Nell’ottobre del 2024, per un incontro casuale su alcune pagine social a lei inoltrate, mia madre si ritrova davanti una foto della famosa fotografa palermitana Letizia Battaglia che la ritrae. La foto, datata dalla fotografa il lunedì di Pasquetta a Piano Battaglia nel 1974, ha come soggetto proprio mia madre, sua madre e sua nonna: mia nonna e la mia bisnonna sono riprese di fronte al maggiolone di famiglia, intente a fare l’uncinetto, coi loro occhiali quadrati scombinati dai boccoli corti, vestite con gli impermeabili, le calze color carne, i mocassini alti e i loro sorrisi sinceramente divertiti e poco imbarazzati. Mia madre, di contro, sola, guarda la fotografa da dentro il maggiolone, sporta dal sedile dietro, con un sorriso anche lei sì, ma accennato, e piuttosto con l’unico sguardo aperto del ritratto: uno sguardo anche divertito, ma che detiene più una quiete perfino sarcastica, una certa aria di inviolabilità dall’evento dello scatto, capace di rendere un poco estraneo lo sguardo della reporter, intrusa all’interno del nucleo familiare del maggiolone, in quel momento festoso, e infine un’assoluta malizia precoce, una cosa che Battaglia disse spesso di sentire come sua, di ricercarla nelle sue ragazzine non ancora donne.

Fotografia di Letizia Battaglia ©Archivio Letizia Battaglia
Di tutto ciò che si deve dire di questa foto molto deriva dal suo tempismo: nato come attimo rubato, essa raccoglie un momento diventato eterno e che, forse in quanto tale, ha perso un po’ di certezza nei riferimenti.
Come opera d’arte, essa esiste da esattamente cinquant’anni secondo la datazione ufficiale, e dopo cinquant’anni è giunta al suo soggetto, cioè mia madre – mio zio, suo fratello, ritiene che mia nonna sapesse invece dell’esistenza della foto, in quanto uscita sul Giornale di Sicilia il giorno dopo, da cui lei dovette recuperarla come un ritaglio esistito nella cucina di famiglia per un tempo imprecisato e poi perduto: il 13 ottobre 2024 mia madre ha compiuto sessant’anni, dal che esiste una lieve discrepanza rispetto ai dati ufficiali della foto, perché mia madre è nata nel 1964 e in quella foto avrebbe dovuto avere dieci anni. Invece mio zio ricorda che la foto fu scattata nel 1 maggio 1976 al Parco della Favorita a Palermo, quando mia madre avrebbe avuto dodici anni.
Mia madre non aveva consapevolezza di questa foto: rivedendola ha avuto un vago ricordo dell’evento in cui una giornalista chiedeva alla famiglia di scattare velocemente, a cui però non ha dato importanza, dal centro della giornata di festa. Come sua madre probabilmente, non aveva certo consapevolezza dell’identità della fotografa, che all’epoca cominciava la sua carriera come fotoreporter negli anni di piombo a Palermo. Sa tuttavia per certo che non andarono mai a Piano Battaglia in famiglia e ritiene più plausibile di avere avuto dodici anni in quella foto piuttosto che dieci. A conferma di questo, ricorda che due anni più tardi, nel 1978, si imbucava a vedere La Febbre del sabato sera, uscito in Italia a marzo del 1978 e vietato ai minori di quattordici anni, quando lei aveva giusto tredici anni, perché ne avrebbe compiuti quattordici a ottobre del 1978.
Il tempismo di questa foto è tutto nella discrepanza dei ricordi e dell’attimo stesso: la fotografa aveva una data e mio zio, che ricorda di essere stato presente e che avrebbe avuto ventidue anni nel 1976, un’altra. Ma tanto altro tempismo si porta appresso questa foto: uno su tutti, Battaglia e mia nonna erano quasi coetanee in quel momento, l’una nata nel marzo 1935, l’altra nel settembre 1936. Il maggiolone, cornice perfetta del ritratto, aveva già ospitato l’intera famiglia di mia nonna, cioè mia madre e i suoi tre fratelli, due maschi e una femmina, in alcune notti passateci a dormire in attesa della nuova casa in cui si sarebbero trasferiti dopo la separazione da suo marito, il padre di mia madre. Cinque anime all’addiaccio dentro un maggiolone, dopo una separazione in condizioni difficili, in anni che mia madre definisce “certo non felici”, e che erano già stati e avevano già trovato una conclusione naturale nella morte di suo padre, comunicatagli nel Natale del 1975. Mio nonno non era stato una gran brava persona e mia madre ne detiene qualche cicatrice a testimonianza. Mia nonna si era ritrovata sola con quattro figli, di cui i maggiori trovatisi a lavorare dai quindici anni, e si era dovuta reinventare un mestiere come sarta, in una Palermo degli anni Sessanta che detiene alcuni aneddoti familiari sempre raccontati. Insieme si erano infine instradati in un destino di autonomia che li avrebbe tutti portati verso Roma alla fine degli anni Settanta. Mia madre giunse a Roma nel 1980 in treno, dove, nel 1994, saremmo nate io e mia sorella e mia nonna sarebbe morta, esattamente a pochi giorni di distanza tra noi.
Bastano pochi anni perché una foto assuma un valore immenso di arte e testimonianza. “All’epoca fare una foto non era una cosa semplice, mica era normale avere una macchina fotografica” mi ha detto mia madre. Ma non è solo questo. Si dice, ma non si capisce davvero se non riguarda una persona morta da tempo, come mia nonna, amata così tanto da generare ancora gli echi del dolore di non possedere una sua foto in più, una foto nitida e certa – alle volte in famiglia sono state trovate sue foto lontane e sbiadite, e ho, con me, l’angustia netta e vivida di mia madre di non poter avere una foto in più di sua madre, figurarsi una con un intento dietro. Questo intento sta nell’incrocio del destino di una reporter donna con tutte le donne della mia famiglia, che io non ho conosciuto.
C’è una certa sovrapposizione delle scelte di vita, in questo intento: scappare dall’infelicità è una cosa che Letizia Battaglia conosceva molto bene. Cominciò a fotografare a trentaquattro anni, dopo un matrimonio durato diciotto anni con un uomo che, come testimoniò negli anni, la rendeva infelice, e da cui trovò il coraggio di fuggire per rifarsi una vita, dapprima a Milano, per poi tornare a Palermo. «Mi basta una foto, c’è sempre una foto che doveva raccontare il mio incontro. La mia voglia di pace, di gioia o di pace» diceva anni dopo.
Letizia Battaglia passa alla storia della fotografia come la fotoreporter in prima linea nella testimonianza degli anni di piombo di Palermo, quando per il giornale L’Ora si trovò a fotografare i grandi eventi della guerra dei corleonesi ai mafiosi di Palermo: sue sono le famose foto dell’assassinio di Piersanti Mattarella e dei funerali di Carlo Alberto Dalla Chiesa. «La bellezza io l’ho trovata nelle donne, nelle bambine, forse in contrapposizione a questa violenza che io ho incontrato nei maschi» dirà. «Non capivo perché le fotografassi sempre e poi capii che cercavo me stessa quando a dieci anni io persi la libertà e fu quella che poi a sedici anni mi portò a un matrimonio precoce».
Una ragazzina di dodici anni più precoce di tutti, che non ne dimostrava dodici ma neanche quattordici e neanche diciotto, è l’apice compositivo del triangolo di questa scena, e così il suo sguardo malizioso quasi sbeffeggiante, tutto sommato l’indice stilistico di Battaglia stessa, di cui famoso è anche il ritratto La bambina con il pallone del 1980, anno in cui mia madre giungeva appena a Roma. Mia madre era la più piccola di quattro fratelli, e incarnava l’osservatrice, nel cui ruolo questa stessa foto la pone: osservatrice degli altri già cresciuti, delle cose che non poteva avere, delle cose che vedeva già per se stessa – ignorando le piccole invidie e «le piccole malizie» che le facevano desiderare i capelli corti della sorella, che infatti aveva tagliato da poco al momento dello scatto. C’è più che piccolezza: mia madre mi ha dato tutto di quello sguardo.
Tra le centinaia di commenti social alle foto di Letizia Battaglia, un utente ha scritto: “Bello lo sguardo della ragazza, sorriderà al suo avvenire?”. L’avvenire di mia madre è stato poi forse simile a quello di sua madre, quello di sua nonna, quello di Letizia, quello forse delle sue figlie. Io mi sono sempre chiesta che cos’è l’avvenire, cos’è il mio avvenire, che contorni ha, e me lo chiedo a trent’anni con la stessa angustia con cui lei non trova mai abbastanza foto di sua madre, con cui lei non aveva sua madre negli attimi della vita, eppure lei me l’ha sempre detto: la vita è quella che avviene. La vita la devi vivere, quello che succede è già scritto. Ed è questa la consapevolezza che sta non solo nel tono generale di questa foto, nella composizione ingenua ma perfetta che la fotografa individuò, ma anche, completamente nel suo sguardo così incredibile.
Io posseggo centinaia di foto di mia madre, di me stessa una cifra moltiplicata in maniera imbarazzante, ma nessuna ha un valore d’arte, che esiste per quel rapporto con la fotografa – «Se quella persona mi piace, se quella mi serve per raccontare qualcosa di me», ma anche, come disse sempre Battaglia, per il secondo momento della scelta. Il momento in cui lei scelse quella foto per dire: «Questa mi rappresenta e rappresenta quello che ho visto. Allora quella foto può diventare qualcosa che testimonia, che documenta, che sarà utile per raccontare un tempo che fu».
Qual era il tempo che fu? Cos’è la storia davvero, se non un insieme di momenti coincidenti molto piccoli, davvero molto banali come una Pasquetta al parco, ma che si portano dietro conseguenze inevitabili e necessarie? Forse è questa una definizione di tempo stesso e del suo doloroso scorrere in avanti.
L’arte di questa opera non può non intrecciarsi intimamente al ragionamento sul tempo, e non solo per il medium intrinsecamente legato all’istante già perduto una frazione di secondo dopo – questa la tragedia del fotografo: in una conversazione con i nipoti di Letizia, Matteo e Marta Sollima, custodi dell’Archivio Letizia Battaglia, si è ritenuto probabile il fatto che non esistano più negativi di quella foto né riprese alternative di quel momento, a riprova dell’assoluta tragicità dell’esistenza di un singolo scatto – ma per il concetto stesso di aver fatto delle tue persone, ritratte tutte insieme, una testimonianza. È una commozione atavica che riguarda tutti vedere proprio tua madre in foto, come quando non la vedi da tanto tempo: una cosa vera sia per me, che ho mia madre ancora con me e quasi tutti i giorni, sia vera per lei a sua volta, e forse sarebbe stato così per la sua.
Era una conseguenza necessaria che mia nonna morisse prima di sua madre, precedendola di qualche anno, e che tante vicissitudini resero invece il momento del funerale di quest’ultima un momento di dissapori e scontri generazionali. Era una conseguenza inevitabile la tovaglia, che lei stava cucendo quel giorno, che mio zio ricordava essere appartenuta alla sorella di mia madre, morta undici anni fa, e rivedeva strappata tra le sue cose, ma che invece tuttora mia madre detiene in una scatola: tonda, si vede da come il semicerchio si raccoglie tra le ginocchia della bisnonna, con motivi intrecciati come fiorellini – mentre quella di mia zia era a toppe di quadratini fatti all’uncinetto. Mia zia aveva diciassette anni circa al tempo di questa foto, e secondo mio zio non era presente “perché era fidanzata all’epoca”, quindi il tempo di quella tovaglia era necessariamente quello di mia madre, la figlia piccola lasciata indietro dai fratelli maggiori e sempre al seguito di sua madre, dove la trovò Letizia, con il suo corredo non troppo distante a venire nel tempo.
Lo sguardo di mia madre deve per forza di cose raccogliere tutto questo e restituirlo. Restituire, anche, l’arte di trovare parole adatte a onorare un evento nel tempo tanto solitario, ma anche così fermo, come lo scatto stesso. Battaglia fu la fotografa della morte e disse sempre di aver avuto il compito supremo di onorarla, di rispettare, fotografando, «sia il dolore che la bellezza», non solo raccontando, ma raccontando in un certo modo perché «è come fare l’amore o come quando hai un’amica». È forse allora l’unico compito dell’arte quello di creare altra arte, di onorare la vita e renderla, in un certo senso, meno contingente, meno fragile. Portarsi il mondo «in quel pezzettino di frammento di pellicola» diceva Battaglia che la rendeva «meno fragile in rapporto al mio essere donna e essere persona» ed è forse allora vero il contrario, come sempre è per i grandi artisti: è lei ad aver reso meno fragile l’essere donna di mia madre – e di conseguenza il mio, e di chi vede e rivede la foto, in esposizione con le opere di Letizia (dal 27 maggio al 5 novembre 2023 si è tenuta la mostra Senza fine nelle Terme di Caracalla, a Roma, a cura di Paolo Falcone; dal 25 ottobre la stessa mostra è stata inaugurata ad Aosta e il 28 novembre a Reggio Calabria. La mostra Letizia Battaglia: Life, Love and Death in Sicily ha invece aperto il 9 ottobre presso la Photographers’ Gallery di Londra, visitabile fino al 23 febbraio 2025) – in maniera inconsapevole forse, ma inconsapevole fino al momento giusto.