Piccole donne è stato il primo libro che ho letto da bambina e l’unico che poi, mentre crescevo, ho riletto più e più volte. Avevo addirittura imparato a memoria alcuni passaggi ed ero in grado di riconoscere quando chi me li leggeva ad alta voce, per stanchezza o sfinimento, saltava qualche frase. Il primo regalo da grande che ho ricevuto dai miei genitori è stata la videocassetta dell’adattamento cinematografico del ’33 con Katharine Hepburn: l’ho guardata in loop per giorni interi come fino a quel momento era toccato in sorte solo ai classici Disney.
Meg, Jo, Beth ed Amy hanno continuato a far parte della mia vita anche quando sono passata a letture più impegnative: ho letto la loro storia in lingua originale, ho recuperato versioni audiovisive quasi ignote e rivisitazioni moderne dei romanzi. È naturale quindi che non potessi perdermi il film di Greta Gerwig e che anzi fossi pronta per andare al cinema il giorno stesso dell’uscita nelle sale italiane.
È stato proprio mentre mi preparavo per uscire, piena di entusiasmo, che il mio coinquilino, incuriosito, mi ha chiesto: Ma di cos’è che parla, questo “Piccole donne”?, e io mi sono ritrovata a pensare a lungo prima di riuscire a elaborare una risposta così diretta su un’opera che conosco tanto a fondo. Non è stato facile ridurre a una trama le avventure delle sorelle March, e alla fine la mia risposta è suonata più o meno come «È la storia di quattro sorelle che affrontano le difficoltà della vita e cercano di migliorarsi e realizzare i propri sogni». In quel momento ho realizzato che Piccole donne, che tanto mi aveva fatto sentire fiera di essere femmina quand’ero più piccola, è, tutto sommato, una storia di donne che non sovvertono l’ordine delle cose e non cambiano il mondo come vorrebbero.
Da ragazzina, la scena conclusiva di Piccole donne crescono mi sembrava un finale perfettamente sensato per la vicenda, con la madre che diceva di non poter immaginare, per le sue figlie, una felicità maggiore di quella che stavano vivendo: tutte sposate, con figli e impegnate in un progetto caritatevole come la scuola per ragazzi disagiati di Jo. A ripensarci da grande, l’immagine risultava molto più stridente e imperfetta: dov’erano finite le ambizioni di Jo, che voleva diventare una grande scrittrice e che per prima mi aveva insegnato ad avere passione mentre inventavo le mie storie, e perché Amy aveva abbandonato il sogno di essere una pittrice? Non erano diventate, per necessità e non per scelta, tutte e due molto più simili a Meg di quanto avrebbero voluto?
Questa consapevolezza mi ha colpito proprio prima di vedere il film e mi sono chiesta all’improvviso cosa queste ragazze fuori moda e fuori tempo avessero da dire a una giovane del 2020, e come la loro storia potesse essere raccontata oggi senza essere snaturata, ma senza neanche apparire anacronistica e vuota. Ho iniziato quindi a vedere il film con più cautela di quella che avevo all’inizio e ho lasciato che Greta Gerwig fugasse piacevolmente i miei dubbi, nonostante non abbia potuto evitare di gesticolare per l’indignazione quando ho capito che il bellissimo Louis Garrel recitava il ruolo del professor Bhaer, futuro marito di Jo, che avrebbe dovuto essere vecchio e poco attraente.
La regista ha probabilmente centrato l’unica chiave di lettura che poteva rendere le protagoniste di Louisa May Alcott contemporanee e vive senza stravolgerne la natura. Ha cioè puntato i riflettori su tutto ciò che rende Piccole donne una storia di formazione.
La trama principale del film è quella di Piccole donne crescono, mentre le tribolazioni domestiche di Piccole donne, che hanno effettivamente una struttura episodica più che un intreccio da romanzo, compaiono sotto forma di flashback sapientemente piazzati al momento giusto. Si rinuncia quindi alla pretesa, che tende a rovinare tutti gli altri adattamenti, di mostrare assolutamente tutto quello che c’è nei libri. Della fonte si coglie invece l’essenziale e lo si modella per dar forma ad una narrazione originale.
Emerge quindi prepotentemente il conflitto tra Jo ed Amy, interpretate dalle fantastiche Saoirse Ronan e Florence Pugh. La Meg di Emma Watson e la Beth di Eliza Scanlen appaiono vagamente oscurate dalle altre due, nonostante tutti i personaggi siano caratterizzati anche con pochi dettagli ben posizionati.
In tutte le mie riletture del romanzo non ho mai messo in dubbio che il mio personaggio preferito fosse Jo: la sua determinazione e la sua costanza mi hanno fatta innamorare fin da bambina, ed è possibile che abbia cominciato a voler scrivere proprio per imitarla. Questo film mi ha invece fatto rivalutare il personaggio di Amy: ho sempre considerato la più piccola delle sorelle March come il doppio di Meg, vanitosa e pratica, mentre la controparte di Jo era la più spirituale e profonda Beth.
Nella versione di Greta Gerwig c’è un’attenzione particolare all’ammirazione che Amy ha sempre nutrito per la sorella maggiore, con cui d’altra parte condivide l’ambizione artistica e rispetto alla quale fa forse un passo avanti, nel momento in cui ammette di non avere il talento per diventare una pittrice di fama mondiale e si concentra sulla ricerca della propria misura nel mondo.
In questo, Amy è modernissima: come non riconoscersi, in qualsiasi secolo, in un conflitto tra quel che si vuole essere e quel che si ha la capacità di diventare? E d’altra parte solo nella nostra epoca, in cui fortunatamente la vanità e l’attenzione all’aspetto fisico iniziano a smettere di essere considerati sinonimi di stupidità, il suo personaggio poteva essere apprezzato e raccontato fino in fondo.
Un’altra sfida importante nella trasposizione è la gestione del destino di Jo: come rendere credibile che alla fine decida di sposarsi e di adattarsi a un destino non troppo diverso da quello di Meg? La sua scelta appare forzata anche nel libro, ed effettivamente lo è: Louisa May Alcott stessa era stata costretta dal suo editore a far sposare la protagonista del romanzo, pena il ritiro dell’offerta di pubblicazione. Il film inscena un abile gioco metaletterario partendo da questo aneddoto e riesce a convincere lo spettatore al grido di Marriage is an economic proposition [Il matrimonio è una questione economica], unica concessione alla denuncia dell’oppressione femminile in un’opera in cui le donne appaiono invece il più possibile artefici del proprio destino.
Se è vero che i classici si riconoscono dalla loro capacità di trasmettere qualcosa in epoche diverse da quella in cui sono stati scritti, Piccole donne di Greta Gerwig sancisce una volta per tutte che le sorelle March sono ben più di un modello per le giovinette dei tempi passati e che la loro storia di formazione è universale oltre ogni barriera di tempo e di genere.