Le giornate in cui c’è in programma un film con Timothée Chalamet si riconoscono fin dal mattino presto: il red carpet è già gremito di fan in attesa, la fila al vaporetto di San Zaccaria arriva quasi al campanile di San Marco. Ad aumentare il senso di attesa, il film in questione è il nuovo di Luca Guadagnino, che torna a collaborare con Chalamet dopo il successo di Call me by your name.
Bones and all si muove però in un contesto diverso: lasciamo da parte la bellissima villa nella campagna lombarda, i pigri pomeriggi estivi, per esplorare gli angoli più sperduti degli Stati Uniti. Maren è una diciottenne che vive sola con il padre, che ha regole piuttosto rigide sulle attività extrascolastiche, tanto da chiuderla a chiave in camera la notte. Poco dopo, scopriamo perché: fin da piccola, Maren mangia carne umana. Dopo una lunga serie di traslochi dovuti a questa necessità della ragazza, il padre crolla, l’abbandona con un po’ di soldi, un certificato di nascita e un’audiocassetta dove si spiega. Maren si mette in viaggio alla ricerca di una madre mai conosciuta, e sul cammino incontra Lee (Chalamet): si riconoscono immediatamente, perché entrambi sono degli eater, e continuano insieme lungo la strada.
È una storia d’amore e d’orrore, ma l’orrore non si trova dove lo si aspetta. Mangiare carne umana è una necessità con cui Maren e Lee fanno i conti in modo diverso, ma è una parte di loro da cui comunque non si può prescindere. Corrono sulle strade sperdute tra Missouri, Kansas, Indiana, e i paesaggi spalancati si rinchiudono improvvisamente nello squallore di alcune vite che incontrano lungo il cammino: quello che hanno loro rispetto agli altri eater è che sono insieme, e questo legame rende improvvisamente la loro condizione piena di speranza.
Guadagnino è al suo meglio nel descrivere i piccolissimi movimenti degli amori che nascono. Al turbamento adolescenziale si affianca una condizione più particolare che non toglie un briciolo di umanità ai due protagonisti, la camera li tratta con delicatezza, rimanendo loro vicino senza indagarli con morbosità.
Non sono i cattivi della storia, e per quante figure inquietanti (Mark Rylance in primis, il suo dolore è l’altro grande polo di questo film; Chloé Sevigny, straziante) compaiano all’orizzonte, nessuno di loro è intrinsicamente malvagio – qualche dubbio possiamo mantenerlo giusto sulla figura di Michael Stuhlberg, in una scena breve ma agghiacciante. L’angoscia viene piuttosto dalla solitudine, così vasta, e densa, da riempire la macchina da presa; per questo è ancora più prezioso il sentimento che nasce da Maren e Lee. È nell’abbandono che si crea lo spazio per far nascere dei mostri.
Una regia spericolata, dinamica e avvincente la sfoggia Romain Gavras in Athena. Il quartiere periferico di Parigi che dà il nome al film ha dichiarato guerra alla polizia, dopo che un video mostra un gruppo di poliziotti uccidere un ragazzino di tredici anni. I due fratelli del ragazzo si posizionano su fronti opposti: Abdel, soldato nell’esercito francese, si affida agli strumenti della legge, e aspetta che vengano identificati i colpevoli, mentre Karim sa che non avranno mai le loro risposte, e l’unica azione che rimane loro è far bruciare tutto.
Il regista, figlio di Costa-Gavras, viene dai video musicali, e si vede la mano: un piano sequenza sugli abitanti di Athena che si preparano all’arrivo della polizia nei primi minuti si chiude con un campo largo della barricata spettacolare. La tensione si tiene per tutto il film, lo spettatore rimane incollato a Karim ed Abdel, alle loro diverse lotte. C’è un filo di estetizzazione in questa battaglia, ma il vero scalino su cui inciampa Gavras è quello ideologico. Senza scendere nei dettagli, nei secondi finali viene fatta una scelta che invalida buona parte di quello che è stato narrato in precedenza, togliendo forza alle immagini costruite con così tanta cura solo pochi minuti prima e tradendo, letteralmente, i propri protagonisti. La tematica della violenza della polizia nelle banlieu non è una questione neutra, specie se la si racconta arrivando da fuori. Se si vuole fare un film politico, non si può prescindere dal prendere una posizione.
Torna invece a Venezia Andrea Pallaoro, a cinque anni di distanza da Hannah: Monica è un film dal passo meditato, delicatissimo. Il formato della pellicola, 4:9, mette al centro il personaggio di Trace Lysette, che dopo anni di silenzio torna nella casa della sua infanzia per accudire la madre (Patricia Clarkson) in fase terminale. La donna non riconosce la figlia, perché non sa che Monica è il nome che si è scelta, e non la vede da prima della transizione.
Le giornate si sovrappongono sottili come carta velina mentre vediamo rinascere un legame, e Monica si ritaglia un posto che sia suo in seno alla famiglia, e crea una relazione specialmente con i figli del fratello. Come già in Hannah, Pallaoro carica di forza narrativa i gesti più piccoli, le espressioni di sfuggita sui volti delle sue attrici, andando a indagare non più la distruzione di un nucleo, ma quello che si può ricostruire.
Altro ritorno atteso era quello di Paul Schrader, che l’anno scorso aveva portato il bel Il collezionista di carte e quest’anno ha ricevuto il Leone alla carriera. Master Gardener (Fuori Concorso) si unisce a First Reformer e al Collezionista in una trilogia di uomini perduti in cerca di una qualche redenzione, ma pur rimanendo abbastanza adeso ai codici utilizzati nei film precedenti c’è meno forza in questo terzo capitolo.
Narvel Roth è il capo giardiniere di una tenuta signorile. C’è per lui una consolazione nella prevedibilità dei tempi della natura, e nella lentezza che i semi impiegano per maturare, finendo per rivelare qualcosa di magnifico. Sul proprio corpo porta i segni di un passato scomodo: svastiche, croci celtiche, motti nazionalisti. Quando la nipote della sua datrice di lavoro, Maya, una ragazza nera, arriva a scombinare le sue giornate, porta anche per lui quello che ancora non aveva trovato nel giardino, una seconda occasione di amare. Schrader non ha paura di affrontare l’abisso, né di dilungarsi in digressioni sulle piante: il suo è un cinema da ammiratore e da scopritore allo stesso tempo. Nonostante questo, anche se è, come sempre, ben girato, rigoroso, con una concessione fantastica dal forte impatto visivo, Master Gardener lascia un vago senso di disagio, come di qualcosa che non è stato affinato del tutto.
Un film che va pienamente a segno è il documentario di Laura Poitras All the Beauty and the Bloodshed, incentrato sull’artista e attivista Nan Goldin. La cornice è il suo lavoro con P.A.I.N., l’associazione da lei fondata per aiutare le persone che hanno sviluppato una dipendenza da OxyContin, farmaco oppioide prescritto in genere per il recupero da operazioni chirurgiche. Prodotto da una società riconducibile alla famiglia Sackler, il cui nome campeggia in numerose istituzioni culturali e musei del mondo, OxyContin ha provocato centinaia di migliaia di morti, e la stessa Goldin ne è stata dipendente dopo averlo iniziato a prendere sotto prescrizione.
Tra le azioni e manifestazioni di P.A.I.N. per far sì che nessuno accetti più soldi dai Sackler, e che il loro nome venga riconosciuto per quello che è – speculatori che hanno fatto grandi profitti sulla pelle di tutte le persone a cui è stato prescritto il farmaco – vengono ricostruite attraverso foto, video e le sue stesse slide, la carriera artistica e la vita privata di Goldin.
Le amicizie fondanti della sua identità, il suicidio della sorella, gli amori e la scoperta della fotografia: Nan Goldin è una forza inarrestabile, e la sua voce accompagna il documentario, ricordandosi e narrandosi, unendo insieme i vari fili che il documentario traccia durante il percorso. La sua serie sulla dipendenza sessuale, le testimonianze e gli scritti raccolti dai suoi amici negli anni dell’esplosione dell’AIDS – ancora una volta, un concerto di voci che si racconta, e si riprende uno spazio e un controllo della propria storia, tutto confluisce in un’opera militante e profondamente toccante.
Alla fine della proiezione in Sala Grande Nan Goldin si può alzare dalla sua poltrona in galleria, godendosi una commossa standing ovation.
Immagine di copertina: Yannis Drakoulidis / Metro Goldwyn Mayer Pictures © 2022 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc. All Rights Reserved.
–