’eccesso formale, la deformazione strutturale, l’incastro spigoloso tra la realtà e le sue alternative che avrebbero contraddistinto tutta la sua filmografia successiva. Senza contare il gioco sulla memoria, e cioè sul tempo e cioè sul tempo delle immagini, che a distanza di poco meno di trent’anni avrebbe ripreso – dopo averlo ulteriormente provato in Una storia vera – e trasformato nel senso profondo del terzo Twin Peaks (rivedersi 25 anni dopo).
Rispetto al filo dritto steso da Gifford nel romanzo, Lynch bucherella tutto il film con pezzetti di ricordi che bruciano (altro fuoco) e pungono e rimbalzano, sbagliati o imperfetti o parziali (sempre e comunque soggettivi), da un personaggio a un altro, incrinando in altro modo la tenuta del racconto e l’ingranaggio delle cause e degli effetti e cioè, in definitiva, l’idea che il cinema debba fermarsi alla superficie delle cose (al realismo secco di Gifford, nella fattispecie), anziché spingersi a pensare la realtà come sarebbe impossibile fare altrimenti. Lula batte davvero le scarpette rosse tre volte. La strega buona compare davvero in cielo a consolare e a spronare Sailor (e molti altri davvero, tra i quali: il passato non è davvero, semplicemente, passato). Anche per questo – per questa idea in fondo semplice e pura che il cinema debba liberarsi delle parole e dei romanzi, del buon senso e del buon gusto, delle linee dritte e delle forme pulite per fare quello che solo lui può e sa fare –, Lynch è davvero l’ultimo dei romantici. E sicuramente non ha mai fatto un film minore.