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James Lee Byars: lo zen, il medium e l’oro dei faraoni



 My name is Ozymandias, king of kings:
Look on my works, ye Mighty, and despair!”
Nothing beside remains. Round the decay
Of that colossal wreck, boundless and bare,
The lone and level sands stretch far away.

Percy Bysshe Shelley, Ozymandias, 1818


Nel passaggio più famoso della poesia Ozymandias del romantico Shelley si evoca con poderosa carica immaginifica tutta la grandezza e insieme l’impermanenza del regno di Ramsete II. Ma se dell’hubris del faraone rimangono solo macerie semi sepolte nella sabbia e nel tempo, dell’opera di James Lee Byars possiamo per ora ancora ammirare straordinari esempi, sia materiali che immateriali.
La nuova mostra che Pirelli Hangar Bicocca, in collaborazione con il Reina Sofia di Madrid, ha recentemente inaugurato a Milano offre un ottimo pretesto e occasione per avvicinarsi alla carriera di un artista che è stato anche tra gli ultimi a essere ammantato da un’aura eroica e per certi versi anche messianica. Sono circa ventiquattro i lavori che scandiscono il percorso di opere scelte da Vincente Todolì, curatore della mostra che insieme al suo team ha avuto il non facile compito di ‘contenere’ James Lee Byars all’interno dei vasti spazi industriali di Hangar, perché se è vero che molte opere dell’artista americano godono di proporzioni monumentali, altrettanti esempi della sua arte potrebbero essere racchiuse nel palmo di una mano, scritte su un chicco di riso, oppure altre ancora che chiedono d’essere custodite in luoghi già carichi di storia, o di una sacralità che tenteremo di definire.
In questi ventisei anni che ci dividono dalla morte di Byars, avvenuta appunto nel 1997 al Cairo, sono già state molte le monografiche dedicate all’artista e innumerevoli le occasioni di incontrare in collezioni e attraverso vari media i segni che Byars ha disseminato nel mondo trasversale delle arti visive, ma è possibile immaginare una mostra ‘perfetta’ su James Lee Byars? Evidentemente no.
C’è qualcosa che rende Byars uno degli artisti più enigmatici del suo tempo pur partendo dalla paradossale constatazione che tale mistero potrebbe essere tutta una maschera, una posa, l’abilità di un illusionista. Eppure, anche guardando con tutto il distacco e il disincanto alle presunte qualità metafisiche del suo lavoro, difficilmente si riesce a non essere sedotti dalle sue opere.

James Lee Byars, The Chair of Transformation, 1989 (part). Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2023 The Estate of James Lee Byars e Michael Werner Gallery, New York, Londra e Berlino. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto Agostino Osio

James Lee Byars è nato a Detroit il 10 aprile del 1932. All’età di quattro anni ricevette in dono dai suoi genitori uno smoking da indossare in occasioni speciali; parrebbe questo una mera spigolatura da aneddotica, eppure, quell’abito ha probabilmente ‘infuturato’ l’artista che Byars sarà. Dopo aver frequentato la Edgar Allan Poe Elementary School di Detroit, la sua formazione prosegue tra il 1948 e il 1956 tra studi di arte e filosofia alla Wayne State University e la Merrill Palmer School for Human Development sempre nella sua città natale, e nel 1955 si potrebbe dire che Byars fa il suo primo vero e proprio debutto artistico.
La prima mostra coincide anche con la sua tesi: per quell’occasione il giovane artista spogliò completamente la casa di famiglia da tutti i mobili e gli arredi, rimosse le porte e le finestre per esporvi al suo interno grandi pietre sferiche. L’evento era previsto per durare un solo giorno. Incredibile, con il senno di poi, quanto ci fosse già tutta lì, espressa in quel gesto, la sua poetica che poi, soprattutto fuori dagli Stati Uniti, il mondo dell’arte imparerà a riconoscere.
Tra il ‘56 e il ‘57 Byars è impegnato a Detroit nella realizzazione di opere scultoree site-specific per il giardino di un suo mecenate; prese poi in affitto un terreno agricolo innevato dove collocò alcune sue sculture astratte, invitando il pubblico a raggiungere il sito a bordo di slitte per ammirarle a mezzanotte con le opere illuminate soltanto dalla luna piena. C’era, anche in quel caso, il desiderio in Byars di lavorare non tanto sugli oggetti e sulla materia scultorea, quanto piuttosto sull’insieme di elementi materiali che preparano lo spettatore alla fruizione dell’immateriale. C’è da chiedersi se l’allora ventenne Byars sapesse, ad esempio, che le elaboratissime serie di elementi naturali e architettonici che portarono alla definizione della Villa Imperiale di Katsura a Kyoto muovevano dall’esigenza di creare una scena perfetta dove ammirare la bellezza della luna notturna.

James Lee Byars, Veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milan, 2023. Primo piano: The Rose Table of Perfect, 1989. Secondo piano: The Tomb of James Lee Byars, 1986. The Estate of James Lee Byars, Michael Werner Gallery, New York, Londra e Berlino, e IVAM, Institut Valencià d’Art Modern, Generalitat. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto Agostino Osio

È nel 1958 che Byars, grazie a una somma offertagli da un suo mecenate, compirà il suo primo viaggio verso il Sol Levante, stabilendosi proprio a Kyoto. Com’è noto, lì l’artista avrà modo di studiare tutte quelle forme espressive tipicamente giapponesi che, se da un lato influenzarono come poche altre cose il suo lavoro, dall’altro manifestano una serie di elementi e tendenze che erano già presenti a priori nell’immaginario dell’artista. Quella di Byars con il Giappone non è, come alcuni potrebbero pensare, un attraversamento episodico o una fascinazione per l’esotico; l’artista vi ha vissuto per la maggior parte del decennio, dal 1958 al 1967, immergendosi nel buddismo zen, nello shintoismo, nella ritualità del Cha no yu e nella calligrafia. Curiosamente, visto quello che sarà l’apporto alla mail art da parte di Byars, pochissime tracce epistolari scritte dall’artista rendiconteranno quelle esperienze. Ad oggi è grazie soprattutto al saggio dello storico Sakagami Shinobu, James Lee Byars: Days in Japan (‎2017, Floating World Editions) che possiamo misurare più propriamente l’intensità di quell’esperienza.
Nelle sue trasferte da una parte all’altra dell’oceano l’artista sembra ricercare quegli stessi principi di sintesi e quella concezione dello spazio che solo chi ha davvero introiettato la filosofia Zen può sentire: in uno dei suoi primi viaggi di ritorno a Detroit vede il lavoro di Mark Rothko alla Cranbrook Academy of Art e, profondamente impressionato dalla sintesi del pittore, andrà fino a New York in autostop pur d’incontrarlo.

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James Lee Byars e Joseph Beuys mentre installano la mostra Je – Nous = Ik – Wij, al Musée d’Ixelles, Brussels, 1975

Con il concludersi degli anni Cinquanta Byars aveva già ampiamente compreso l’importanza del confrontarsi con la natura dell’immateriale, giungendo, per una via completamente diversa rispetto a padri del concettuale come Sol Lewitt, alla comprensione del primato del concetto in arte, impiegando materiali effimeri come la carta, che proprio in Giappone imparò a utilizzare nella sua dimensione sia materiale che poetica. Nel 1960 presso l’Università di Kyoto realizza Thanks for All Thought? Una coreografia di cento studenti disposti in piedi in un cerchio mentre recitano altrettanti versi di Gertrude Stein. È un lavoro assai importante perché segna di fatto l’abbrivio a uno dei grandi filoni dell’arte di Byars, il tema delle domande: nel 1961 Ten Philosophical Sentences, or The Exhibition of What Do you know Mister alla Jisha University, sempre a Kyoto, manifesta nuovamente la natura interrogativa della sua ricerca e, nei continui spostamenti tra il Giappone e gli Stati Uniti, possiamo immaginarci l’artista quasi investito da una missione: quella di mettere in connessione due culture così distanti, che la sua generazione aveva visto scontrarsi con modalità che non conoscevano precedenti nella storia dell’uomo. Byars sapeva quanto utopici e fragili possano essere concetti come l’armonia e la perfezione, eppure tutto il suo lavoro è stato rivolto in quell’unica direzione: cercare i termini per formulare forme e domande perfette, conscio dell’impossibilità e insieme della necessità che questo sforzo implica.
A New York nel 1962 distribuisce migliaia di palloncini bianchi con minuscoli punti interrogativi. L’anno successivo organizza una mostra della durata di un solo giorno alla Green Gallery di New York: lo spazio è completamente dipinto di nero e illuminato da un’unica lampadina, cento scatole bianche realizzate da un artigiano cinese vengono recapitate presso la galleria da un bambino cinese completando così la mostra. Ancora a Kyoto, immagina per il tempio di Shokokuji l’opera 1000-Foot Chinese Paper (1963): un pezzo di carta bianca cinese della lunghezza di più di trecento metri piegato come una fisarmonica, l’opera viene aperta nello spazio da una donna vestita in abito cerimoniale descrivendo a terra la forma di ovale.

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James Lee Byars siede sul pavimento della sua installazione 100 In An Airplane, nella galleria del The Architectural League, New York, 17 settembre, 1968. Photo by Fred W. McDarrah/MUUS copyright Getty Images

Qui è bene soffermarsi un istante per mettere a fuoco un punto decisivo che riguarda il modo col  quale ancora oggi dovremmo guardare alle opere, ai frammenti, agli oggetti che di Byars si sono depositati in musei e in mostre come quella di Hangar: se da un lato i materiali di Byars testimoniano il percorso concettuale dell’artista, dall’altro la loro preziosità (intesa non tanto in termini economici ma, più in generale per il loro spessore simbolico) ribadisce la loro centralità nelle sue performance, spesso erroneamente lette come una rincorsa alla tendenza dominante all’interno delle ricerche dell’arte contemporanea degli anni Sessanta, quella della dematerializzazione dell’oggetto artistico. È vero invece che, se tutto in Byars è alimentato da una tensione verso l’immateriale, gli oggetti, i materiali e le cose custodiscono sempre un potere imminente, che testimonia nel tempo il rituale che in origine è stato compiuto.
In quel torno di anni che separeranno Byars dalla sua decisione di abbandonare il Giappone nel 1967, non potendo egli contare più su una posizione stabile di insegnante a Kyoto, l’artista realizzò senza soluzione di continuità performance e azioni tra l’America e il Sol Levante; 1000-Foot Chinese Paper viene riproposto al Carnegie Museum di Pittsburgh, questa volta il delicato oggetto di carta viene svolto da una suora cattolica. Sempre nella stessa sede A Mile-long Paper Walk verrà performato da Lucinda Childs, figura chiave della danza postmoderna. In queste e in altre opere la poetica di Byars sembrerebbe già estremamente codificata e rarefatta, mentre a ben vedere è proprio in quegli anni così intensi che si profila un’identità ben più eterogena, che rivela un interesse sempre più attivo nell’aspetto relazionale e comunicativo da parte dell’artista: è qualcosa che presenta similitudini con alcune delle modalità di Happening e di Fluxus, ma che Byars declina in uno specifico interesse attorno all’utilizzo dei medium e delle forme di comunicazione standardizzate.

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James Lee Byars, The Moon Books, 1989. Marmo dorato in sedici parti, legno dorato, 107 x 500 x 500 cm. Veduta dell’installazione, Musée d’Art Moderne de Paris Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Torino, 1989 © The Estate of James Lee Byars, courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra ©The Estate of Lothar Schnepf

Nel 1964 A New York realizzò una cartolina d’invito a una sua personale per l’11 novembre alla galleria di Leo Castelli: con grande fastidio del celebre gallerista gli inviti vengono spediti senza informare lo staff della galleria, che non aveva in programma una mostra dell’artista. Questo è solo uno dei vari episodi che tratteggiano una modalità di interazione a distanza che diventerà una vera e propria forma espressiva sotto la definizione di mail art. Di questa pratica, certamente non inventata da Byars e diventata a un certo punto piuttosto comune tra gli anni Sessanta e Settanta, l’artista americano farà un esercizio costante della sua arte; così come testimoniato nella generosa selezione di lettere e cartoline in mostra ad Hangar, che documentano il rapporto epistolare tra Byars e l’artista italiano Maurizio Nannucci col quale, a partire del 1972, si creò una profonda e costruttiva amicizia che vide coinvolto Byars in una serie di progetti nell’ormai mitica esperienza di Zona, lo spazio indipendente co-fondato da Nannucci a Firenze.
Il 1972, si potrebbe dire, è anche uno degli anni cruciali che meglio fisseranno fino alla fine della sua carriera l’immagine di Byars. Invitato da Harald Szeemann tra gli artisti che prenderanno parte all’ormai leggendaria quinta edizione di Documenta a Kassel, Byars ha ormai del tutto stabilito la sua ‘persona’ artistica: i completi monocromatici (bianco, nero, oro, rosso), i cappelli a tesa con la cupola sempre più alta, i grandi occhiali da sole se non addirittura la benda che sovente celava (almeno in apparenza) lo sguardo di Byars attribuendogli un ché di oracolare, si sono ormai costituiti in una maschera, celando il volto giovane e un po’ sbruffone del ragazzo di Detroit. Byars è ora una figura a metà tra un attore del e della Commedia dell’Arte. Issato da una gru sul cornicione neoclassico del timpano del Museo Fridericianum, appena sopra le grandi lettere dorate che accolgono i visitatori di Documenta, diventa una sorta di cariatide che offre le spalle al pubblico. In quella occasione l’artista dichiarò che lui soltanto era il visitatore perfetto della rivoluzionaria mostra del curatore svizzero, poiché da quella posizione non avrebbe dovuto visitarla ma semplicemente immaginarla. Del resto, l’altrettanto fondamentale mostra curata da Szeeman solo due anni prima a Berna, When Attitudes Become Form, comprendeva nel titolo originale, anzi era preceduta, dalle parole “Live in Your Head”.
Oltre a posare immobile a favore di obiettivo, nei giorni della mostra Byars con vari cambi d’abito salì sopra il tetto dell’edificio accanto alle statue che ne ornavano la balaustra e rivolgendosi alla piazza antistante mise in scena la performance Calling German Names (1972). Con un megafono Byars iniziò a scandire a ripetizioni i nomi tedeschi più comuni. Sia i visitatori di Documenta che i comuni passanti non informati potevano così essere richiamati da una voce che da lassù sembrava ammonirli o semplicemente riconoscerli tra la folla.

James Lee Byars sul timpano del Museum Fridericianum durante Documenta 5, Kassel. Copyright The J. Paul Getty Trust. The Getty Research Institute. Los Angeles

C’è in questa casualità celebrata con la sapiente sintesi di elementi rituali pseudo-spirituali, sacerdotali, qualcosa di sciamanico: del resto Byars si confrontava con una scena artistica che vedeva eroi come Joseph Beuys definire la propria immagine con elementi cristologici, e al cinema l’ascesa di figure come Alejandro Jodorowsky, le cui manifestazioni più teatrali possono persino a volte sovrapporsi perfettamente a quelle di Byars.
Lo stesso afflato mistico che caratterizza il lavoro del regista cileno sarà sempre presente anche in tutto il lavoro di Byars, imprimendo alla sua personale visitazione del concetto di medium una sintesi che fondeva tanto le teorie di McLuhan quanto le dottrine di Allan Kardec. Non è un caso se il concetto di seance permei largamente il lavoro dell’artista, che attraverso le più disparate modalità vuole mettere in contatto persone e cose nelle loro più varie manifestazioni: molte sono le tavole rotonde che Byars realizza con materiali destinati a durare (si osservi The Moon Books, 1988-89, in mostra) e le numerosissime sedute come le due esposte all’Hangar Hear TH FI TO IN PH Around This Chair And It Knocks You Down (1977) e The Chair of Transformation (1989). Oppure opere come The Hole for Speech (1974-81) che fungeva inizialmente come divisorio tra due dimensioni: da una parte l’artista-oracolo e dall’altra il pubblico che attraverso un piccolo foro confessavano a Byars la loro personale idea di perfezione. L’artista è un medium tra mondi e persone, le mette attorno a un tavolo, le invita alla comunione di un gesto condiviso: The Holy Ghost (1975) realizzata in Piazza San Marco a Venezia per la mostra Le Macchine Celibi, sempre curata dal guru Harald Szeemann, era una performance che consisteva in una gigante effige in seta dalla silhouette antropomorfa stilizzata, circa settecento persone parteciparono sollevando sopra la propria testa questo corpo spirituale lungo un centinaio di metri.

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James Lee Byars insieme a Herman Kahn durante la residenza dell’artista presso lo Hudson Institute, 1969. Photo: Hal Glicksman. Copyright 1971 by the Los Angeles County Museum of Art

Da ‘medium’ che evoca spiriti a medium nell’accezione massmediale. È bene ricordare che, oltre alle mostre europee fondamentali già citate, Byars fu coinvolto anche nella seminale Information curata da Kynaston McShine al MoMA nel 1970, dove l’artista si presentava in questi termini: «James Lee Byars is the Poet Laureate of the United States». Information è stata una delle mostre più radicali, militanti e politiche sul rapporto tra l’arte contemporanea e un presente già estremamente condizionato dai media. Prima ancora, Byars aveva partecipato al vasto e ambizioso progetto promosso dal Los Angeles County Museum of Art in collaborazione con alcune delle più importanti aziende e centri di ricerca in America, in quello che confluì poi nel 1971 nella pubblicazione A Report on the Art and Technology Program. Byars svolgerà il suo periodo di residenza allo Hudson Institute, un’organizzazione no-profit conservatrice fondata nel 1961 dal fisico americano Herman Kahn, celebre, tra le altre cose, per aver ispirato la figura che diede il titolo al film di Kubrick Dr. Strangelove (1964).
È in quell’improbabile contesto e rapporto, che le testimonianze non ci restituiscono come particolarmente fertile tra Byars e lo staff di Kahn, che tuttavia si sviluppa uno dei progetti più sorprendenti attorno all’interrogazione e al potenziale dei media: The World Question Center. La gestazione del progetto non fu affatto semplice, Byars voleva orchestrare una serie di questionari su scala nazionale dove erano gli intervistati a porre domande, ma l’artista dovette ridimensionare molto il suo progetto rilevando tra l’altro quanto poco volentieri le persone erano disponibili a formulare interrogativi. Durante il suo primo periodo di residenza a Hudson Byars contattò telefonicamente personalità come Alvin Weinberg, direttore della Commissione per l’energia atomica, che rispose a Byars semplicemente con: «Assiologia?» e Marshall McLuhan stesso, che rispose: «Cosa intendi per domande?». Byars in seguito visitò Princeton in tre diverse occasioni, dove incontrò il fisico Eugene Wigner (non esiste traccia della sua domanda) e il matematico astronomico Freeman Dyson, che consegnò a Byars le parole: «Stiamo ricevendo luce rossa dallo spazio». Byars non capì se si trattasse in effetti di una domanda o di un’affermazione.

L’artista portò successivamente le sue domande anche in altri ambienti scientifici come il CERN di Ginevra, ma è nel novembre 1969 che The World Question Center trova la sua più plateale rappresentazione durante la diretta trasmessa dalla TV belga. L’artista con indosso uno dei suoi completi monocromatici appare in quel filmato come una sorta di santone circondato dai suoi adepti: 50 studenti dell’Università di Bruxelles nel ruolo di operatori telefonici. Durante un’ora intera di diretta, Byars contattò persone in Europa e negli Stati Uniti (tra cui anche John Cage) che non erano state avvertite circa il loro ruolo attivo nel porre quesiti. Di quella straniante e unica esperienza di arte che coinvolge il medium della televisione rimangono ancora oggi i silenzi e il cortocircuito che l’artista innescò chiedendo agli intervistati di “chiedere”, attraverso un medium, quello televisivo, che oggi come allora è invece intrinsecamente assertivo.

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James Lee Byars durante la sua residenza presso il Cern di Ginevra Agosto 1972. Negativo fotografico, 338-8-72. Immagine scannerizzata dal negative della foto originale il 25 settembre 2014. © 2014-2016 CERN.

James Lee Byars ha continuato fino alla fine dei suoi giorni ad alimentare la sua arte di interrogativi, ma è attorno a quello più grande e definitivo che unisce tutti i viventi, che Byars si è più speso, senza tuttavia trovare una risposta. Per un artista che ancora ventenne citava a memoria il Sutra del Diamante e il Tao tê Ching e che, come il calligrafo e poeta cinese Mi Fu, si inchinava al cospetto delle rocce, la vita doveva apparire come un sogno, una visione, una bolla di sapone, perfetta e insieme fragilissima.
Verso la fine della sua vita le forme si cristallizzano in oggetti monumentali o microscopici e preziosissimi come quelli che ammiriamo oggi nelle teche che li custodiscono nelle varie collezioni. L’oro non è forse più quello dei paraventi giapponesi ma quello con cui i potenti faraoni si addobbavano e usavano per permeare i più intimi spazi delle loro tombe, come per scongiurare dalle loro esistenze l’ombra della mortalità.
Byars ha spesso affermato di non aver mai realizzato una sola cosa perfetta, ma ciò che contava era ovviamente il principio dal quale muoveva il fare stesso. Ha attraversato varie culture, da quella industriale americana a quella giapponese, è stato accolto da quella europea e infine ha visitato quella egizia, cercando di coglierne con uguale profondità tutta la loro bellezza e vanità, conscio appunto che ciascuna di queste strade non avrebbero condotto a risposte ma alla moltiplicazione degli interrogativi.

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James Lee Byars, World Question Center, 1969-1990, original black-and white photographs by Oscar van Alpen

Ci sono due opere che intelligentemente i curatori della mostra all’Hangar Bicocca hanno messo in dialogo fra loro; sono entrambe due sfere del diametro di un metro. La prima, intitolata The Tomb of James Lee Byars (1986), è una sfera scolpita nella pietra arenaria che sembra provenire già da un tempo antichissimo, come un manufatto egizio. Così l’artista immaginava la sua tomba, come una forma assoluta, archetipica, da consegnare all’eternità. L’altra, intitolata The Rose Table of Perfect (1989), è una sfera composta da 3333 rose rosse, destinate ad appassire, un lavoro per certi versi unico nella sua produzione anche se anticipato molti anni prima da un lavoro per così dire più ‘privato’ che insieme ad altre piccole opere fu custodito nella casa che Byars occupava a Kyoto. S’intitolava The Sacrifice of the Flower ed era costituito da un’unica rosa bianca condannata anch’essa all’impermanenza. Byars tentò di ricreare quella e le altre piccole opere nel suo ultimo viaggio in Giappone, nell’inverno tra il 1996 e il 1997. La primavera successiva, Byars morì al Cairo, dove è tutt’ora sepolto, anche se l’artista aveva espresso più volte il sogno di poter riposare per sempre a Venezia, nel cimitero sull’isola di San Michele.
La vera tomba di Byars presso l’American Cemetery al Cairo è ben diversa da come ce la si potrebbe aspettare: totalmente priva di poesia, giace dimenticata nell’incuria più totale. Il sepolcro di Byars non rimanda in alcun modo a segni che possano evocare anche solo timidamente la densità della sua visione: eppure, lontana dall’apparire questa come una considerazione amara sull’eredità materiale di Byars, è anche quella mancanza una possibile rappresentazione di colui che affermò: «I Cancel All My Works at Death», come un cerchio perfetto cancellato sulla superficie di sabbia di un giardino zen del quale rimane traccia solo nella memoria di chi lo ha tracciato, lasciandoci tutti noi soli, alla ricerca delle giuste domande da porre.


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