Ne ho fatto, oggettivamente, quasi un’ossessione. Una piccola ossessione. Dalla prima visione di Il sol dell’avvenire sono uscito stordito e commosso, e mi sono domandato subito: e chi non è “novecentesco” come lo vedrà? Avrei, se non fosse stato complicato, chiamato a raccolta un drappello di ventenni perché vedessero il film e mi offrissero la loro recensione a voce e a caldo.
Così, nei giorni successivi all’uscita in sala, ho cercato di leggere il più possibile: commenti casuali, pezzi su blog di cinema più o meno qualificati, recensioni di diversa provenienza e natura. Non mi aspettavo questo profluvio: raro, oggettivamente, che un film – negli anni Venti del secolo in corso – scateni un autentico dibattito. Con l’ultimo Moretti è accaduto, e un’ansia di posizionamento da social ha caricato la discussione.
Dove si moltiplicano le opinioni, è naturale e inevitabile che si mescolino acume e sciatteria, approssimazione e competenza, reale partecipazione intellettuale e presunzione esibizionistica. Certo, un conto è carpire, con la coda dell’orecchio, i commenti degli spettatori all’uscita del cinema – considerazioni spesso masticate male, malissimo, fastidiose per superficialità, per come si confondono spesso con le preoccupazioni pratiche (dove abbiamo messo la macchina? Dove mangiamo stasera?). È terribile, ma è umano.
Nero su bianco, come si diceva una volta, fa tutto un altro effetto. E d’altra parte solo da un quindicennio esiste questa sovraffollata tribuna web. Mi dico, come se il film fosse mio: lascia stare, non leggere, disintossicati. Penso alla scena del Sol dell’avvenire in cui il personaggio interpretato da Nanni Moretti si accosta a un ragazzetto, che ha appena finito di vedere La Dolce vita e già fa le pulci al film, e gli dice all’orecchio: «Piantala di dire scemenze!». Penso che non posso permettermelo, non posso fare il moralizzatore dei commenti e che però sì, in un sogno quasi cinematografico, farei in modo che partisse un fastidioso allarme a ogni considerazione fuori asse: «Piantatela di dire scemenze!».
Non è democratico, va bene. Lasciamo che chiunque pronunci le sue scemenze – tanto le dimentica appena dopo averle pronunciate. Come stille di saliva, nuvole di fumo sbuffate, tossine espettorate. Amen. Resta il film, non i commenti. E tuttavia non riesco a rassegnarmi totalmente all’idea che – almeno chi scrive sotto una testata, di carta o digitale-aerea che sia – debba provare a fare di meglio, a non inquinare ulteriormente un’aria già così inquinata. Se la scuola ci ha saggiamente allenato al riassunto-commento, perché non mettiamo in pratica da adulti qualche aurea regoletta? Perché non connettiamo meglio ciò che abbiamo compreso (se abbiamo compreso) all’opinione che ce ne siamo fatti?
Una questione di igiene pubblica. Esagero? Forse. E però mi pare che il Lettore professionale di oggetti culturali, il Recensore, o chiunque si voglia tale, dovrebbe assumersi la responsabilità di non essere l’alter ego del commentatore istintivo e occasionale. Non è una questione di elitarismo, ma di strumenti: se li si possiede, non c’è nemmeno bisogno di esibirli. Così, se resta indiscutibilmente vero che «anche l’opera più mediocre ha più anima del nostro giudizio che la definisce tale» (il critico Anton Ego in Ratatouille, Disney Pixar), il punto è anche cercare di cogliere e interrogare l’anima. Prima di arrivare alla sentenza.
In questo senso, di una qualità talvolta solo deludente e talvolta imbarazzante mi sono sembrate le recensioni a Il sol dell’avvenire ospitate anche da riviste di qualche autorevolezza (Rivista Studio, Esquire, Le parole e le cose, ecc.). E sintomatiche dei tempi in cui ci si veste da influencer anche quando si è sconosciuti: «Nanni Moretti non ha più niente da dire» sentenziava uno dei titoli più lunari, in cima al pezzo in cui un trentenne bofonchiava la sua verità stizzosa. Così come l’autore di un pezzo intitolato “Ritratto di Nanni Moretti da vecchio” ci raccontava che Moretti lo annoia come lo annoiano i discorsi di suo padre. Una roba così.
Ti prego, portami da qualche parte che non sia casa tua, portami dove si possa capire qualcosa – avrei voluto dire all’autore del pezzo – offrimi una lente, una prospettiva, un barlume di emozione, un guizzo di intelligenza. Vuoi stroncare, approdare a un giudizio negativo? Bene, è lecito, ma non farmi sentire tra le righe la tua inerzia intellettuale, la tua noia, l’acidità di stomaco. Ti prego! I trenta-quarantenni “professionisti” non hanno brillato, alla prova del nuovo Moretti. E i loro padri nemmeno: risentiti, infastiditi forse dalla loro stessa senilità: sono gli stessi che all’anteprima di un film di Pupi Avati si profondevano in commenti penosi sulla Edwige Fenech che fu. Catarrosi, patetici. Aridi. Mi stavo vergognando per loro.
È che letteralmente sprofondo nella tristezza quando mi accorgo che chi lavora con gli oggetti culturali diventa stronzo. Ma santo dio, dovresti divertirti, è un lusso, è un privilegio, restare appassionato, provare di continuo a tenere desta la parte migliore di te, e invece scrivi roba sciatta, anemica, risentita? Dove il millennial (parlo come parte della categoria) gioca di presunzione, il padre boomer gioca di disincanto e noia. Ma trattasi di noia esistenziale, più che di noia derivata dalla visione del film. È un gran pasticcio. Tanto più quando l’oggetto culturale è complesso, stratificato, iperconsapevole come il film di Moretti. Tanto più quando propone comunque un’idea di opera alternativa al pur legittimo e nudo-e-crudo intrattenimento. Tanto più quando un’articolazione stilistica simile – arrivando a centinaia di migliaia di spettatori – fa sentire meno solo l’azzardo “sperimentale” del regista giovane, la sua scommessa sulla personalità, sulla singolarità, e forse fa sentire meno solo anche uno scrittore che non pensi al romanzo solo come a una storia fatta di turning point. Non mi riferisco alla famigerata scena in cui il regista Giovanni è al tavolo con i capi di Netflix. No, mi riferisco proprio alla libertà compositiva che il film emana: quella che l’acutissimo recensore di turno ha definito, per dire, effetto patchwork come se fosse qualcosa che ti esplode fra le mani, di non voluto, quando è per l’appunto un modo di raccontare. La tristezza e un filo di rabbia mi vengono per come – nella piena legittimità delle opinioni sfavorevoli – non ci si impegna a difendere in assoluto, al di là di uno specifico risultato, un certo modo di fare cinema. Un certo modo di fare letteratura. Un’alternativa. Non so più chi assimilava la necessità di proposte diverse nei campi espressivi all’opportunità che, in una dieta sana, non ci si nutra solo di pur appaganti Big Mac Menu.
Invece te ne stai lì a ghignare, a lamentarti, a sbuffare – segno di un’epoca di insofferenza a tutto, sempre plateale e carica di nervosismo (pensate a tutti – TUTTI – gli ambienti di lavoro, al clima che si respira). Te ne stai lì a perdere tempo, a dire – ai tempi di Tre piani – che rivolevi Moretti che faceva Moretti, e ora – davanti al Sol dell’avvenire – ti lagni che fa “troppo” Moretti. Ma piantala e riaccendi il cuore, che è in blocco. Piantala, e raccontaci anche solo dell’unica scena che ti ha fatto generare un pensiero buono, fresco, vitale, che ti ha disarmato, che ti ha fatto ridere, capire. Che ti ha fatto sentire vivo, più vivo per due minuti di come tornerai a essere quando ti rimetti davanti al computer.
E ora non posso cavarmela, dopo la lunga tirata, senza provare a produrre un eccentrico questionario sul Sol dell’avvenire a uso retroattivo del recensore boomer o millennial inacidito. Mi auguro non abbia lo stesso effetto di quell’orrida recensione che Moretti, in un suo film, leggeva per torturare il critico che l’aveva prodotta:
Hai fatto caso al momento in cui Ennio, dirigente del Partito comunista italiano (Silvio Orlando), attende ansioso, preoccupato, che si accendano le luci nel quartiere Quarticciolo, segno dell’arrivo della luce elettrica? Prova a sostare in quell’attesa, a leggerla, a comprenderla.
Hai fatto caso al momento in cui Ennio interroga i nuovi iscritti al Partito? Alla sua faccia, alle loro facce? Le parole vengono da questionari veri pubblicati su “Vie Nuove”. Non è strano che non ti si spezzi un po’ il cuore?
Hai fatto caso al modo in cui Ennio, quasi correndo, raggiunge lo spiazzo in cui è installato il circo ungherese Budavari, i cui artisti hanno deciso di incrociare le braccia per protesta contro l’invasione sovietica dell’Ungheria? Non si smuove nulla in te? È un vero peccato.
Hai fatto caso al momento in cui il regista Giovanni, sognando di fare un film pieno di canzoni su una storia d’amore lunga mezzo secolo, dà le battute a una ragazza (Blu Yoshimi) che discute col suo fidanzato? Potrebbero metterti in discussione più di quanto tu sia disposto a credere. Ti va di provare a non essere quello che dice scemenze su La dolce vita?
Hai fatto caso alla scena in cui il regista Giovanni, quasi arreso ai problemi del film che sta girando, palleggia solitario al tramonto nei pressi delle scenografie? Mi pare che possa bastare pensare a quella per tacere a lungo e fare i conti con la propria intera vita. Con il senso delle cose che proviamo a fare, con il senso di ciò che proviamo a essere.
In subordine, non ti pare che dica anche quanto si è soli pur stando fra gli altri?
Hai fatto caso a tutto ciò che non è la tirata sui sabot, il gelato, la lunga scena-lezione sulla violenza al cinema, la scena su Netflix? Hai dato qualche possibilità ai dettagli? Alzate di sopracciglia, silenzi, sorrisi?
Ti è venuto in mente che la sfilata finale, anziché derubricarla come felliniana, nostalgica, testamentaria, auto-celebrativa o boh, sia anche un modo di dire una parola impegnativa e necessaria come “grazie”?
Non dico che sia questo, ma magari è un’alternativa alla prima cosa che ti è venuta in mente.