Prendi un giovane aspirante sceneggiatore nero e omosessuale, uno gigolò (quasi) per caso con velleità d’attore e moglie incinta, aggiungi un regista di belle speranze sposato a giovane afroamericana in cerca di gloria attoriale, ne esce Hollywood, la nuova serie Netflix ideata e prodotta da Ryan Murphy, enfant terrible delle nuove produzioni seriali statunitensi.
Sì, proprio quel Ryan Murphy che nel (lontano) 2010 ha diretto Mangia prega ama, inutile souvenir d’Italie, e che solamente un anno dopo con American Horror Story ha coniato uno stile unico, accattivante e innovativo all’interno del linguaggio seriale. Il suo modo di guardare e raccontare un’America mostruosa e decadente mantenendo un’estetica elegante e a tratti glamour ha dato vita a prodotti di successo come The Assassination of Gianni Versace e Feud. Dopo il gioco al massacro divistico tra Joan Crawford e Bette Davis l’arguta scrittura di Murphy prosegue questa ironica e crudele riesumazione di scheletri dal laccato armadio hollywoodiano.
Hollywood condensa in sette puntate un affresco sulla fabbrica dei sogni durante il secondo dopoguerra, epoca in cui il cinema americano aveva più che mai bisogno di rinascere artisticamente ed economicamente, dopo il lungo periodo di depressione. Il muto è ormai confinato nel museo delle cere insieme ai suoi divi sul viale del tramonto, e gli Ace Studios continuano a produrre facili successi da sfruttare ai soli fini commerciali, quando un gruppo di giovani emergenti cambia le sorti dello studio e del sistema cinematografico americano con una storia anti-razzista in grado di sconvolgere non poco il sistema produttivo e politico del paese.
La serie si apre come una sorta di Hollywood Babilonia, tra sveltine e battute da bar su uccelli di marmo, mettendo a nudo la mercificazione sessuale e i compromessi di letto che manovrano gli ingranaggi dello studio system e di cui Ernie West è il simbolo, ruffiano per antonomasia. Ernie, ex attore riciclatosi gigolò, gestisce un giro di prostituzione maschile sotto la copertura di una stazione di servizio. Da lui passano tutti i giovani squattrinati che vogliono sfondare a Hollywood come Jack Castello e Archie Coleman. Dreamland è la parola d’ordine che i clienti devono pronunciare per accogliere in auto i loro trastulli amorosi, battuta che suona amaramente ironica quasi il contraltare disilluso della sognante Over the rainbow eseguita da Judy Garland in The Wizard of Oz.
Murphy introduce a una dimensione omosessuale – la sequenza ambientata in un cinema gay possiede il sapore della provocazione warholiana – che già era il fulcro drammatico-violento di Assassination of Gianni Versace, un sottobosco di passioni proibite sospese tra vizio e sincero desiderio di rivendicazione.
Il viscido manager Henry Willson è il perfetto emblema dello sfruttamento psicologico e sessuale imposto dalle major ai giovani debuttanti come Roy Harold Scherer Jr, ingenuo e timido ragazzotto di campagna che Willson vuole plasmare a sua immagine e che diventerà famoso con il nome di Rock Hudson.
Murphy mescola abilmente le carte della reinvenzione finzionale con frammenti di autentica storia hollywoodiana, facendo incontrare – oltre a Hudson – Anna May Wong, George Cukor, Hattie McDaniel e Vivien Leigh con i protagonisti della serie.
Il grande pregio di Hollywood è il suo alternarsi senza soluzione di continuità tra documentazione storica e di costume e gli eroi popolari creati appositamente per lo script, nonché il suo continuo oscillare tra cascami morali da studio system e frammenti di malinconie degne di Woody Allen, come la lapidaria battuta pronunciata da Jack Castello: «Quando esco da un cinema mi sento meglio di quando sono entrato.» Ed è questa forza magnetica prodotta dal cinema che anima i giovani protagonisti, i quali sui titoli di testa sono impegnati a scalare la scritta Hollywood come Harold Lloydd scalava il grattacielo del successo in Preferisco l’ascensore. La metafora della scalata al successo, forse, può apparire fin troppo sintomatica ma funziona molto bene come mise en abyme, anticipando e condensando il cuore dell’intera serie.
Questi giovani talenti vogliono realizzare un film su una debuttante di colore rifiutata dal mondo del cinema, che diventa la chiave di volta per una rivendicazione razziale, il riscatto simbolico e la rinascita utopistica per una Hollywood liberata dalle pastoie colonialiste.
La serie esce a un mese di distanza dalle polemiche sollevate dalla HBO riguardo all’intramontabile capolavoro di Victor Fleming Via col vento, tacciato di razzismo. Murphy non rinnega il glorioso passato istituzionale della fabbrica dei sogni, da The Birth of a Nation a Gone with the wind compreso, ma riscrive in parte la storia del cinema con i toni di una ironica e pungente rivendicazione. Quella che potrebbe apparire una facile operazione politicamente corretta è in realtà un grande atto di amore per una Hollywood non più Babilonia ma Terra Promessa.
Photo credit: frame dalla serie tv Hollywood ( https://www.netflix.com/it/title/81088617 )