Non è senza un po’ d’imbarazzo che proviamo a ricordare Christian Boltanski, l’artista che proprio della memoria e della morte ha fatto gli elementi precipui della sua arte. Scrivere il necrologio di chi ha fatto proprio del necrologio un linguaggio, implica relazionarsi con un individuo che ha rinegoziato per tutta la sua vita quella relazione intima e individuale con l’ipotesi di non essere più tra i vivi.
Christian Boltanski era nato a Parigi nel 1944 da padre ebreo e da madre cattolica, è quindi persino scontato immaginarsi quanto il suo immaginario si sia formato fin da che venne al mondo in una dimensione dove le voci dei vivi e quelle dei morti erano sostanzialmente sovrapposte; le rievocazioni della Shoah, e i racconti dei familiari che dovevano nascondersi in un’intercapedine sotto i pavimenti di una Parigi occupata, quindi di fatto tumulandosi per scappare a un ancor più tragico destino. Eppure, tutti quelli che hanno conosciuto Boltanski, anche solo per qualche ora, lo ricordano come un uomo tutt’altro che cupo, anzi serafico, scevro da ansie o adombrato da malinconie.
È la pittura, curiosamente, ad essere la sua più antica alleata e il concetto al quale anche in sua assenza meglio definisce il suo approccio all’arte. Un rapporto fatto di attesa, costanza; strati che si sovrappongono e quel tempo sacro che ogni pittore percorre per iniziare e finire una tela. Era lui stesso a definirsi pittore, anche se dal 1967 in poi smise di lavorare su materiale puramente pittorico per concentrarsi nello sviluppo di opere multimediali, realizzate con varie tecniche ma dove, al di là del medium, è ancora la memoria la materia prima con la quale l’artista ha progettato una quantità di monumenti effimeri totalmente a-monumentali per celebrare i volti, le storie e anche il mistero di chi è stato e anche di chi non sapremo mai niente.
La pittura dicevamo; risalgono al 1958 i primi dipinti conservati di Boltanski, all’epoca l’artista aveva solo 14 anni, iniziò a dipingere da autodidatta ed è piuttosto intuitivo il fatto che un adolescente nato in quel contesto volesse esprimere il trauma al di là delle parole. La chambre ovale (1967) è un dipinto di medie dimensioni (e tra i suoi ultimi veri e propri quadri): nella scena, al limite dell’astrazione, vediamo una figura seduta sul pavimento di una claustrofobica camera ovale che l’avvolge. Il personaggio sembra pietrificato e impotente, condizione enfatizzata dal fatto che il suo corpo è privo di braccia, un soggetto che restituisce la sensazione di solitudine e abbandono, un’immagine che sembra scaturire direttamente dalla sua infanzia, da un dolore sepolto.
Dopo quell’anno, come dicevamo, Boltanski abbandona la pittura ma non rinuncia al concetto che quella pratica implica. È l’artista stesso a specificarlo più avanti, in un’intervista nel 1975 contenuta nel volume Monuments à une personne inconnue: six questions à Chistian Boltanski:
«Io sono un pittore estremamente tradizionale. Lavoro, come tutti gli artisti, per suscitare emozioni negli spettatori. Lavoro per far ridere o piangere la gente; sono un predicatore. Ho fatto libri, inventari, foto e film, ma è la stessa cosa. Non credo che vi siano differenze tra i media. Si ha un’idea e si cerca il modo migliore di esprimerla, il mezzo più accettabile in quel momento. Non credo che vi sia una forma privilegiata. Penso che i pittori abbiano sempre avuto più o meno le stesse cosa da dire, lo stesso desiderio di catturare la realtà, solo che lo esprimono ogni volta in un modo un po’ diverso e con mezzi un po’ diversi. Non è per il fatto che ci servirà del video o di altri trucchi che cambierà qualcosa».
La semplicità o l’apparente naïveté di questa dichiarazione è rivelatrice di quanto Boltanski, così come molti artisti della sua generazione, avevano effettivamente iniziato con la pittura ma se ne erano allontanati rapidamente proseguendo le loro carriere (di pittori, di artisti?) attraverso altri media. Tra questi, il ruolo della fotografia occupa indubbiamente un posto importante nella sua opera, anche se sempre associata ad altri elementi, in particolare testi e oggetti, e non è mai un lavoro direttamente espresso attraverso l’uso della tecnica fotografica quanto un lavoro di appropriazione, collezione ed esposizione di reperti. In questo senso Boltanski si è artisticamente impadronito di quell’immagine cimiteriale, di quel coro dei morti fatto di migliaia di volti, alcuni senza nome, altri attribuibili a una visitazione autobiografica delle fonti rinvenute tra le mura domestiche. In ogni caso quella progressiva ostensione del volto, riprodotta in traccia evanescente e depositata in archivi e su lapidi, è stata trasformata dall’artista in aura fantasmatica e però ‘viva’ durante tutta la sua lunghissima produzione.
Tuttavia, prima di impiegare l’oggetto fotografico come ready made o object trouvé, Boltanski sperimenta la fotografia come spazio di rappresentazione performativa. È del 1974 la serie di montaggi fotografici intitolata Saynètes Comique di cui La Mort du grand-père ne è il capitolo finale: montate su un cartoncino nero, cinque fotografie mostrano in una pantomima il letto di morte con la salma di una figura paterna, descritta come “dura” in una precedente sequenza. Nell’opera, oltre al soggetto patriarcale, spirato in una smorfia grottesca e con indosso un cappello, s’alternano le figure del prete che recita l’estrema unzione e di una vedova straziata dal lutto: tutti i personaggi sono interpretati dall’allora trentenne Boltanski. L’opera che l’artista poi riprese anche come base per una serie di veri e propri dipinti (a testimonianza di quanto quel legame con la pittura vera e propria fu evidentemente difficile da recidere) permette di meglio inquadrare l’intero spettro di sentimenti che intercorrevano tra l’artista e il suo soggetto di riferimento, la morte. La serie Saynètes Comique è di cruciale importanza per capire lo sviluppo della carriera dell’artista perché Boltanski pratica attraverso l’ironia una forma di sdrammatizzazione e di distacco verso la solennità che contraddistingueva i suoi precedenti sforzi. Fino a quel momento aveva cercato di raccontare la storia del “personaggio” di Christian Boltanski per poi prenderne le distanze come egli stesso ricorda nel dialogo con Delphine Renard, pubblicata sul catalogo della sua personale al Centre Pompidou del 1983:
«Quel personaggio immaginario è diventato troppo pesante e ho sentito l’impulso di ucciderlo (…) uccidere il mito (…) ucciderlo in modo ridicolo».
Tale dichiarazione espone con totale lucidità quanto Boltanski fosse consapevole del valore simbolico e in un certo senso anche materiale della morte nei suoi paradigmi artistici. Quello che egli stesso definì come “personaggio” vale però la pena di essere raccontato, così come l’artista fece attraverso una serie di importanti lavori al principio degli anni Settanta: Essai de reconstitution (Trois tiroirs) (1970-71) è un’opera composta da una cassettiera di metallo che custodisce il tema dell’infanzia perduta dell’artista. Nei tre cassetti che la compongono l’artista ha collocato piccole sculture di plastilina modellate sulle forme di oggetti e giocattoli che appartennero a Boltanski durante i suoi primi anni di vita e opportunamente elencati sulle etichette battute a macchina come in un vero e proprio archivio.
Il tema dell’archiviazione, del resto, si fece sempre più presente nella carriera dell’artista fino a diventare tutt’uno con quello del museo e dei luoghi che naturalmente erano predisposti a ospitare per tutta la loro vita il risultato delle sue ricerche. In Vitrine de référence (1971) realizzò più esemplari di diverse teche per esporre oggetti personali mettendoli in scena come reliquie o come reperti archeologici di civiltà perdute o primitive. L’artista pretese di esporle nei musei di storia naturale o di antropologia, presentando con piglio da archivista quegli elementi appartenuto a “un uomo”, «che hanno tenuto compagnia e che dopo la sua morte recano testimonianza della sua esistenza». Boltanski provò a proporre tali artefatti ai direttori di sessantadue diversi musei, ma la prima vera esposizione di queste opere avvenne in un luogo più consono all’arte contemporanea: nel 1973 alla Kunstahalle di Baden-Baden per la mostra intitolata Les Inventaires.
Se l’arte moderna era nata in Francia grazie alla fascinazione da parte delle avanguardie per l’arte “negra”, Boltanski non era minimamente interessato al valore formale di quegli artefatti, ma più al complessivo modello etnografico e agli apparati del display museale fatti di vetrine, teche, etichette, legende, modalità espositive alle quali l’artista volle ispirarsi come egli stesso riconosce nella conversazione con Delphine Renard del 1984:
«Il Musée de L’Homme ha avuto per me un’enorme importanza; vi trovavo grandi vetrine metalliche nelle quali si vedevano piccoli oggetti, fragili e privi di significato. In un angolo della vetrina si trovava spesso la foto ingiallita di un “selvaggio” intento a maneggiare i suoi miseri utensili. Ogni vetrina presentava un mondo scomparso: il selvaggio della fotografia era sicuramente morto, gli oggetti erano diventati inutili e, in ogni caso, più nessuno sapeva servirsene. Il Musée de L’Homme mi appariva come un grande obitorio. Molti artisti hanno scoperto allora le scienze umane (linguistica, sociologia e archeologia); e ancora una volta era il “peso del tempo” che s’imponeva agli artisti».
Boltanski aveva subito inteso la lezione di Duchamp che pionieristicamente aveva fatto dell’immaginario della vetrina e dei contenitori museali un suo strumento e ciò che apparentemente non presentava nessun valore estetico sarebbe diventato un luogo da evocare continuamente nella pratica degli artisti nati dopo la Seconda Guerra Mondiale. Boltanski semplicemente capì quanto la vita degli artisti era in sé un valore simbolico da esibire e quanto le opere fossero diventate oggetti dal valore votivo, come l’artista spiegò tra il serio e il faceto nel 1988 sulle pagine del numero 128 di ArtPress:
«I Musei che, oggi, vogliono avere dei Mondrian somigliano moltissimo alle città del Medioevo che volevano avere le reliquie di un santo. Quando non riuscivano a possedere le ossa di un gran santo, s’accontentavano d’un santo locale, oppure ne inventavano uno. Sono rimasto veramente colpito quando i giapponesi hanno acquistato il Van Gogh: pensare che questo paese che fabbrica computer aveva bisogno di quel vecchio pezzo di tela come d’un oggetto magico; perché Van Gogh è uno dei grandi santi dell’Occidente!».
Pittura, oggetti, installazioni, museografia personale; eppure, ciò che ha caratterizzato fin dall’inizio la carriera dell’artista è la relazione con l’immagine in movimento, che rappresenta una parte della sua produzione sicuramente meno nota a quel pubblico che lo vorrebbe cristallizzato nelle grandi operazioni monumentali, nei silenziosi ritratti di defunti debolmente illuminati nelle sue installazioni, e nelle celebrate commissioni pubbliche. Già la prima personale di Boltanski testimoniava il fascino che il cinema ebbe su di lui: la mostra si tenne per l’appunto in una sala di proiezione del sedicesimo arrondissement di Parigi dove proiettò il film dal titolo evocativo La vie impossible de C.B. (1968). Il cortometraggio in bianco e nero della durata di 12’ era assemblato con ritagli fotografici, immagini raccolte da giornali, cartoline, album di famiglia, registri di ogni tipo, verbali di polizia, ricordi domestici: né più né meno, un manifesto di ciò che la sua arte avrebbe raccontato negli anni a venire.
Boltanski non fu certamente il solo artista che espresse la necessità di utilizzare il cinema non con l’ambizione di diventare “regista”, ma per esplorare il potenziale dell’audiovisivo in modo spontaneo, senza aderire alle sue regole e ai suoi generi, soprattutto andando oltre al formato. Se in tal senso Andy Warhol è stato il più celebre dei grandi artisti che si appropriarono del cinema già dal 1963 trascinandolo a sé e riconducendolo ai suoi codici di totale semplificazione (le sue prime pellicole sono la scarna e fredda registrazione di azioni elementari), anche per Boltanski l’obbiettivo era l’abbattimento tra due discipline che sostanzialmente si ignoravano; ne è dimostrazione la sua proposta di voler inserire il cortometraggio L’homme qui tousse (1969) tra gli spot pubblicitari proiettati prima degli spettacoli nelle sale, per «sensibilizzare le persone». Secondo Boltanski l’iniziativa sarebbe servita a far incontrare al grande pubblico l’arte e la vita in un modo molto diretto; la pellicola della durata tre minuti mostra un uomo mascherato, seduto in una piccola stanza piuttosto squallida (nella quale si ravvedono più somiglianze con La chambre ovale), ripreso nel mezzo di un violento attacco di tosse e che letteralmente vomita un fiotto di sangue su di sé. La tecnica totalmente artigianale impiegata da Boltanski per procurarsi questi “effetti speciali” restituisce insieme all’effetto documentaristico una sensazione di grottesca disperazione. Possiamo soltanto immaginare le reazioni del pubblico che inavvertitamente sarebbe passato da una seducente réclame (magari di sigarette) all’Homme qui tousse sull’orlo di espellere i suoi polmoni. Non lo sapremo mai perché in ogni caso il Ministere des Affaires Culturelles gli rifiutò l’indispensabile visto di censura adducendo le seguenti motivazioni, nella lettera pubblicata in Christian Boltanski, (Flammarion 1992, di L. Gumpert):
«Le Commissione propone il divieto totale di questo cortometraggio, il quale, a parere della Commissione, offre in maniera particolarmente sordida e rivoltante l’immagine della miseria fisiologica di un uomo, presentato tra l’altro con i tratti di un mostro. Essa esprime i suoi timori per gli effetti traumatizzanti che il film può suscitare in qualunque spettatore».
Il ministero dell’epoca proibì il film che, come molti altri esperimenti nella febbrile storia del cinema sperimentale, trovò poi rifugio in musei, fondazioni e rassegne destinate ad un pubblico avvertito. Dopo L’homme qui tousse seguirono altri esperimenti come il brevissimo Tout ce dont je me souviens (1969) e il mediometraggio Essai de reconstitution des 46 jours qui précédèrent la mort de Françoise Guiniou (1971), tragica cronaca di disperazione familiare con un uomo segregato insieme ai suoi due figli in un angusto appartamento parigino. L’ex pittore Boltanksi è quindi già sul finire degli anni Sessanta a tutti gli effetti un artista multimediale che usa qualsiasi formato per tratteggiare il suo mondo. Ogni traccia lasciata è lì a documentare il lavorio di un uomo che ribadisce la sua vita soprattutto relazionandola alla sua fine, un’operazione che con tutt’altra estetica è stata eguagliata in termini assai più algidi e radicali solo dal concettuale On Kawara (1933-2014), famoso per realizzare un dipinto al giorno con una semplice data, come a timbrare il cartellino della sua esistenza. On Kawara ci ha fatto dono anche di uno degli esempi più precisi di mail art, inviando ad amici e altri protagonisti della scena artistica del suo tempo cartoline postali e telegrammi con un laconico messaggio esistenziale: «I’m still alive». Boltanski dal canto suo, incuriosito dalle possibilità che ciascun documento di carta potesse trasformarsi col tempo in un reperto storico-archeologico (ma anche in un oggetto dal potenziale narrativo), nel 1970 indirizzò a perfetti estranei delle lettere manoscritte che recavano delle patetiche richieste d’aiuto.
Risulta difficile individuare nei riferimenti artistico-culturali di Christian Boltanski l’impronta di un grande maestro o di un artista in particolare, certamente però c’è stata lungo tutta la sua carriera una tendenza alla nozione di “work in progress”, attinta sicuramente da Joyce in letteratura e da Kurt Schwitters in arte. Dopo la pubblicazione dell’Ulisse (1922) – che curiosamente coincide con il primo Merzbau di Schwitters -, Joyce cominciò la stesura di un’opera che intitolò Work in Progress, pubblicata per frammenti nell’arco del decennio 1920-30, fino a raggiungere la fisionomia definitiva nel maggio del 1939 con il titolo Finnegans Wake. Il concetto di un’opera “work in progress”, che noi oggi diamo totalmente per scontato, si stava formulando grazie a Joyce e Schwitters in quegli anni prima di affermarsi come una modalità condivisa nelle generazioni successive di autori. Un’opera perennemente in corso sovverte il dogma della “creazione” e il concetto di un’opera che progredisce e muta nel tempo, ed evidentemente flirtava con l’ossessione stessa di Boltanski per la vita e la morte, ma soprattutto con il processo che l’opera implica. Non è un caso se la mostra organizzata da Boltanski insieme all’artista Jean Le Gac all’American Center di Parigi nel 1969 s’intitolasse proprio Work in Progress.
È nei numerosissimi e archivi che si trova in purezza l’arte di Boltanksi, in quel meticoloso ordinare senza alcuno scopo normativo o burocratico ogni tipo di materiale che può dire qualcosa di immediato e recondito dell’umanità. Les archives de CB (1965-1988) mostra la profonda ossessione dell’artista nel «tenere traccia di ogni istante della nostra vita, di tutti gli oggetti che sono entrati in contatto con noi e di tutto ciò che è detto intorno a noi». Per quel progetto Boltanski realizzò una parete composta da 646 scatole di latta arrugginite (che in origine contenevano biscotti) a rispecchiare la forza corrosiva del tempo che passa. A differenza dei cassetti del già citato Trois Tiroirs (1970), che ospitavano i giocattoli della sua infanzia, la scala di questi Archives proietta lo spettatore in un non meglio precisato archivio statale, illuminato da lampade spartane alimentate da cavi elettrici ben in vista. All’interno di quelle scatole l’artista stipò più di 1200 reperti fotografici e 800 documenti provenienti dal suo studio prima di sgomberarlo. A differenza di un archivio però, tali documenti non sono consultabili poiché sigillati nelle scatole, consegnati all’oblio oppure alla memoria di chi ha conosciuto l’artista e frequentato il suo laboratorio. Boltanski fece nuovamente ritorno al tema dell’archivio personale nel 2001 con La Vie impossibile: una serie di venti teche affastellate da ogni tipo di documento. Se in questa occasione non nascose i suoi ricordi, la totale mancanza di un ordine proprio degli archivi rendeva quell’opera un ammasso d’informazioni di fatto incomprensibili.
Negli anni l’opera di Boltanksi è stata giustamente onorata nei luoghi e nelle più importanti rassegne mondiali d’arte contemporanea, in più occasioni abbiamo ritrovato quel linguaggio sempre coerente a se stesso declinarsi in varie forme, aumentando di volume, come a ribadire il peso dell’accumulo dei ricordi: Réserve venne per la prima volta esposta nel 1990, ma già nel 1988 Boltanski aveva utilizzato i vestiti come materiale artistico e drammaturgico per evocare gli effetti personali dei deportati ammassati nei magazzini nei campi di sterminio nazisti: «La fotografia, l’indumento o il cadavere di qualcuno sono praticamente la stessa cosa: c’era qualcuno lì, ora non c’è più». Questa tremenda spoliazione è progredita negli anni fino a lavori monumentali come Personnes, del 2010, che ha viaggiato in più luoghi come l’Hangar Bicocca di Milano, il Grand Palais di Parigi e l’Armory di New York: la montagna di abiti inerti sono pescati a caso da una gru da autodemolizione che inesorabilmente procede come amorale agente dell’Olocausto.
In questi ultimi anni il lavoro di Boltanski si è fatto in un certo senso sempre più etereo, la materia ha lasciato sempre più spazio al suono. Les Archives du coeur, iniziato nel 2008, è composto dalla registrazione di battiti cardiaci di essere umani, alcuni dei quali inevitabilmente già cessati man mano che il lavoro di archiviazione proseguiva. Sempre il suono è protagonista di alcuni dei suoi ultimi e più poetici lavori. Animitas del 2014 è un video che testimonia un pezzo di land art sonoro, composto da centinaia di sottili elementi metallici sulla cui sommità sono poste altrettante campanelle che, mosse dal vento, producono una serena melodia e che simbolicamente per l’artista mettono in relazione la terra con le stelle. L’istallazione è stata realizzata e poi filmata in tre diverse ambientazioni: il deserto cileno di Atacama, una foresta in Giappone e tra le nevi del Canada. Chi ha avuto modo di osservarli ne ha apprezzato la leggerezza, la sensazione di armonia che quel concerto di voci provocano nell’ascoltatore, come se Boltanski avesse compreso alla fine della sua “impossibile” vita che oltre la storia, oltre i nomi, oltre i corpi, di questo siamo fatti: di aria, di musica.