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La riscoperta di un premio Oscar. Bong Joon-ho a Venezia e nelle sale italiane



Dopo il trionfo di Parasite, la distribuzione italiana ha portato nelle sale due precedenti film del regista Bong Joon-ho, presidente di giuria a Venezia 78

Molto spesso siamo portati a pensare che la vittoria di un premio come l’Oscar sia più una condanna che una benedizione, che un riconoscimento del genere porti più problemi (di aspettative, soprattutto) che opportunità. Però a volte aiuta, almeno lo spettatore, soprattutto se si guarda a Oriente; quando nel 2003 La città incantata di Hayao Miyazaki vinse il premio Oscar come miglior film d’animazione – dopo aver vinto l’Orso d’oro a Berlino – i distributori italiani ne approfittarono per cominciare a far uscire in sala e in home video i grandi film del regista giapponese fino ad allora inediti come Porco rosso Il mio vicino Totoro.

Lo stesso è avvenuto con Bong Joon-ho, il regista sudcoreano che nel 2020 ha fatto la storia del premio vincendo quattro Oscar, tra cui miglior film, con Parasite, primo film parlato in lingua non inglese a vincere la statuetta principale (c’era riuscito The Artist, ma non era un film parlato): a ridosso del trionfo del film, i distributori che gli anni prima non avevano creduto nei film del regista, distribuendo solo Snowpiercer di produzione americana (e di fatto lasciando ancora inedito in sala uno dei suoi film migliori, The Host, trasmesso solo in tv), hanno approfittato per portare sul grande schermo due suoi precedenti film, Memorie di un assassino Madre.

Bong Joon-ho

Il primo film è del 2003 (ebbe una distribuzione home video nel 2007 col titolo internazionale Memories of Murder) ed è arrivato nelle sale in concomitanza con la vittoria hollywoodiana di Parasite – già insignito della Palma d’oro a Cannes –, mentre il secondo è del 2009 ed è nelle sale solo da qualche settimana. Una mossa da parte di chi opera nel cinema arthouse e nelle sale d’essai per rimpolpare i cartelloni estivi che la pandemia ha reso più poveri del normale, ma per lo spettatore non pigro anche un modo per conoscere più in profondità uno dei più grandi cineasti del cinema sudcoreano contemporaneo. 

I soli film finora visibili di Bong (che dal primo settembre sarà presidente di giuria della Mostra del Cinema di Venezia) infatti davano conto della dimensione più spettacolare del suo cinema, della capacità di giocare con le grandi dimensioni produttive e le richieste del mercato in maniera abilissima e complessa: senza soffermarsi su Parasite (per chi scrive il suo capolavoro: ne ho scritto anche, tra altre cose, in un pezzo su questi schermi), Snowpiercer, Okja (diffuso da Netflix) e The Host sono a loro modo dei kolossal di fantascienza che seguono, magari per ribaltarle, le regole e i codici di certi generi per dialogare con lo spettatore, sono film d’intrattenimento di altissimo profilo che nascondono dentro elementi caratterizzanti della poetica del regista. Il post-apocalittico, il distopico per ragazzi e il Monster-movie vengono riempiti di intuizioni estetiche e cinematografiche con cui raccontare il classismo profondo della società sud-coreana, in cui l’umorismo e la disperazione vanno a braccetto; Memorie di un assassino Madre sono invece due film più radicali, che usano anche loro il genere – il thriller nella fattispecie – ma per illuminare i lati tragici e grotteschi, per lavorare su continue e stordenti sfumature e increspature.

Bong Joo-ho

Il primo usa il thriller seriale come prisma, anticipando ciò che farà David Fincher con Zodiac: la caccia al primo serial killer coreano riconosciuto come tale, autore di almeno 14 omicidi tra il 1986 e il 1991, conclusasi solo nel 2019, diventa uno sguardo cupo e senza via di scampo alla struttura sociale che regola la vita sudcoreana, un modo di raccontare ciò che a Bong interessa da sempre, ovvero l’emarginazione, come si vive ai confini della civiltà pur essendoci dentro, descrivendo il modo subdolamente violento con cui si mettono ai margini le persone. Bong non usa il lirico romanticismo per descrivere i bassifondi, non c’è retorica paternalista nei suoi “diseredati”, non c’è nemmeno una simpatia pelosa: il suo sguardo è duro, seppure mai cinico, e lucido, il gioco di guardie e ladri è una corsa dentro una realtà in cui non esiste emancipazione, in cui non può esistere sollievo se non temporaneo, dove le istituzioni sembrano pensate per sopprimere la realtà più che assicurare giustizia e verità. Nel corso di un’indagine sempre più complessa, che Bong usa anche per riflettere filosoficamente sull’impossibilità di conoscere a capire la verità, emerge l’inquieto e inquietante ritratto dei poliziotti, violenti, ottusi, incapaci di comprendere il mondo in cui vivono e al tempo stesso figli della stessa realtà che disprezzano: la guerra tra ricchi e poveri raccontata in Snowpiercer e Parasite in modo esplicito, ma tratteggiata anche altrove, in Memorie di un assassino assume le forme di un tormentato pantano in cui tutti sguazzano, in cui ognuno è ossequioso a chi crede superiore (il complesso di inferiorità verso la polizia Usa, che nell’ottica del cinema sud-coreano assume anche una dimensione meta-linguistica), ma tutti perdono perché chiusi in un sistema di pregiudizi che nega l’essenza rispetto alle apparenze. Il controllo formale di Bong, il suo talento filmico, è già evidente al secondo film: non c’è l’aerea perfezione di Parasite, il ritmo sinuoso e tambureggiante, ma il lavoro sui colori (fotografia di Kim Hyung-ku), su una palette ammuffita che stende su luoghi e immagini un velo di morte già avvenuta, è un grosso segnale di stile, come il magnifico finale che si apre al presente.

Bong Joon-ho

In qualche modo speculare e complementare appare Madre: anche qui c’è un omicidio, quello di una ragazza, e una caccia all’uomo fallimentare, al centro però ci sono le vittime, gli emarginati che provano a farsi strada da soli, contro il giogo istituzionale. Un ragazzo ritenuto colpevole, essendo il perfetto capro espiatorio in quanto sessualmente represso e poco intelligente, e la madre che cercherà di dargli giustizia cercando il vero colpevole: al contrario del film precedente, in Madre la verità appare ovunque, sembra braccare i personaggi, colpisce allo stomaco lo spettatore e i protagonisti della vicenda e dà forma a una storia ancora più tetra e grottesca, in cui quella verità è insopportabile e ingestibile, e svela ancora il dolore che nasce ai margini della “normalità”. La parola coreana Madeo (titolo originale del film) significa certo madre, ma suona anche come ‘omicidio’ e sembra echeggiare Medea e la tragedia greca: Madre è di fatto una tragedia di stampo classico, in cui il destino e le scelte sbagliate danno vita a un film ancora più ardito nel mescolare i toni, nello sfumare il thriller con il grottesco, il realismo con elementi folkloristici, dando al melodramma uno squarcio psicologico nel rapporto tra i due personaggi inusuale e sconcertante. Bong evita la morbosità, che resta sotterranea, con la stessa cura con cui aggira il conformismo drammaturgico e realizza un film che cresce sotto pelle, meno preciso forse dei suoi film maggiori, ma altrettanto originale, capace di crescere nelle profondità dello spettatore proprio per le aree oscure, anche visivamente, su cui getta il suo sguardo, che nonostante il successo e la voglia di parlare a un pubblico ampio, non è mai pacificato, mai conforme. È lo sguardo di chi ha scelto di raccontare e sfidare la disperazione sociale con le armi di quella “gioiosa macchina da guerra” chiamata cinema commerciale: una macchina che spesso si fa portavoce del potere costituito, ma che a volte, come la chitarra di Woody Guthrie, sa anche «uccidere i fascisti» o almeno dare voce agli ultimi della fila.




Photo credits
Copertina–Frame da Madre
Ritratto di Bong Joon-ho –
Marie Claire Korea, CC BY 3.0, via Wikimedia Commons

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