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Memorie da Venezia79: White Noise, TÀR, BARDO, Un couple



La Mostra di Venezia, al suo novantesimo anno e alla settantanovesima edizione (Venezia79), è cominciata sotto un acquazzone non da poco. Le scarpe dei primi spettatori ne hanno annunciato l’ingresso in sala con dei sonori ciaf ciaf, e qualcuno potrebbe aver sentito l’esigenza di asciugarsi le calze all’aria, ma le nuvole si sono diradate in tempo per il red carpet, tornato al suo splendore originario dopo gli ultimi due anni che l’hanno visto blindato per rispettare i protocolli di sicurezza Covid.

Siamo qui per l’intera durata: si rivedono volti famigliari, ci si affolla intorno ai tavolini dei bar raggruppati alla base del Palazzo del Casinò, si fa comunella nel lamentarsi per il sistema di prenotazione che quest’anno più che mai si è rivelato sfidante. Appena si esce dalla sala, ci si lancia con le prime impressioni, su cui poi rimuginiamo al posto delle poche ore di sonno che il già detto sistema di prenotazione ci lascia.

Cominciamo con le prime considerazioni su alcuni dei titoli più notevoli della sezione Venezia79 proiettati nei primi due giorni di festival.

L’apertura quest’anno è stata demandata a un’opera ambiziosa: l’adattamento del romanzo di Don DeLillo, Rumore bianco, a firma di Noah Baumbach. Baumbach è al momento sotto contratto con Netflix: era già venuto a Venezia qualche edizione fa con Storia di un matrimonio, un film dalla messinscena quasi teatrale, la cui forza stava nelle interpretazioni dei protagonisti (Adam Driver e Scarlett Johansson) e in una scrittura spiazzante nella sua sincerità.

White Noise, Baumbach, Venezia79
White Noise (c) Netflix

White Noise, che vede di nuovo Adam Driver come capofila, e Greta Gerwig nei panni di una stralunata Babette, si prospettava un’operazione rischiosa. Il testo di DeLillo, densissimo, è ricco di insidie: da alcune Baumbach si è tenuto lontano, ma per il resto ha saputo trovare intelligenti soluzioni visive per sfruttare la stratificazione del materiale di partenza.

La società statunitense dell’esasperazione che DeLillo additava nel romanzo si ritrova, feroce, nel film di Baumbach, che a questo punto non è un semplice omaggio, ma l’avverarsi di una profezia. Nonostante sia mantenuta l’ambientazione originale non è difficile accorgersi di come la crisi climatica attuale, o la pandemia, siano scivolate di sottecchi nella sceneggiatura. La famiglia al centro della vicenda, i Gladney, è chiassosa, la media famiglia borghese, eppure i suoi membri sono leggermente sfasati rispetto alla loro realtà. Sono ripetitivi, in cerca di conferme gli uni negli altri: ripercorrono il loro vissuto, desiderano una legittimità della loro esistenza che si conferma solo nella concretezza dell’essere consumatori, l’unica immediatezza che conoscono. Qui è di grande servizio la scrittura iperarticolata di Baumbach, che va a creare uno spazio deciso tra quello che i personaggi dicono e il contesto in cui si muovono. 

Dove ogni fatto ancora prima di essere vissuto deve essere narrato, perché la storia viene prima di ogni considerazione – una storia è già prodotto, in fondo – e può essere possibile affiancare esistenze come quella di Hitler a Elvis, sempre per amore dello spettacolo che sono queste vite, non è possibile un’esperienza in tempo reale. E su tutto troneggia ancora più cupa la paura della morte, quando si squarcia il famoso cielo di carta e ci si rende conto di non aver nemmeno vissuto.
Ma va sempre bene, finché un certo ronzio nelle nostre orecchie ci tiene distratti.

Tàr, Haynes, Venezia79
TÀR (c) Focus Feature

Ultra-contemporaneo voleva essere anche TÀR, di Todd Field, sul successo e declino di una direttrice d’orchestra di fama internazionale. Il film è modellato addosso a Cate Blanchett, che è un’interprete sempre impeccabile: la sua Lydia Tàr regge l’intera struttura narrativa, finendo per rivelarne però i punti deboli. I momenti migliori sono quelli attinenti esclusivamente al discorso musicale, mentre la vita privata di Tàr si rivela un terreno molto più scivoloso. Se l’intento di Field era mostrare quanto sia ridicolo appellarsi al concetto di cancel culture quando saltano fuori gli scheletri nell’armadio di persone nell’occhio pubblico, questo gli è riuscito solo in parte. 

Il personaggio di Blanchett, affascinante, magnetico, si rivela da subito nel suo essere moralmente ambiguo, per sconfinare sempre di più nell’abisso. Tuttavia, a forza di starle accanto finiamo per assimilare la sua visione, o meglio: lo sguardo del regista nel posarsi sulle persone che denunciano i comportamenti di Tàr rimane più superficiale, tanto che più volte appaiono nutrite a slogan social, meccaniche. Tàr parla spesso di millennial robot per scrollarsi di dosso le accuse di favoritismi, se non di vere e proprie condotte inappropriate, ma la rappresentazione di questi personaggi va quasi a confermare la sua definizione. Il risultato finale è una protagonista sgradevole che non trova una vera controparte, e se è impossibile che susciti pietà allo stesso tempo il contrasto che poteva crearsi rimane appiattito. 

Bardo, Inarritu, Venezia79
BARDO (c) Netflix

Un intero film che gira intorno a un personaggio è il nuovo di IñárrituBARDO, Falsa crónica de unas cuantas verdades. Già considerato il suo 8 ½, e l’omaggio è cristallino nella pellicola, è la storia di un giornalista messicano, da vent’anni residente in California, che torna nel suo Paese in seguito alla vittoria di un premio prestigioso. È un’opera mondo, in cui Iñárritu condensa profondi dilemmi dell’esistenza personale e il significato della stessa identità messicana. Silviero vive la contraddizione di essere un documentarista che si è occupato di lotta di classe, immigrazione, denuncia dell’oppressione da parte degli statunitensi, per poi ritrovarsi ricco abitante di Los Angeles. 

Non è difficile cogliere lo stesso disagio del regista, da tempo accusato di “essersi venduto”, ma non è l’unico filone esplorato in queste quasi tre ore di situazioni portate al paradosso, allucinazioni, visioni oniriche e futuri ricordati. È una storia di lutti, per se stessi, per un figlio, per il proprio Paese che viene comprato pezzetto a pezzetto. Passiamo da creature acquatiche che si dibattono sul pavimento del vagone di una metro alla fila di persone migranti su una collina, da un minuscolo corpo di bambino a una montagna di cadaveri su cui troneggia Hernan Cortés. Le memorie si innestano le une nelle altre tortuose come la pianta dell’appartamento di Silviero. I richiami ai film precedenti sono ovunque: la stessa sequenza iniziale, un volo che tenta di essere spiccato, sembra quasi riprendere il discorso lasciato aperto da Birdman, ma si ritrovano tracce anche dei suoi primi lavori, quelli messicani per l’appunto, come Amores Perros

Forse troppo ricco di spunti e a un certo punto quasi ossessivo nel ripercorrere gli stessi snodi – ma non c’è forse ossessione nella pretesa di raccontarsi, nel fermare sulla pellicola la propria storia interiore? – BARDO riesce tuttavia a emozionare, senza cadere nella trappola dell’eccessiva cerebralità. Le sue invenzioni mirabolanti accompagnano lo spettatore in un viaggio bizzarro alla ricerca del senso della vita: le risposte che non si possono dare, alla fine, pare che non servano. L’immaginazione, e qui fa un po’ il paio con il «La realtà è scadente» del Sorrentino dell’anno scorso, copre i buchi della realtà e dà l’unico senso possibile. 

Un couple, Wiseman, Venezia79
Un couple

Dalle tre ore di BARDO all’ora tonda di Un couple, prima opera di finzione di Frederick Wiseman. Il regista ultranovantenne celebre per i suoi documentari si misura con i diari e le lettere di Sofia Tolstoj, interpretata da Nathalie Boutefeu, che è anche co-sceneggiatrice. Sofia si rivolge a Lev, rivendicando la loro storia d’amore, i momenti felici ma i numerosi dolori, le ferite aperte, le umiliazioni. Della coppia titolare abbiamo solo una parte: l’altra è assente, invocata, usata come pretesto per un ascoltatore che sia testimone, come è testimone la natura intorno a Sofia. L’occhio di Wiseman è sempre quello dell’osservatore: dedica a Sofia la stessa attenzione che dedica alle rocce, alla spuma di mare e alla folta vegetazione in cui Sofia si muove. Il bosco è il suo teatro e il primo interlocutore – la vita domestica è incredibilmente solitaria. È personaggio più dello stesso Tolstoj, il cui nome è ormai solo un eco. Sofia è sola per tutto il film, ma la grana della pellicola rende ogni inquadratura colma, ricca. Una prova di regia apparentemente semplice, e allo stesso tempo ostica, ma dove si riconosce ancora la mano di un maestro.

C’è quasi un fil rouge in questi film: una narrazione che si ripete, un bisogno di affermazione di sè che passa attraverso la parola, anche quando nessuno pare all’ascolto. La memoria dei fatti è ricreatrice, e quello che si imprime nella pellicola è, per la sua durata, salvato e salvifico.

Forse, azzardo, è per questo che si fanno film sempre più lunghi.





Immagine di copertina: WHITE NOISE – Adam Driver (Jack). Cr: Wilson Webb/NETFLIX © 2022

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