Quando la luce in sala si accese – oltre al solito accecante rivelarsi delle forme dei corpi dopo i titoli di coda su fondo nero – tutti restammo in silenzio, molti gli occhi lucidi. La sala era gremita come lo erano quasi tutte in quell’inizio primavera del 2001. Non era delusione, anzi tutti ci ritrovammo attraversati da una forma di stupore unita a una terribile sensazione di impotenza. E credo che fu da allora che in molti iniziammo a difenderci e ad abusare di un eccesso di difesa.
Quando la famiglia si disperde sul grigio lungomare nel finale di La stanza del figlio in qualche modo noi spettatori tirammo tutti un sospiro di sollievo, qualcuno addirittura ipotizzò una sorta di lieto fine, nonostante i protagonisti fossero abbandonati chiaramente a se stessi.
La stanza del figlio, uscito vent’anni fa, rappresenta una svolta nel cinema di Nanni Moretti, che con la realtà ha sempre giocato a viso aperto. Per molti fu un ritorno al privato, per molti fu la perdita di un personaggio amato e politico come Michele Apicella. Il film fu un trionfo di pubblico e di critica, vinse a Cannes e proiettò forse per la prima volta Nanni Moretti davanti a un pubblico generalista e globale arrivando fino alle soglie dell’Oscar. Subito dopo, come spesso accade, il film fu violentemente criticato e oggi lo è soprattutto da un certo tipo di critica prevalentemente accademica, ricca di strumenti e povera di sguardo, che ritiene La stanza del figlio sopravvalutato e sostanzialmente banale.
Di certo ogni volta che si ripercorre la carriera cinematografica di Nanni Moretti, La stanza del figlio è segnalato esclusivamente come nodo: prima i film erano in un certo modo, poi in un altro. Di prima ci si ricorda tutte le battute, del dopo solo che sono tutti borghesi di sinistra. Se si pensa a Moretti si pensa alla vespa, all’acqua alle piante, a Remo Remotti e alla sua figura morale e icastica che si staglia davanti alla cinepresa accusando e indicando, spiegando e ordinando. Con La stanza del figlio tutto questo viene eliso, sfumato, ma non rimosso. Il passaggio Moretti lo compie con cura e con consapevolezza (anche filmica direbbero i poveri di spirito). È un vero e proprio passaggio di stato quello che si compie davanti agli occhi del suo pubblico in quel 2001. Un passaggio dentro al quale pochi si riconoscono, ma a cui molti – loro sì inconsapevolmente – appartengono già da un po’. E da qui parte probabilmente quel sentimento di difesa che si tramuta in una sotterranea negazione di sé e della realtà che arriva – volendo – fino a toccare nei giorni nostri una crisi sociale e politica che non a caso ha terreno fertile proprio in quella sinistra che di Moretti, almeno fino ad allora, era il pubblico di riferimento.
Ad un tratto Moretti – che viene accusato con una battuta tanto facile quanto efficace di Dino Risi di ingombrare sempre la scena al punto da chiedergli di levarsi da davanti e di lasciarlo in pace a guardarsi un film che altrimenti non sarebbe nemmeno male – si leva da davanti, e con La stanza del figlio lascia al pubblico la possibilità di vedere quel film che non sarebbe troppo male, ma il pubblico invece – soprattutto quello amico – non fa che vedere ancora lui e soltanto lui e quasi lo implora di rimettersi davanti, di mostrarsi una volta ancora.
Non è credibile pensare che quel pubblico amico si sia sentito orfano di una guida, di una figura che gli indicasse ancora una volta come vestirsi e cosa dire; più credibile è pensare che quel pubblico, proprio perché mai gli ha in verità intimato di togliersi da davanti come chiedeva Dino Risi, si sia sentito nudo. Qui non c’erano più vizi da coccolare, pigrizie politiche da mantenere, qui eravamo di fronte a una tragedia. La morte improvvisa di un figlio riguardava infatti chiunque (altro che rifugio nel privato) e ancor più radicalmente le proprie pigrizie politiche, culturali e relazionali.
In buona sostanza, La stanza del figlio spalanca la scena e di Moretti e, scalando, dei suoi personaggi ci offre nella sequenza finale solo la schiena: «A concederci una tregua. Da noi stessi e dagli altri. A farci riscoprire la contemplazione. Osservato di spalle, il mondo tende ad apparire non solo più universale, ma più innocuo; riscopre la pietà, la delicatezza, un certo candore», scrive Eleonora Marangoni nel suo saggio Viceversa. Il mondo visto di spalle (Johan&Levi).
Eppure, le principali critiche al film ricadono su Moretti, sulla figura di un padre troppo equilibrato e autocentrante, quando già il titolo indica uno spazio, la stanza, dentro al quale evidentemente nessuno ha il coraggio – è lo spazio del tragico – di perlustrare e indagare. E così sarà anche nei film seguenti, una sorta di continuo richiamo-implorazione: dai Nanni rimettiti davanti!
Ma qui succede che siamo nel 2001, nel nuovo secolo, e quello che accadrà nei successivi vent’anni ha più a che fare con il tragico che con la parodia. Il governo Amato figlio della caduta del governo Prodi e del sostanziale fallimento di quello D’Alema sta spalancando le porte al secondo governo Berlusconi e a una maggioranza di centro destra strabordante. La tensione nel Paese è alta, ma parallelamente vive una forma di allegria, il movimento no global in tutti i suoi aggregati sta dando forma a un’utopia della realtà per chi allora ha all’incirca vent’anni. Sono giovani di sinistra, sono laici e religiosi. Si discute molto, ma con una forma di leggerezza non scontata. Quello che è la politica del quotidiano passa sopra le teste e soprattutto non tocca palla, non incide per davvero nella realtà di chi vede la crisi ecologica e la necessità di un rinnovamento democratico come prioritari. Non è più il tempo di battaglie di retroguardia, ma al tempo stesso si crea una frattura – forse ovvia visto che si parla di padri e figli, di madri e figlie – tra i quaranta/cinquantenni e i ventenni. Le parole non sono più le stesse, anzi come nel più classico dei copioni, i giovani accusano i vecchi di aver dimenticato le parole per davvero importanti e necessarie.
In questo movimento, il Novecento assume l’ossatura stanca di un pachiderma morente (e per fortuna) per chi vi ha buttato dentro la propria giovinezza, ma per chi vent’anni li ha nel 2001 è un bacino inesauribile di contenuti utilissimi (e bellissimi), di parole e di persone da prendere a riferimento. E se Nanni Moretti non onora più con la sua vespa Pier Paolo Pasolini preferendogli il minimalismo di Raymond Carver è solo affar suo.
Una scena nella pellicola è molto indicativa, ed è quando Giovanni – lo psicanalista interpretato da Moretti – apre una serie di porte che dallo studio lo portano direttamente a casa. Quel passaggio è stato interpretato come l’esemplificazione classica di una mollezza borghese che con il gesto facile del piegare una maniglia avanza stancamente e quotidianamente senza nemmeno più il peso minimo di un po’ di alienazione. Eppure, credo che ancora di più oggi quella sequenza non possa che evidenziare l’angoscia impalpabile dell’attesa di una tragedia. Un’attesa costruita passo dopo passo, un’attesa certamente anche colpevole eppure priva di una possibilità d’uscita almeno al punto in cui la Storia sta prendendo un’inarrestabile e devastante velocità.
In quel 2001 Francesco De Gregori pubblica Amore nel pomeriggio. Sono passati cinque anni dal precedente lavoro in studio Prendere o lasciare. De Gregori è della stessa generazione di Moretti e anche lui sta cambiando pelle. La prima canzone è una ballata dal titolo L’aggettivo “mitico”, con un gusto di perverso giovanilismo parrebbe, ma la canzone di cui tutti parlano è Il cuoco di Salò, al punto che De Gregori deve difendersi dalla risibile accusa di rivalutare la repubblica sociale italiana. Anche qui, come con La stanza del figlio, sembra che non solo sfuggano le intenzioni, ma si palesi una sfiducia evidente verso un’identità e una storia che si avverte esaurita e ormai incapace di dire alcunché. E le svolte, se così si possono definire, di Moretti e di De Gregori vengono giudicate più dei tradimenti che dei tentativi, più degli opportunismi che il proseguimento di un percorso artistico.
Eppure – anche qui – se si riascoltano i testi ci si accorge che L’aggettivo “mitico” canta:
«Gli uomini di scienza e i manipolatori
La sanguinaria guerra dei predatori
E la serena guerra degli aviatori
E gli uomini col machete sui fuoristrada
Gli uomini a piedi nudi lungo la strada
Gli uomini col machete sui fuoristrada
Gli uomini a piedi nudi lungo la strada
La fuga degli animali, l’inondazione
E la foresta che diventa fumo
E le stelle pakistane che esplodono sulla frontiera
E tutto che ritorna uno…»
E che la canzone successiva, Canzone per l’estate, è scritta nel 1975 già interpretata da Fabrizio De André ed evidentemente non presente per caso in Amore nel pomeriggio, per la prima volta nella versione di De Gregori:
«Con tua moglie che lavava i piatti in cucina e non capiva
Con tua figlia che provava il suo vestito nuovo e sorrideva
Con la radio che ronzava
Per il mondo cose strane
E il respiro del tuo cane che dormiva.
Coi tuoi santi sempre pronti a benedire i tuoi sforzi per il pane
Con il tuo bambino biondo a cui hai donato una pistola per Natale
Che sembra vera,
Con il letto in cui tua moglie
Non ti ha mai saputo dare
E gli occhiali che tra un po’ dovrai cambiare
Com’è che non riesci più a volare
Com’è che non riesci più a volare
Com’è che non riesci più a volare
Com’è che non riesci più a volare
Con le tue finestre aperte sulla strada e gli occhi chiusi sulla gente
Con la tua tranquillità, lucidità, soddisfazione permanente…»
È evidente che ci sia, in quello che sarebbe poi stato un anno terribile, una situazione di disarmo che vede aprirsi una frattura insanabile tra una cultura progressista novecentesca che tuttavia avverte i prodromi di una tragedia incombente e l’urgenza di una realtà che chiede soluzioni rapide e inderogabili a ogni livello pena l’inasprirsi di una drammatica crisi economica, sociale e non da ultimo ambientale.
E allora pare quasi inutile qui ricordare che a marzo ci troviamo immersi negli scontri violenti del G7 di Napoli; che, come in un volo di piuma, si arriva al luglio tremendo e assassino del G8 di Genova. Seguirà l’undici settembre di New York, una guerra più lunga e devastante delle due mondiali e che ad oggi non è ancora realmente risolta, una crisi economica paragonabile o forse peggio di quella del 1929, e in quello che viene dopo ci siamo immersi tutti i giorni.
Certo è facile, così in due righe, ma dice anche molto delle possibilità che offre ad esempio un film che cade per coincidenza proprio ora nei suoi vent’anni e che può presentare ancora molto al nostro sguardo. La stanza del figlio può ad esempio essere letto come una sorta di si salvi chi può e ognuno per sé. Un tentativo di fuga per la salvezza che vede tutti i componenti di quella famiglia tentare di scoprire privatamente un modo di salvarsi, ma anche un nuovo modo di essere. Così mentre Moretti si sposta dal centro resta luminosa la presenza – verrebbe da dire con Benjamin – del dilettante o meglio della dilettante. Resta infatti potentemente nell’immaginario comune di quel film lo sguardo, gli occhi di Jasmine Trinca. Resta impressa la figlia, non il figlio, la sorella, non il padre o la madre. La spontaneità inesperta di chi l’attrice nemmeno voleva farla e oggi, dopo il cortometraggio Being My Mom da lei scritto e diretto, sembra percorrere con convinzione la strada della regia. Anche Jasmine Trinca è rimasta a lungo schiacciata nella figura nevrotica di una generazione che ha compiuto quarant’anni senza nemmeno accorgersene e che se pensa alla gioventù pensa sempre a quella dei genitori e che se pensa alla maturità volge il suo sguardo ai nonni che ormai non ci sono nemmeno più.
Nel 2001 esce per Einaudi anche un saggio molto importante, è Settanta di Marco Belpoliti. Il libro si presenta come una sorta di carrellata di figure eccentriche ma sostanziali della storia culturale del Novecento italiano. Il libro è una scoperta e lo è in particolare per gli studenti delle facoltà umanistiche, ma buca anche oltre raggiungendo una platea di ventenni e una fama che se da un lato è tipica per un certo tipo di saggistica, dall’altro risulta sempre più rara e difficile da ottenere.
Tuttavia, il libro viene in parte male interpretato perché se presenta la ricchezza del secondo Novecento, al tempo stesso smonta l’idea di un periodo per l’appunto di piombo e segnato da un grigiore che vede negli intellettuali organici le uniche colonne portanti della società. Il libro rilegge il ruolo dell’omicidio Moro, il mondo culturale che va da Calvino e arriva fino a Gianni Celati, Giuliano Scabia, Furio Jesi e Giorgio Manganelli. Belpoliti sdogana con uno sguardo da antropologo il sotterraneo e il bizzarro contro l’ordinario conformismo ideologico. Questa forza che Settanta riesce a sintetizzare viene tuttavia letta in chiave nostalgica, il che depotenzia non poco il messaggio di apertura e di lotta culturale presente nel libro.
La generazione che poi si troverà marchiata a fuoco dai giorni di Genova sembra così già piegata dal dubbio e dalla nostalgia, una generazione di gente troppo seria e che, come Irene/Jasmine Trinca tende a fare ne La stanza del figlio, si sostiene di mezze frasi e di sguardi lanciati di lato un po’ a capire e un po’ a soffrire, anche senza motivo alcuno.
La stanza del figlio, come molti altri prodotti culturali di quell’anno di cui può rappresentare in parte il senso, è un oggetto di passaggio che tuttavia non sembra essere stato in grado di essere compreso appieno. L’impressione è che sia ad oggi il film più politico di Moretti perché di corpo parla e di corpo tratta, e anche perché nulla concede alle colpe e allo smarrimento dei suoi protagonisti. E da questo 2021 privo di abbracci e vissuto in buona parte distanti gli uni dagli altri l’impressione è che ci sia sempre meno da dire perché è nelle cose che faremo che si potrà riprodurre un linguaggio che si spera più efficace.
Capovolgere lo schema che prevedeva di cambiare il mondo cambiando il linguaggio ora è quasi inevitabile, perché il mondo è cambiato e il Novecento si avvia a essere una palla che va reinterpretata, riletta e riformulata. Il 2001 è l’anno delle ultime occasioni che appartenevano però a un’altro secolo e ad altre generazioni. Quello che è venuto dopo – la tragedia – può essere solo affrontato come attraversamento di un tempo nuovo, scacciando inutili nostalgie e retoriche malinconie.
Il dio che danza (nottetempo), un saggio antropologico di viaggi e visioni del filosofo Paolo Pecere in qualche modo ci avverte proprio della possibilità irrinunciabile che abbiamo in questo momento di reinterpretare e di riscrivere, di ripensare e di maneggiare il nostro enorme e spesso inconsapevole bagaglio culturale ritagliandolo per il nostro piacere e per la nostra necessità, osando e liberando così il campo da un eccesso di comunicazione che ha tramutato il passato in una forma di zombie culturale perennemente incombente e giudicante.
Quella che è stata una mutazione forse incompresa, forse non del tutto compiuta nel 2001, ora si evidenzia in tutta la sua incredibile urgenza. Quella stanza dove oggi ci siamo rinchiusi a lavorare, a fare scuola e a scappare da ogni possibile virus ha bisogno di prendere aria, di essere finalmente riabitata.