Una bambina cammina lungo il corridoio di una casa di riposo, salutando le ospiti camera per camera, fino ad arrivare a una stanza in cui una giovane donna sta radunando gli oggetti della madre appena deceduta. È la nonna che la bambina non è riuscita a salutare. Inizia così Petite maman, il quinto lungometraggio di Céline Sciamma, distribuito in Italia da Teodora e MUBI, e che ha recentemente vinto il premio come miglior film Alice nelle città 2021. Una scena a cui la regista francese ha iniziato a pensare qualche anno fa mentre lavorava al Ritratto di una giovane in fiamme (2019). Prima un’idea, poi un’immagine che si è arricchita di elementi ulteriori, alcuni attinti dall’esperienza personale, altri, come spesso accade con i suoi film, parte di un sentire comune. Impossibile oggi seguire la bambina lungo quel corridoio e non avvertire il peso della separazione che la pandemia ha operato tra le generazioni, rendendo estremamente attuale e urgente l’elaborazione di un trauma collettivo. Come scrive Sciamma nelle note di regia, dopo aver ripreso in mano la sceneggiatura a metà del 2019, il film era diventato improvvisamente urgente, soprattutto per i bambini e le bambine, oggetto negli anni di tutta una serie di misure restrittive e di contenimento: «una scuola militarizzata dopo gli attentati, le diverse ondate del #MeToo, l’ultima delle quali lз interpellava direttamente, le varie crisi del Covid-19. Se i politici non si sono mai rivolti espressamente a loro, i bambini e le bambine hanno vissuto e capito tutto. Per me è fondamentale includerlз, donare loro delle storie, guardarlз e collaborare con loro».
Petite maman è la storia di un incontro tra due bambine, interpretate magistralmente dalle gemelle Joséphine e Gabrielle Sanz, oltre i vincoli di spazio e tempo. Nelly, 8 anni, torna nella casa d’infanzia della madre, Marion, dopo la morte della nonna. Una casa sul limite di un bosco, in cui Marion da piccola passava le giornate costruendo una piccola capanna che Nelly ritrova e in cui fa un incontro inaspettato, una bambina della sua stessa età, che le assomiglia molto e che si chiama Marion come la madre. Un film letteralmente ad altezza di bambina che dà una diversa profondità di visione e che non si pone mai in una forma di verticalità al ribasso. Un piccolo film di soli 72 minuti per mostrare il punto di vista infantile, mai banale né scontato, sui legami familiari, la perdita di qualcunə che si ama, il rapporto con la natura, il ruolo del gioco per capire chi si è per sé e per chi ci sta accanto. Per Céline Sciamma i bambini e le bambine sono complessi, consapevoli, in grado di comprendere quel che accade intorno a loro. E vanno presi sul serio. Lo aveva già mostrato in La mia vita da Zucchina (2016), il film in stop-motion di Claude Barras, di cui ha firmato la sceneggiatura: il punto di vista di un bambino, Icare che ama farsi chiamare Zucchina, alle prese con temi scomodi e situazioni di forte marginalità. Non ci sono cose da bambini da non poter raccontare perché poco importanti. «Mi interessa», replica Nelly alla madre. «Sono una bambina». Ogni relazione asimmetrica comporta una chiusura e costringe a performare un ruolo troppo spesso inautentico, ma una via di fuga è sempre possibile, fosse anche solo fantasmatica, per ritrovare l’equilibrio, liberare il desiderio, allontanare la malinconia, e sperimentare la reciprocità di un legame che ha radici antiche. Per Céline Sciamma è questo alla fine il ruolo del cinema, consentire l’apertura di un varco verso uno spazio-tempo in cui rendere reali e incarnati sia i ricordi sia i sogni.
Come spesso accade nei film di Sciamma, la trama ruota attorno alle potenzialità perturbatrici delle trasformazioni messe in moto dall’incontro con l’altrə. Non c’è sviluppo possibile se non ci si apre all’alterità, anche quando questa assume una forma familiare e al tempo stesso inconsueta, quella perturbante del doppio. Si apre a un’estetica dell’uguaglianza che non disdegna sfumature horror nell’ambientazione e richiami sci-fi nella trama, ma in fondo la regista ci ha abituata all’hackeraggio persistente di tutti i codici che chiudono in recinti identitari. Se il desiderio, come spesso ha affermato, è politico, l’incanto è dato dalla comprensione, che contiene, come la verità, una bellezza intrinseca. Non è una questione di lieto fine, che non c’è quasi mai, ma di potenzialità trasformative, di riuscire alla fine a conquistare la libertà di essere se stessз. «Un ribaltamento delle dinamiche di potere fin troppo note per assecondare un diverso sviluppo della storia in grado comunque di mantenere alta la suspence e intrattenere chi guarda. Trattare le personagge in modo paritetico, evitando le gerarchie distruttive che incastrano le trame in narrazioni tossiche, porta sullo schermo relazioni d’amore, amicali, filiali non convenzionali. Un metodo, precisa Sciamma, che “può essere applicato a tutti i tipi di film e personaggi, ma sono abbastanza sicura che sia collegato al fatto che sto scrivendo storie basate sulle donne. Le donne sono state oggettivate dalla fiction e dal patriarcato nel corso della storia, quindi restituire loro il loro status di soggetto, la loro soggettività, significa restituir loro i desideri. Le eroine non hanno le stesse opportunità degli eroi quando si tratta di pensare e progettare la propria libertà. La fiction non è uno spazio sicuro per i personaggi femminili […] quindi, se vuoi raccontare le loro storie, non è importante dove vivono – perché raramente hanno l’opportunità di vivere liberamente, specialmente se si tratta di un film in costume – è importante cosa provano, come vivono una data esperienza» . È tutta una questione di desiderio, di un sentire condiviso in modo orizzontale, tra pari, che tanto ci pare rimandi al female gaze teorizzato da Joey Soloway»[1].
Petite maman non usa artifici per raccontare il viaggio nel tempo, perché il film stesso è la macchina di questo viaggio. Come ha detto Sciamma in un’intervista, ogni film è una scultura del tempo per citare Andrej Tarkovskij e Petite maman è anche un omaggio all’infanzia del cinema, a quel realismo magico delle pioniere del cinema (Alice Guy, Mabel Normand, Germaine Dulac), che hanno inventato il cinema di finzione e in cui la magia è nel montaggio. In Petite maman la regista, coadiuvata dal montatore Julien Lacheray, fa in modo che sia il taglio a tele-trasportare i personaggi rendendo possibile il loro incontro. La questione del tempo è centrale nella filmografia della regista francese; basti pensare alla trilogia dell’adolescenza – Naissance des pieuvres (2007), Tomboy (2011), Diamante nero (2014) – dove il tempo è in attesa, una trasformazione in potenza colta nel momento del passaggio, a volte doloroso a volte liberatorio, all’età adulta, oppure al Ritratto di una giovane in fiamme in cui il tempo è sospeso su un presente che vive nel ricordo.
Ecco che, dopo la trilogia, il tempo implode e perde la sua linearità. Se nel Ritratto di una giovane in fiamme il tempo recideva il legame tra le due amanti, in Petite maman il tempo è condiviso e rende possibile il materializzarsi di una genealogia femminile che consente incontri multipli tra le generazioni. Certo una frattura permane; niente mai per Sciamma dura un tempo senza fine. Anche le due bambine dovranno necessariamente separarsi e tornare ognuna alla loro vita e al loro tempo. «Non ci sarà un’altra volta», dice Nelly al padre che consiglia alle due bambine di rivedersi in un altro momento per fare le crèpes e stare ancora un po’ insieme. Gli incontri, in quella loro forma ideale di totale affinità elettiva, sono sempre destinati a finire. Perché è solo dalla loro fine che diventa possibile la trasformazione personale, la liberazione del sé dalle costrizioni sociali che la norma sempre impone, soprattutto alle donne. Alla loro vita e al loro tempo, ci torneranno, madre e figlia, con una consapevolezza diversa, una più profonda conoscenza reciproca che permetterà loro di abbracciarsi, chiamandosi semplicemente per nome.
«Vieni dal futuro?» «Vengo dal sentiero dietro di te»
Il tempo condiviso tra Nelly e Marion consente loro di fare esperienza della propria storia, mediante i ricordi, consegnandole insieme a un presente forse più comprensibile per entrambe. Il desiderio di un rapporto autentico è profondo e generato in uno spazio relazionale di reciproca fiducia in cui nessuna è esclusa. Le varie generazioni di donne – la nonna, la madre, le bambine – tutte legate attraverso molteplici e differenti forme di oppressione/ liberazione si guardano e si riconoscono. E in questo c’è forse un parallelismo con il rapporto che Céline Sciamma stabilisce con le registe del passato. In un’intervista, alla domanda su quali autrici abbiano contribuito alla sua crescita, la regista francese dice che per lei «è forse più interessante rispondere al presente con tutto quello che ho scoperto in termini di storia e cultura della regia delle donne che all’epoca neppure conoscevo e che mi permette di fare dei collegamenti con delle opere che scopro oggi. Questa è la ragione per la quale voglio citare il lavoro di registe di cui non avevo visto i film, come Alice Guy, Mabel Normand, Chantal Akerman, Yannick Bellon, Germaine Dulac, Marie Epstein. (…) Ci sono cose che non sono state trasmesse ma che sono state recepite, in un modo o nell’altro»[2]. È per questo che preferisce non parlare di influenze, ma di punti in comune, per stabilire una genealogia non verticistica ma diffusa della cultura e delle visioni delle artiste. Ricostruire la genealogia femminile rimossa attraverso cui fornire alle donne gli strumenti, i codici, i riferimenti per dirsi e rappresentarsi, riconoscendosi come duale (Adriana Cavarero) o come plurale (Judith Butler). Nelly e Marion recuperano, e lo fanno non a caso navigando le acque del fiume Oise per raggiungere la cavità uterina del complesso Axe Majeur di Cergy Pontoise (luogo di origine di Sciamma), il legame madre-figlia dandosi reciprocamente (alla) vita.
[1] Federica Fabbiani, Chiara Zanini (a cura di), Architetture del desiderio. Il cinema di Céline Sciamma, Asterisco, Milano 2021, pg. 9
[2] Federica Fabbiani, Chiara Zanini (a cura di), Architetture del desiderio. Il cinema di Céline Sciamma, già cit., pg. 138.