Visitare l’esposizione “Io sono Leonor Fini”, organizzata da Comune di Milano – Cultura, Palazzo Reale, MondoMostre e curata da Tere Arcq e Carlos Martín, significa varcare la soglia di un mondo che sfugge alle definizioni, un universo in cui il femminile si emancipa dalla condizione di musa per imporsi come potere attivo, misterioso e sovversivo. Leonor Fini, artista visionaria e indipendente nata a Buenos Aires nel 1907, è stata una delle voci più audaci del Novecento nel ridefinire il corpo, il genere e l’identità. La sua poetica si configura come un manifesto di libertà, un inno alla fluidità e all’indeterminatezza che risuona potentemente nel presente.
L’allestimento della mostra a Palazzo Reale segue un percorso che non si limita a esporre i lavori, ma costruisce una narrazione immersiva nell’immaginario e nella vita dell’artista. Infatti le nove sezioni tematiche rivelano un’artista che ha attraversato con straordinaria disinvoltura il teatro, il cinema, la letteratura e la moda, lasciando un segno profondo in ognuno di questi ambiti.
Le opere di Fini non sono mai semplici rappresentazioni: sono racconti di donne che si fanno sfingi, amazzoni, streghe e creature ibride, in bilico tra potere e seduzione, protagoniste assolute di un teatro onirico e sensuale. Ad esempio, la figura della strega per Fini non è simbolo di paura o marginalizzazione, ma un’espressione di ribellione e indipendenza. Le fattucchiere incarnano dunque una femminilità ancestrale e primordiale, una forza creatrice e distruttrice al tempo stesso, capace di dominare il proprio destino al di fuori delle convenzioni patriarcali. Questo scenario si riallaccia a una visione della donna libera da ogni ruolo imposto, una figura magica e sovrana della propria identità.
L’esposizione “Io sono Leonor Fini” si apre con la sezione Scene Primordiali che esplora le esperienze infantili e adolescenziali che hanno segnato il suo immaginario. È qui che il pubblico incontra per la prima volta la già citata sfinge, simbolo di ambiguità e potere, che diventerà un topos ricorrente nella poetica dell’artista. Invece il tema del travestimento, collegato all’episodio biografico del rapimento di Leonor da parte del padre, introduce una riflessione sull’identità e sulla costruzione del sé: un altro elemento chiave per comprendere la personalità dell’artista, come del resto il rapporto con il corpo e la sessualità. Quest’ultimo emerge già nei dipinti giovanili e si rivela appieno nelle opere in cui il maschile e il femminile si fondono in un’unica entità ibrida e sfuggente

Fini ha sempre rifiutato di essere incasellata in qualsivoglia movimento artistico, compreso il surrealismo di cui criticava ampiamente le posizioni misogine e omofobe di alcuni dei membri: la negazione delle gerarchie di potere si traduce in una pittura che sovverte la visione patriarcale della donna, mostrando corpi fluidi e identità cangianti. Tali dimensioni della sua arte, che oggi potremmo definire queer nel senso di un continuo attraversamento e decostruzione delle norme di genere, emergono con forza in alcuni dei dipinti più emblematici: opere come La Reine de la Nuit (1934) e Le Bout du Monde (1948) mettono in scena una femminilità enigmatica e potente, che si oppone alla tradizionale rappresentazione della donna-oggetto per affermarlo come soggetto attivo e sovversivo.
Le figure dipinte spesso non si conformano alle categorie binarie, ma raffigurano un erotismo libero da restrizioni. Non sorprende perciò che il femminismo della seconda ondata, negli Anni Settanta del Novecento, abbia trovato nelle sue opere un punto di riferimento. Ad esempio Xavière Gauthier, in Surréalisme et sexualité, riconosceva in Leonor una delle poche artiste capaci di esprimere un desiderio femminile non subordinato allo sguardo maschile. La stessa Fini, pur rifuggendo anche l’etichetta di femminista, impersonava un modello di donna indipendente e autodeterminata, sia nell’arte che nella vita personale. L’artista rifiutava il concetto tradizionale di famiglia e costruì intorno a sé una comunità affettiva fluida, vivendo relazioni multiple e non convenzionali con Stanislao Lepri e Konstanty Jeleński. La casa di Leonor era un microcosmo in cui uomini e donne condividevano uno spazio basato sulla libertà, il desiderio e l’intelletto, sfidando le norme sociali e incarnando un’idea di amore e convivenza al di fuori dei modelli eteronormativi.
Altro elemento interessante che emerge visitando l’esposizione a Palazzo Reale è il legame di Fini con il teatro e il cinema. In particolare la collaborazione con Federico Fellini è uno degli episodi più affascinanti della sua carriera: il regista le affidò la creazione dei costumi per alcune sequenze di Otto e mezzo (1963) e si dice che il personaggio di Dolores fosse ispirato a lei, donna enigmatica e intellettualmente affascinante. L’artista, con il suo gusto per l’eccesso e il travestimento, trovava nel cinema una dimensione perfetta per dar vita ad un’estetica performativa. Anche l’amicizia con Pier Paolo Pasolini, testimoniata da viaggi e discussioni sull’arte e sulla rappresentazione del corpo, rafforzò il costante dialogo di Leonor Fini con il linguaggio cinematografico.
Passando al teatro, la creativa realizzò per la Scala scenografie e costumi di grande raffinatezza e potenza visiva. Alcuni di questi, attualmente in mostra, testimoniano la sua capacità di trasformare il corpo attraverso l’abito, rendendolo parte di una narrazione più ampia fatta di simboli, metamorfosi e suggestioni oniriche.
Ogni travestimento è un atto di affermazione e liberazione.

Del resto Milano fu la città che vide Fini affermarsi come artista: già negli anni Trenta del Novecento aveva partecipato alla “Seconda Mostra del Novecento Italiano”, accanto a nomi come De Chirico e Sironi.
Prima del capoluogo meneghino fu però Trieste, città cosmopolita e crocevia di culture, ad avere un ruolo determinante nella sua formazione. Qui, immersa nell’ambiente intellettuale che gravitava intorno a figure come Italo Svevo e Umberto Saba, sviluppò un’attitudine anticonformista e una passione per la lettura e la scrittura che durò nel tempo. Il legame con il mondo letterario è testimoniato dalle collaborazioni con Jean Cocteau e André Pieyre de Mandiargues, con cui condivideva una visione poetica e immaginifica dell’arte. La mostra milanese dedica spazio anche a questa dimensione, esponendo edizioni rare illustrate dall’artista, e documentandone il rapporto con gli scrittori del suo tempo.
Il percorso si conclude con Autoritratto con il cappello rosso: un’opera che invita gli spettatori a riconoscersi nella creativa, a farsi specchio della sua visione ribelle. Più che un arrivederci è un passaggio di testimone: l’arte di Leonor Fini non appartiene al passato e continua a vivere nelle lotte contemporanee per l’autodeterminazione, il riconoscimento delle identità fluide e la libertà di espressione. La sua opera ha abbattuto confini, mostrando che il genere non è una gabbia, ma un territorio di esplorazione e trasformazione. Leonor Fini ha dato voce a chi non voleva essere etichettato, creando immagini in cui il desiderio femminile si affranca dallo sguardo maschile e in cui il corpo diventa, ancora una volta, manifesto politico e poetico.
Copertina: Autoritratto con cappello rosso di Leonor Fini, da Palazzo Reale
Nell’articolo: foto di allestimento della mostra