Cos’è l’adolescenza se non l’inizio del declino dell’entusiasmo per la vita? Charles Burns col primo capitolo della nuova trilogia, Labirinti (Coconino Press), « don’t look back in anger» al periodo brutalmente meraviglioso dell’adolescenza. Con Black Hole, il suo capolavoro, divenne famosa la rappresentazione estetica di quella finestra temporale in cui nessuna persona sana di mente vorrebbe fare ritorno: dell’innocenza, della paura, della violenza e dell’orrore di corpi che mutano insieme a una coscienza che inizia a essere contaminata dal mondo circostante. Figure che vagano per le strade, nei corridoi scolastici, nelle aule ormai vuote impegnate in una ricognizione dell’incomunicabilità prima di diventare ombre incapaci di lasciare alcuna testimonianza al prossimo. Finita l’infanzia non ci si può più gongolare nella purezza, se non in quella del disegno, o di qualsiasi forma d’arte che nella finitezza dell’opera rappresenta il controllo sulla vita per l’artista e, al contempo, la ricerca d’infinito. Così è per Brian che, immerso nella scoraggiante realtà, è capace di isolarsi in una festa per disegnare finché Laurie non lo àncora a terra con la parola, diventando con un approccio diretto e la sua bellezza concreta, e non immaginata, un perfetto contraltare del protagonista.
Sono poche le pagine che Burns ci concede in questo primo volume eppure, a differenza di Black Hole, i giovani protagonisti sono perfettamente delineati, sembrano già in avanzato stato di decomposizione, ostracizzati dalla loro stessa agonia; insomma, hanno attraversato lo specchio insieme ad Alice e nel mondo delle meraviglie non hanno trovato nessuna catarsi.
Brian è un esule nella sua stessa patria, nel suo relazionarsi col prossimo pare disorientato ma la sua arte è viscerale e senza confini. Come Laurie segue una sua consapevolezza, che non è altro che il frutto di una maturazione accelerata rispetto ai coevi; se nella ragazza l’espansione di sé avviene attraverso la parola, in lui questo vagare oltre i confini del corpo diventa “realtà” tramite l’immagine, passo dopo passo in un vangelo della realtà visiva che, prima di lui, solo Robert Crumb ha saputo padroneggiare con così tanto riconoscibile stile e controllo.
I personaggi di Burns sono pieni di ferite – l’inizio di Black Hole, per l’appunto, è rappresentato da un taglio -, ma non bisogna interpretare le ferite come un qualcosa da curare: sono vie, pertugi mai esplorati, dei veri e propri varchi emotivi da cui partire per un viaggio iniziatico di morte e resurrezione.
Mentre di questi tempi l’arte è una recita mandata a memoria e stiamo diventando, via via, sempre più indifferenti o, peggio, irritati dall’ironia e incapaci di sostenere qualsiasi pathos, Charles Burns unisce gli estremi tra creatività e distruzione che non sono altro che le pietre angolari su cui si edificano le identità dei giovani, di ogni epoca e a ogni latitudine. Solitudini costellate di lacrime, merende trascorse al bagno, vere volte celesti puntellate da regioni inaccessibili per gli altri esseri umani.
La fine dell’adolescenza significa perdere la strada. Ricordate la sensazione provata la prima volta che siete usciti, che avete oltrepassato la soglia di casa senza la supervisione dei genitori? C’era la tenerezza, l’emozione, l’adrenalina, la paura e la tensione della scoperta. È lì, forse, la fonte di ogni malessere: l’impossibilità di tornare a casa, a un’innocenza smarrita, completamente nudi e alienati di fronte alla rivelazione dell’ipocrisia del mondo degli adulti. Per i ragazzi di Labirinti c’è la colpa senza redenzione, il desiderio di un amore infinito e il fallimento dello stesso amore, una violenza inespressa e tante piccole morti.
Lasciato da parte il grasso adolescenziale e, in seguito, i vent’anni, abbiamo abbracciato uno stato di abbandono e messo su muto l’urlo di Ginsberg, tanto le generazioni non esistono più e neanche menti migliori “grazie” al processo di democratizzazione orizzontale della banda larga. Sempre più isolati dall’emozione e anestetizzati come una cura preventiva dai mali che comporta il sentire, commuove ancora vedere persone o, in questo caso, personaggi vivere spinti dall’intuizione e dall’irrequietezza dell’età giovane; il corpo sarà pure stremato, ma ciò che c’è dentro è ancora vivo e può emergere attraverso quelle stesse ferite che proviamo, nella società occidentale, ostinatamente a curare.
La gioventù ha sempre richiesto la sua quota di sacrifici umani e, forse, ad alcuni è stato risparmiato di assistere a una realtà che da incubo si fa parodia.
Diventa impossibile parlare di Labirinti, che già dal titolo dice tutto, senza mettere in mezzo emozioni private e rivedere con un occhio solo, in preda alla vergogna, la scatola nera del proprio passato. Le associazioni mentali e personali che si creano tra tavole e vissuto lasciano il lettore completamente disorientato, perduto e con la speranza di essere ritrovato.
La festa dove si conoscono Brian e Laurie, i disegni horror/onirici di Brian, i filmini lo-fi underground con l’amico Jimmy, l’uscita al cinema con Laurie: in ogni squarcio di apparente normalità, di una quotidianità che si ripete sempre uguale a cui Burns ci permette di assistere attraverso lo spioncino, aleggia la paranoia, una condanna, l’inevitabilità di una catastrofe che percepiamo sottopelle appena svoltato l’angolo di una strada, un’aggressione dietro la porta di casa o, per dirla con una poesia di Arsenij Tarkovskij: «Quando il destino ci seguiva passo a passo, come un pazzo con il rasoio in mano».
Copertina (c) Coconino Press