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Killers of the Flower Moon. Le immagini quando ci fa difetto la Storia



In uno dei tanti momenti chiave di Killers of the Flower Moon, Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio), ingenuo e disorientato reduce della Prima Guerra Mondiale, vuole imparare a leggere per trovare un lavoro migliore e ambire alla mano della ricchissima Mollie Kyle (Lily Gladstone). Così si mette a letto con un libro sulla storia Osage, popolo a cui la donna appartiene, e comincia a incespicare in quella foresta di parole. Nelle pagine che sta leggendo – e noi con lui – c’è un’immagine che cattura la sua attenzione. Rappresenta un branco di lupi nascosto nella prateria, pronto ad aggredire la preda. Poco più in basso una didascalia che recita: “Riesci a trovare i lupi in quest’immagine?”. Ecco, tutto Killers of the Flower Moon – e forse l’ultima parte di carriera di Martin Scorsese – si condensa in questo interrogativo: sai leggere queste immagini?

 Killers of the Flower Moon

Ne Il Nome della Rosa, Guglielmo da Baskerville, davanti alle orme di Brunello, il cavallo smarrito dell’abate, sostiene che «si usano segni e segni di segni quando ci fanno difetto le cose». Se il frate detective di Umberto Eco fosse un personaggio dell’universo scorsesiano, direbbe forse che si usano immagini e immagini di immagini quando ci fa difetto la Storia. Ancora, nella celebre notte di Varennes, le cronache vogliono che il fuggiasco Luigi XVI venga riconosciuto a una stazione di posta a causa di una moneta – per l’appunto, un Luigi d’oro – sulla quale è inciso il suo profilo. Un re tradito dalla propria immagine, si direbbe. Anche in Killers of the Flower Moon c’è un re, William Hale (Robert De Niro), che però non è veramente re, ma che gli abitanti di Fairfax, Oklahoma definiscono tale. Abitanti catapultati improvvisamente nella cerchia delle popolazioni più ricche del pianeta grazie al petrolio che sotto a quella terra scorre a fiumi. Oro nero che si trasforma in banconote verdi, che sono soltanto una vivida immagine della ricchezza a stelle e strisce. Un altro segno, si direbbe. Peccato che per quegli abitanti così facoltosi, che coincidono con la popolazione indigena Osage, confinata in una riserva e decimata da subdoli e sistematici omicidi orchestrati dallo stesso Hale per aggiudicarsi l’inestimabile patrimonio su cui è costruita la loro fortuna, quest’immagine di ricchezza sia fantasma di morte tanto quanto quei gufi che, secondo la tradizione Osage, fanno visita a chi è in procinto di spirare. Immagini che parlano ad altre immagini, che si trasformano, che agiscono, dentro e oltre il film. Sarebbe dunque naturale chiedersi che cosa sono queste immagini, cosa vogliono da noi, qual è il loro grado di esistenza. Fin qui, nessuna rivoluzione della forma cinematografica. Più corretto sarebbe parlare di reinvenzione, come sostenuto dallo stesso Scorsese in un articolo su Fellini e sulla potenza inarrivabile del suo cinema, in un’epoca, la nostra, in cui i grandi creatori di mondi sono sempre più rari. Un cinema che è al tempo stesso una macchina spettacolare e un dispositivo che interroga e mette in crisi il presente, che tenta di aprirlo a nuove forme di comprensione. Considerando Killers of the Flower Moon in una cornice più ampia che include le due opere che lo precedono, Silence e The Irishman, ci si rende meglio conto di come, negli ultimi anni, la sua poetica si sia evoluta verso una ridefinizione del rapporto tra storia, cinema e immagine. Una visione coerente con la sua crociata contro l’intrattenimento sterile dei franchise supereroistici, o contro tutto ciò che è effimero content. Quello che Scorsese sembra intenzionato a fare in questa fase della sua carriera – in completa controtendenza rispetto allo spirito del tempo, al profluvio di immagini abusate e svuotate di senso da social e media – è ridare dignità al cinema, restituendogli la capacità di incidere nel nostro immaginario, mettere in ordine il nostro mondo attraverso le sue immagini.

È attraverso queste premesse che la quaestio di Killers of the Flower Moon ricuce il legame tra spettatore e schermo. È una domanda che oltrepassa i confini narrativi e costringe lo spettatore a interrogarsi sulla natura di ciò che sta osservando, sul suo ruolo di testimone di un racconto che è anche Storia, grazie a una rinnovata fiducia nel mezzo cinematografico in quanto dispositivo per-formatore della realtà. Non è infatti per esigenze di trama, né per voyeurismo ostentato che Scorsese ci tiene a mettere in scena tutti gli omicidi ai danni degli Osage. La violenza è, inizialmente, solo narrazione. Parole dette e ridette, strumento debole e malleabile che ha bisogno di conferme, il cui statuto è vittima di continui cambi di prospettiva. Ma quegli omicidi continuano a ritornare, ossessivamente, a posteriori, sotto forma di immagini, di orrore tangibile perché visibile. E sì, anche le immagini sono oggetti fragili – ce lo ha riconfermato di recente l’intelligenza artificiale –, ma se il cinema resiste oggi, è soprattutto per fare i conti con questa fragilità e sottrarla all’abisso di un Infinite Jest che sembra inevitabilmente senza fondo.

Così, quando si arriva al mirabile finale wellesiano, con quel cabaret di rumoristi, insegne Lucky Strike e pubblico in platea, appare dunque chiaro che Killers of the Flower Moon è il miglior film sul cinema degli ultimi anni, sulla dissimulazione dei lupi che si nascondono in piena vista ma che possono essere ancora scoperti, se si hanno gli strumenti per riconoscerli. “Sei reale?” chiede un’allucinata Mollie a William Hale, seduto al suo capezzale: “Potrei esserlo”. Il condizionale si impone come tempo di questa perversa macchina dei desideri e noi, dissimulati a nostra volta, scopriamo che questo medium in perenne attesa di morire non è un tribunale, ma può ancora restituire giustizia; e anche che un western non può più essere un western, e che la leggenda non può più vincere sulla realtà.



Immagine copertina: Paramount Pictures/Getty Images/Ringer illustration

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