Tempo fa, una chiacchierata tra me e l’economista Christian Marazzi, pubblicata sul catalogo Stefano Boccalini Selected Works, iniziava così:
«Christian Marazzi: Potremmo iniziare questa conversazione a partire dal punto di incontro tra il mio lavoro e il tuo: il linguaggio, che per quanto mi riguarda segna un punto di svolta verso la nuova economia, il nuovo capitalismo che oggi chiamiamo digitale oltre che finanziario, e che nel tuo lavoro di artista segna un passaggio importante che ti pone un passo oltre l’Arte Pubblica, verso quella che in una precedente conversazione avevamo definito come Arte del Comune.
Oggi il linguaggio è diventato così centrale nei processi economici, e di conseguenza sociali, da trasformarsi in un campo di “battaglia”, un terreno di “scontro” tra profitto e bene comune. Il capitale attraverso le nuove tecnologie, che sono prettamente linguistiche, tende a mercificare il linguaggio e si pone in contrapposizione con chi pensa che questo debba essere una risorsa che va a beneficio della collettività e non fonte di profitto per pochi. Gli algoritmi da cui nascono le nuove tecnologie, attraverso la parola, diventano dispositivi di captazione di valore e creano il terreno sul quale poi si ridefiniscono i rapporti di potere, credo che tutto quello che ha caratterizzato la storia del capitalismo vada in qualche modo risituato sul terreno linguistico, e questo è il terreno sul quale io mi muovo e sviluppo il mio pensiero economico.
Quello che vedo nel tuo lavoro si riassume bene in un’espressione di Paolo Virno quando dice: il verbo si fa carne. Nel tuo caso il verbo si fa materia, si fa intervento sul territorio, si fa intervento nello spazio pubblico ma in quanto tale lo supera perché nello spazio pubblico la parola fatta carne, fatta scultura diventa la materia del comune, e molte delle tue opere vanno esattamente in questo senso.»
Da molti anni il mio lavoro si struttura a partire dalla parola nel tentativo di ridare peso specifico e valore collettivo al linguaggio, che diventa il “luogo” dove la diversità assume un ruolo fondamentale e diventa il mezzo con cui contrapporre al valore economico il valore “del comune”, come momento di inclusione.
Viviamo in un’epoca in cui le parole sono diventate un vero e proprio strumento di produzione ed hanno assunto una dimensione sempre più importante all’interno del contesto sociale, e proprio per questo sono diventate protagoniste del mio lavoro. Attraverso la fisicità con cui le metto in “scena” risultano dei veri e propri dispositivi di comunicazione in continuo dialogo con i “luoghi” che le accolgono, e diventano momenti di riflessione su tematiche che riguardano tutti, a partire da quelli che consideriamo “i beni del comune”.
Quello che mi interessa è riuscire ad attivare strategie di lavoro capaci di innescare processi di inclusione e di sostenibilità, strategie in grado di spostare lo sguardo da quell’economia dominante che vede il contesto sociale come un luogo da cui trarre profitto, e questo non può che generare esclusione.
L’utilizzo della parola che ha caratterizzato il mio lavoro in questi ultimi dieci anni ha caratterizzato anche il lavoro nato dal rapporto con la Valcamonica, e proprio a partire da qui, dal racconto delle opere realizzate in questa Valle, che vorrei parlare di come il linguaggio, la parola, diventa parte fondamentale della mia ricerca artistica. A partire dal 2013 ho cominciato a collaborare con alcuni artigiani locali con cui ho stretto un rapporto di scambio, questa collaborazione ha dato vita ad una serie di lavori che esistono in virtù di questa relazione, ma che assumono un ruolo che va al di là dei manufatti creati. L’obbiettivo non è stato, e non è solo quello di realizzare delle opere, ma è anche quello di stimolare un percorso di trasformazione di quelle pratiche artigianali che oggi assumono una forma quasi domestica e che inevitabilmente rischiano di scomparire. Forme artigianali che storicamente ricoprivano una funzione di primaria importanza nel tessuto sociale e culturale della Valle, mentre oggi faticano a resistere ai cambiamenti imposti dalla modernità e sono relegate ai margini, e pochi ne conoscono ancora le antiche tecniche. Tecniche che continuano a sopravvivere ma che faticano a creare nuove economie, nuove risorse, che potrebbero dare la possibilità ad alcuni giovani di costruirsi un futuro investendo sul territorio, all’interno delle proprie comunità e non doverle abbandonare per cercare lavoro altrove. Un processo di consapevolezza che mette al centro gli antichi saperi, non per riproporre modelli non più sostenibili, ma per ripartire da quegli stessi modelli per spostare lo sguardo verso inedite visioni.
Ripartire da una condizione locale, come possibile modello di sviluppo, mi permette di guardare alla “diversità” che il territorio sa esprimere, e alla ricchezza che questa offre, come a uno spazio progettuale dentro il quale costruire nuove forme di lavoro da contrapporre a quel sistema produttivo, omologante, che la contemporaneità propone. La conoscenza sempre più approfondita dei saperi che questo territorio sa esprimere e il rapporto con gli artigiani che ne conservano i segreti, mi hanno permesso di realizzare molte opere. Attraverso la tessitura dei pezzotti (tappeti realizzati a mano con telai dell’800), l’intreccio del legno (tecnica utilizzata per la realizzazione di cestini e gerle) o del ricamo a punto e intaglio, ho potuto dare forma al mio pensiero.
Entrando più nello specifico, vorrei parlare di un lavoro che ha dato il via al mio rapporto con il territorio: PubblicaPrivata è un’opera permanente nata all’interno di Aperto_ art on the border, un progetto di arte pubblica che mette in relazione l’arte contemporanea con il territorio camuno, sostenuto dalla Comunità Montana di Valle Camonica che ha affidato la direzione artistica a Giorgio Azzoni. Mi è stato chiesto di pensare e progettare un’opera a partire da una riflessione sul tema dell’acqua, grazie all’organizzazione ho potuto soggiornare in Valle per tre settimane, tempo che mi ha permesso di osservare con attenzione il territorio camuno. Mi ha permesso di osservare le montagne e il fiume Oglio che percorre la valle da Ponte di Legno fino al lago d’Iseo, seguendo il fiume ci si rende immediatamente conto quanto il fluire delle sue acque sia continuamente interrotto, molti sono gli sbarramenti costruiti per permettere alle centrali idroelettriche di produrre energia, lasciando il letto del fiume con una quantità d’acqua che in certi periodi dell’anno non è sufficiente a soddisfare i bisogni degli abitanti di alcuni paesi della valle. Ma mi ha permesso anche di ascoltare i suoi abitanti, di ascoltare le associazioni che sono nate e si sono consorziate per tutelare una risorsa che dovrebbe essere considerata un bene comune.
Il risultato è un’opera collocata nel letto del fiume Oglio nel tratto che attraversa il territorio del comune di Temù, le dimensioni dell’opera sono state pensate appositamente per adattarsi ad uno sbalzo, costruito dall’uomo all’interno del fiume, in modo che l’acqua potesse scorrere senza impedimenti ma allo stesso tempo potesse entrare in contatto fisico con l’opera. La scelta dei materiali è stata fondamentale per la costruzione di questo lavoro, avevo bisogno di due materiali il più possibile uguali dal punto di vista estetico ma con caratteristiche diverse. La scelta è ricaduta sul ferro e sull’acciaio, materiali che appena lucidati appaiono simili, ma che a contatto con l’acqua reagiscono in modo differente: il ferro arrugginisce e col passare del tempo si deteriora, l’acciaio non viene corroso dall’acqua e quindi mantiene le sue caratteristiche originali. Con l’acciaio ho realizzato la parola “pubblica” e con il ferro la parola “privata”, chiaramente il riferimento è all’acqua, acqua che col passare del tempo modificherà l’opera e metterà in evidenza quello che è il mio pensiero su una questione così delicata.
Un altro lavoro di cui vorrei parlare è Una parola su Monno, un’opera permanente che si è strutturata su più livelli e che parla di inclusione ma anche di responsabilità, dove il rapporto con “l’altro” e il rapporto con il territorio si fondono e generano consapevolezza. Attraverso una cartolina che mostra una veduta del paese, appositamente realizzata, ho chiesto agli abitanti di Monno di pensare e scrivere direttamente sulla cartolina una parola che fosse in grado di esprimere il rapporto che ognuno ha con il proprio paese.
Quando tutte le cartoline mi sono state restituite ho scelto, insieme ad alcuni abitanti del paese, le parole più significative e più rappresentative della comunità, successivamente queste parole sono state intagliate nel legno dagli utenti della Cooperativa sociale il Cardo di Edolo, che lavora in quel territorio, persone con disagio psichico. I manufatti hanno trovato spazio nelle vie del piccolo borgo e sono diventati parte integrante del paesaggio di Monno. La parola è così diventata un “luogo” dove il vissuto viene significato e condiviso, ma anche un luogo di incontro dove la diversità crea quel senso del “comune” come valore primario.
L’ultimo lavoro è un progetto attualmente in corso: La ragione nelle mani, che definisce in maniera chiara la relazione tra il mio lavoro e il territorio camuno. La realizzazione di questo progetto è stata resa possibile grazie al sostegno delle istituzioni che hanno creduto nel mio lavoro, a cominciare dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura che attraverso l’ottava edizione dell’Italian Council, ha individuato in La ragione nelle mani un progetto da finanziare. Non meno importante è stato il ruolo giocato dalla Comunità Montana di Valle Camonica, che ha cofinanziato il progetto e che, insieme ad Art for the World Europa, ne è stato l’ente proponente.
Il progetto si muove su due livelli, quello del linguaggio e quello dei saperi artigianali, attraverso il coinvolgimento della comunità locale. Il lavoro ha preso il via con un laboratorio, sulle parole intraducibili che ho tenuto insieme alle operatrici della Cooperativa Sociale il Cardo di Edolo, a cui hanno partecipato tutti i bambini di Monno. Insieme ai bambini abbiamo scelto circa venti parole intraducibili e ne abbiamo approfondito la conoscenza attraverso una serie di attività che hanno toccato vari aspetti della loro creatività. Ho poi sottoposto queste stesse parole allo sguardo degli artigiani e delle artigiane per capire con loro quali potessero essere le più adatte a essere trasformate dalle loro sapienti mani. Ne abbiamo scelte nove che sono diventate il materiale su cui hanno lavorato insieme a otto, tra apprendisti e apprendiste, selezionati attraverso un bando pubblico rivolto ai giovani della valle interessati a confrontarsi con alcune pratiche artigianali: la tessitura dei pezzotti, l’intreccio del legno, il ricamo e l’intaglio del legno. Insieme hanno realizzato i sette manufatti che compongono l’opera che attualmente è in mostra alla Maison Tavel di Ginevra e che entrerà a far parte della collezione della GAMeC, il museo di arte contemporanea di Bergamo.
Le parole che ho utilizzato in questo progetto sono termini intraducibili e parlano del rapporto tra gli esseri umani e la natura e arrivano da lingue diverse, molte delle quali minoritarie che a stento resistono all’uniformazione. Sono parole che non hanno corrispettivi in altre lingue e quindi non possono essere tradotte ma solamente spiegate con dei concetti. Nel rischio della loro scomparsa vi è la cancellazione permanente della ricchezza legata a quella biodiversità linguistica che queste parole intraducibili hanno la capacità di esprimere in modo così efficace.
Così, possiamo scoprire che Anshim in coreano significa avere l’anima in pace, sentirsi in armonia con sé stessi e con il mondo, oppure che nelle Filippine la parola Balikwas significa abbandonare la propria zona di comfort, dubitare delle certezze, cambiare il proprio punto di vista, vedere le cose in modo diverso e nuovo. O possiamo farci stupire da parole come Dadirri, che nella lingua aborigena in Australia serve per esprimere la quieta contemplazione e l’ascolto profondo della natura e del creato, la pace con sé stessi e con le altre creature, o da un termine come Friluftsliv, utilizzata in Norvegia per definire un’esperienza di reale connessione con l’ambiente, grazie alla quale una persona si sente a casa quando è in mezzo alla natura selvatica, anche in luoghi in cui non è mai stata, oppure ancora dalla parola Ubuntu, che nell’Africa meridionale serve per indicare “benevolenza verso il prossimo”, una regola di vita basata sul rispetto dell’altro e sul sentirsi parte di una grande comunità.
Queste parole intraducibili parlano del rapporto tra gli esseri umani e del rapporto con la natura. Il luogo in cui La ragione nelle mani ha preso forma è un territorio montano, decentrato, una valle Alpina, dove la natura ha un forte impatto sui ritmi della quotidianità e dove le varie comunità hanno ancora la capacità di riconoscersi attraverso un’identità territoriale. Il legame che c’è tra questo luogo e alcune parole che arrivano da lingue lontane e minoritarie sta in una parola: biodiversità. In un territorio come quello della Valcamonica la biodiversità appartiene alla natura, come lo dimostra il fatto che è considerato uno tra i territori europei con la più alta biodiversità vegetale, ma passa soprattutto attraverso i saperi che sa esprimere, saperi che sono a rischio perché non più in grado di reggere il confronto con una contemporaneità che tende sempre più verso l’omologazione. Nelle parole intraducibili utilizzate si riflette una biodiversità che in questo caso è linguistica, e che è a rischio. Se spariscono le parole, si perdono i saperi. Allora, la biodiversità diventa per me il “luogo” dove trovare nuove alleanze per preservare quella “complessità” di cui abbiamo bisogno per salvaguardare il futuro delle generazioni che verranno.