«Per illuminare il volto della Bosè, basta solo una candela.» A sostenere con decisione e competenza questa tesi era Luchino Visconti, uno dei registi più importanti nella vita di Lucia Bosè, anche se, incredibilmente, quello con cui l’attrice non ha mai lavorato. In realtà Visconti era stato più di un regista per lei, perché mentore, pigmalione e amico di una vita; l’uomo che le aveva trasmesso passioni e interessi che avevano attecchito in profondità.
Lucia, fresca dell’elezione di Miss Italia nella memorabile edizione del 1947, era giunta a Roma per tentare la strada del cinema e attraverso Edoardo Visconti, con cui viveva una relazione complicata e dolorosa per la differenza di età e stato civile, era entrata alla corte del fratello Luchino per rimanerci in pianta stabile. Il regista l’aveva accolta a braccia aperte perché incantato dalla curiosità con cui Lucia affrontava la vita e il nuovo, la sua capacità di ascoltare e capire. Gli ricordava la fierezza delle donne della sua famiglia, pur provenendo da un ambiente modesto e con un’istruzione traballante, ed era convinto che Lucia avesse le carte in regola per fare del cinema e trasformarsi in una diva, un personaggio che il pubblico avrebbe felicemente interiorizzato. Ma cosa lo aveva persuaso?
Due fattori determinati, il primo dei quali era il dono di una eccezionale fotogenia, qualità di cui ormai si tiene poco conto ma che in passato era considerata fondamentale. Dai provini che Lucia aveva sostenuto appena giunta a Cinecittà era apparsa evidente la meraviglia che il gioco di luci e ombre sapevano operare sul suo viso minuto, su quel «perfetto mosaico di ossa» come lo definirà in seguito Pablo Picasso. E tutto questo senza grossi artifici, al punto che, paradossalmente, sarebbe bastata solo una candela per valorizzarla. Ma la fotogenia, per Visconti, non era certo l’unico elemento in grado di predisporre al successo. Più importante era un altro motore che il regista, con la sua vis pedagogica e un fiuto infallibile aveva saputo individuare e accendere: la voglia di imparare, di crescere e migliorare che Lucia Bosè aveva dentro di sé. Una spinta ad andare avanti e a superare le difficoltà che lei aveva imparato a sue spese, attraverso l’esperienza terrificante della guerra, col suo frutto putrescente di bombardamenti, fame e disperazione. Lucia aveva voluto con tutta se stessa capitalizzare quel portato di sofferenza per essere altro, qualcosa di meglio, ma non solo per vanità o per soddisfare un legittimo bisogno di benessere, ma per vivere una vita diversa da quella che il destino sembrava apparecchiare per lei. Una voglia di riscatto che aveva acceso una luce nel suo sguardo fiero, una istanza che menti acute e predisposte potevano cogliere. Luchino Visconti, trova in lei un’allieva eccezionale, in grado di fare suo in poco tempo il grande credo della vita vissuta come su un palcoscenico. Un’opera di trasformazione che aveva iniziato suo fratello Edoardo quando aveva perso la testa per Lucia, al Concorso di Miss Italia. Lui, nel giro di un anno l’avvicina alla lettura, alla musica e all’arte in generale; le insegna come muoversi e parlare al punto che dopo un anno Lucia non era più la stessa ragazza di prima. Ma sarà Luchino quello che compirà il capolavoro su di lei. Lucia diviene a tempo pieno un’apprendista di stile, assorbe tutto come una spugna e accetta consigli. Il regista la introduce a sua volta in un gruppo di giovani uomini, liberi e ambiziosi, che gravitavano attorno alla sua corte e che disegneranno la geografia culturale e sentimentale di Lucia. I loro nomi rispondono a quelli di Mauro Bolognini, Umberto Tirelli, Piero Tosi e Franco Zeffirelli, ognuno destinato a diventare un’eccellenza nel proprio campo, nessuno a perdersi per strada. Lucia viene accolta nel clan, considerata una di loro perché possiede quella mente aperta e libera da pregiudizi che era il presupposto e il cemento della loro amicizia.
In un clima di grande entusiasmo e fermento, quale era quello che si respirava nella Roma del dopoguerra, Lucia Bosè entra nel mondo del cinema dalla porta principale nell’autunno del 1950 con due film da protagonista: Non c’è pace tra gli ulivi di Giuseppe De Santis e l’opera prima di Michelangelo Antonioni Cronaca di un amore. Dietro questo ragguardevole debutto, sempre l’ombra protettrice di Visconti che, non riuscendo a coinvolgerla in un progetto cinematografico o teatrale personale, consigliava a colleghi e sodali di sottoporre a provino «la milanese», come Lucia veniva appellata in quegli anni negli ambienti del cinema.
Il pubblico nelle sale dimostra subito di amare la Bosè, la sua fulgente e misteriosa bellezza, ma la critica non le risparmia giudizi severi non perdonandole di aver saltato a piè pari i rudimenti di una scuola di recitazione e il percorso nelle retrovie del cinema, tappa obbligata di ogni principiante. In quello stesso anno, altri debutti si rivelano buone promesse: Anna Maria Ferrero, Antonella Lualdi, Annamaria Pierangeli ed Elena Varzi. Ma il pubblico riconosce a Lucia uno status di Diva che le altre faticheranno un po’ a conquistare.
Cosa rendeva Lucia Bosè così speciale agli occhi della gente e di tutti coloro con i quali aveva lavorato? La ricerca di una risposta è quello che mi ha guidato nel percorso di ricostruzione della sua vicenda umana e artistica. A lei sono arrivato grazie a Liliana Cavani che ha fatto sì che potessi intervistarla per il mio libro precedente su Massimo Girotti, suo partner diabolico in Cronaca di un amore. Della conversazione pacata e gentile che avevo avuto con Lucia mi sono ricordato quando cercavo un nuovo attore da raccontare. Desideravo qualcuno di cui potermi innamorare, il modo più congeniale, per me, di entrare nella vita di una persona e ritrasmetterne gli aliti e gli impulsi vitali, le luci e le ombre. Lucia, quel giorno, mi aveva colpito per la forza e l’energia che mi aveva trasmesso. Doveva essere lei la protagonista del mio nuovo lavoro. Poi, nel corso del tempo, e con una distillata frequentazione, ho cominciato a capire dove risiedeva il segreto del suo successo personale. Mi sono messo in ascolto, senza pregiudizi o schemi mentali, senza la necessità di doverla ascrivere per forza nel novero o meno dei grandi attori, e ho lasciato che la carezza del suo sguardo e delle sue parole mi parlassero. Lucia, col suo carisma e la profonda umanità è entrata nella mia vita compiendo un piccolo miracolo. A un anno dalla scomparsa, voglio ricordarla col suo sorriso da eterna ragazza che viveva con generosità, a braccia aperte.