Da anni Stefano Arienti costruisce opere di varia e incantevole poesia artistica attraverso la manipolazione creativa di immagini, oggetti e materiali semplici, dedotti dalla storia dell’Arte, dalla cultura di massa e dall’uso comune, di cui reinventa forma, vita e significato.
Di origini contadine e studi scientifici, è divenuto artista nella Milano sperimentale degli anni Ottanta, secondo un percorso strettamente personale e atipico, fattori che contribuiscono a rendere il suo lavoro sia molto preciso che difficilmente classificabile. Le sue opere, varie e imprevedibili, sono mosse da un’instancabile propensione alla ricerca riflessiva e, nella loro semplice e talvolta elementare evidenza, sprigionano un’inconsueta carica evocativa.
Artista visivo internazionale tra i più apprezzati, colto e misurato, Arienti ha saputo costruire un universo d’immagini sostenuto da un approccio rigoroso e analitico affiancato da un’elegante libertà nelle configurazioni, proponendo assonanze e interrogativi con lievi ma precisi spostamenti di senso. Lo abbiamo incontrato in Valle Camonica (dove nel 2018 ha realizzato l’opera Simone Magnolini, per aperto_ art on the border) in occasione dell’inaugurazione dell’intervento site-specific Meridiana, a cura di Massimo Minini, al padiglione Mirad’Or di Pisogne, spazio pubblico comunale di arte contemporanea. L’opera nasce dalla luce solare e invita all’osservazione delle sue mobili linee d’ombra, delineate in forma cromatica.
Come nasce l’idea di realizzare Meridiane, divenute un ciclo artistico?
Fortuitamente. Nel 2012 stavo lasciando il mio piccolo studio in via Pacini a Milano, accanto all’abitazione, e l’ho adibito ad esclusivo laboratorio di pittura. Mentre pasticciavo liberamente col colore o disegnavo, ho usato per la prima volta l’ombra della finestra, che si spostava su un foglio di carta da pacco posato sul tavolo. L’inizio di una serie che, con varie interruzioni, va avanti da allora.
Quali sono gli stimoli che qui ti hanno portato a realizzare un lavoro così estensivo, che occupa quasi interamente lo spazio disponibile?
A Pisogne lo spazio è molto difficile, è praticamente l’opposto dello spazio bianco e neutro tipico per l’arte contemporanea: tante finestre e tanto sole, acqua visibile fin dal pavimento, rumori naturali di vento, onde e uccelli, superfici e volumi irregolari. Bisognava rispondere con un progetto pensato appositamente. Per fortuna avevo appena realizzato un tentativo di meridiana a misura ambiente negli spazi dismessi delle tintorie di Crespi d’Adda, nell’ambito di una mia personale a The Drawing Hall di Grassobbio a cura di Ilaria Bernardi, dedicata proprio alle meridiane. Quindi il 2022 è l’anno dove ho approfondito il mio rapporto con questa serie, portandola a misurarsi con l’ambiente.
Che rapporto credi si stabilisca tra la Meridiana del Mirad’Or e il paesaggio lacustre?
L’elemento più visibile è il colore, che in questo caso si contiene all’interno della palafitta; un secondo elemento è la luce che ho trovato qui, che si riflette sui nastri in raso di poliestere, e che utilizzo per la prima volta. Una vibrazione di luce e colore che ravviva in un punto la vista sull’acqua. Ma non credo che possa essere un rapporto che modifica il paesaggio, come sostiene il curatore Massimo Minini. Quello che, sottilmente, è molto più forte è la continua rilettura della meridiana da parte del sole, che ogni giorno percorre le direzioni tracciate con i nastri. Una specie di percorso prima di tutto per il sole e poi per noi umani.
La possibilità di camminare scalzi sull’opera, richiedendo d’essere poco invasivi, contribuisce a determinare un’atmosfera?
Mi piace molto camminare sulla meridiana, è come camminare sui raggi della luce solare. Guardi in basso e sei in un posto più intimo con una sua dimensione totale, che ti chiede attenzione.
Ti porgo questa domanda perché mi sembra di poter notare nel tuo atteggiamento una costante: l’entrare in relazione con i materiali e gli spazi con grande rispetto, quasi in punta di piedi, per valorizzare più che imporre. Pensi sia così?
Mi piace indagare, usare l’occasione dell’arte per fare scoperte in prima persona e tentare di condividerle. Poi a volte si arriva fino alla grande dimensione o al segno monumentale, ma generalmente il colloquio è più misurato, adatto a stare nella quotidianità invece che al grande spettacolo. Il rispetto, se c’è, arriva dalla necessità di non consumare l’oggetto dell’attenzione, ma di averne un rapporto personale, possibilmente alla pari.
Il tracciamento delle mobili linee di separazione tra luce e ombra assume esiti differenziati in ogni contesto: in studio su supporti mobili, a Crespi d’Adda quale eco delle aperture architettoniche, mentre qui le linee colorate e raggiate sembrano far divenire il padiglione espositivo un vero e proprio ‘dispositivo’ per la scomposizione della luce in colore. Cerchi sempre un rapporto preciso tra l’opera e il luogo (contesto) di realizzazione?
Non lo cerco ma spesso lo trovo, il mio lavoro consiste anche nell’auscultare l’opera, mentre cresce, un po’ anche da sola. Mi racconta dove sta andando e che qualità sta prendendo. Il volume prismatico bianco e trasparente di Mirad’Or spontaneamente ha scomposto la luce.
Quanto conta per il tuo lavoro la formazione universitaria scientifica?
Conta e ha contato moltissimo. Studio l’interno oltre che l’esterno. Io disegno per indagare e non per plasmare, progetto su quello che trovo e non astrattamete. Coltivo o faccio crescere invece che formare. Riuso e seguo il naturale ciclo di esistenza delle cose, che prevede anche la loro trasformazione o un passaggio di consegne, di competenza o di responsabilità.
Come potresti definire il tuo metodo di lavoro?
Trovo sempre, anche se non cerco costantemente, ma amo raccogliere. Riguardo quello che ho fatto per capire cosa faccio e come, e uso la stessa attenzione per tutto quello che mi circonda.
Quali sono le costanti della tua ricerca e del tuo lavoro artistico?
Un libero vagabondaggio in mezzo alle opportunità che la vita mi ha offerto, invece che una dura costrizione lavorativa. Forse è per questo che amo la lentezza, e mi chiamano “bradipo”; so sopportare lo sforzo e la ripetizione, ma ho sempre un occhio di riguardo per la vivibilità.
Quanto conta l’analisi e la riflessione preliminare del tema e/o del luogo?
Analizzare le cose e il contesto mi viene automatico. La riflessione preliminare è parte integrante dell’elaborazione del progetto, che ha dei suoi tempi imprevedibili. A volte è immediata, ma più spesso prende un suo tempo che può essere breve o lunghissimo, e io che aspetto mi chiedo se arriva.
Quanto conta il disegno nel tuo lavoro?
Conta moltissimo, Ilaria Bernardi dice che lo uso per analizzare il reale e nobilitarlo con interventi minimi negli elementi fisici di cui è costituito. Direi che è un aspetto della mia pratica artistica che mi caratterizza, uso tante strategie diverse, e tante tecniche grafiche, me ne invento alcune addirittura.
Come scegli i materiali da utilizzare?
Mi lascio attrarre dalle materie, le immagini non ne sono mai distinte. Carta, plastica, pietre, metallo, stoffa, eccetera. Per me sono materia anche gli schermi di dispositivi digitali o la luce del sole o di proiettori o macchinari ottici. Mi capita meno di usare materie organiche o organismi vivi di animali o piante. Preferisco le persone che entrano in contatto con il mio lavoro e ne possono essere parte.
Per quale motivo utilizzi spesso materiali che hanno già un vissuto e spesso poveri?
Gli oggetti raccontano qualcosa e sono portatori di una propria vitalità che è sempre utile per fare germogliare l’artisticità di un’opera. Mi piacciono le materie d’uso e non so che farmene di quelle d’arte da plasmare.
Che rapporto esiste tra la tua idea artistica e il cambiamento di senso delle cose, degli oggetti, degli spazi?
Se c’è un cambiamento di senso è una felice coincidenza e un sintomo che le opere hanno una loro vitalità indipendente dalle aspirazioni o dalle intenzioni dell’autore. Io lo considero un fatto positivo e non un travisamento.
Quanto conta la semplificazione formale nel tuo lavoro?
Non sono sicuro di riuscire a semplificare, forse riesco a non fare pesare la complicazione o la complessità, sarebbe la mia maggiore soddisfazione. Amo l’essenzialità, la voce sola e non la forma sinfonica, men che meno l’enfasi gloriosa del grande spettacolo. Se sono semplice è perchè so fare poco e niente, ma mi basta così.
Quanto conta il minimo, aspetto dell’essenziale?
Non sono amante del minimo, preferisco anzi l’abbondanza, ma di sicuro sono frugale e so godere di quello che ho.
Esiste un legame tra il tuo lavoro e forme, modi e aspetti della vita quotidiana?
Tutto il mio lavoro artistico si sviluppa nella quotidianità, e per quasi tutto il tempo non ho separato abitazione e lavoro. La vita quotidiana finisce spesso per essere soggetto o materia di opere in corso, con un’attenzione alle piante e al paesaggio oltre che alle persone.
Nel tuo lavoro è presente il tema dell’abitare?
Preferisco un’arte abitabile e che aiuta a vivere invece di un’arte difficile, tormentata, scioccante, ammaestrante o in fin dei conti addirittura sadica nei confronti dello spettatore, che deve subire per migliorarsi, o guarire con dosi antibiotiche di arte fortissima (Romeo Castellucci, il più grande di tutti noi artisti visivi, docet) ma spesso prodotta da artisti gaudenti. Mi piacerebbe fare un’arte probiotica, in compagnia della quale la gente si possa sentire felice e contenta, invece che tormentata o depressa. Pensa a Van Gogh, una vita di merda, un inferno per chi lo frequentava, ma opere piacevoli, vive e di compagnia.
Ti definisci un ‘manipolatore più che un creatore’: da cosa deriva questa convinzione?
So creare pure io, ma non lo do troppo a vedere. Preferisco indicare vie possibili di godimento delle cose che ci circondano o che fanno parte della nostra storia. Manipolando cambio qualcosa, e se è sufficente può bastare.
In questa capacità e volontà di trasformare oggetti e materie semplici, coinvolgendo il processo artistico in una sorta di economia circolare, riconosci nel tuo fare una lontana matrice contadina o un messaggio etico?
Contadino lo sono ancora, ma l’etica mi interessa di più, compresa la responsabilità di cui mi devo fare carico quando faccio qualcosa, che non può essere solo per me.
L’arte può essere utile per (meglio) conoscere il reale?
Credo propio di no, per conoscere meglio il reale serve una solida cultura ed essere circondati da tante persone che sono consapevoli della propria cultura, che la sanno usare e la fanno evolvere al passo col proprio tempo.
Come possiamo definire l’arte di Stefano Arienti?
Non mi definisco perché preferisco le definizioni che mi danno gli altri.
E infine, esiste un rapporto tra il tuo lavoro e il ciclo naturale?
Quando studiavo ecologia, metà del corso era dedicata ai cicli della natura: elementi, materia, energia… Vivendo in campagna e vedendo le pratiche agricole sono abituato all’investimento, temine tecnico che indica il numero di semi per unità di superficie. Bisogna accettare l’azzardo di distruggere semi preziosi per ottenere un guadagno di raccolto. C’è sempre il rischio che il raccolto non sia buono o si perda del tutto, ma vale la pena tentare. Ma c’è chi dice, e magari non ha proprio torto, che questo azzardo è stato il peggiore dell’Umanità.