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Impressioni da Cannes ’23. The Zone of Interest & Indiana Jones



«Qui in prigione, siamo finalmente liberi dai telefoni», esclama il boss del carcere nel film argentino Los Delincuentes (in competizione per un Certain Regard), storia di due grigissimi impiegati di banca trasformatisi in delinquenti.
Come dare torto al boss. L’esterno è un mondo dominato dagli smartphone. E tutto è ancora più evidente al Festival di Cannes.

Fra video-makers, fotografi di professione, selfie-entusiasti, influencer agghindati e giornalisti, Cannes è un teatro di schermi luminescenti. Ma c’è anche un altro motivo di dipendenza ed è una banale questione pratica: accaparrarsi i biglietti hot. La corsa inizia con l’apertura della biglietteria online alle sette del mattino e continua fra una proiezione e l’altra. La speranza è che qualcuno cancelli. Quindi anche a letto, l’ultimo controllo. Una volta ottenuti i biglietti, però, arriva il dilemma: cosa scegliere? Le proiezioni simultanee sono quasi infinite. 
Ieri mi sono trovata a dovere decidere tra il cortometraggio western di Almodóvar, Strange Way of Life, (pochissime le proiezioni) e la prima di The Zone of Interest di Jonathan Glazer (Sexy Beast, Under The Skin). La scelta è caduta su quest’ultimo e non ho troppi rimpianti (insomma la questione del giardino del vicino sempre più verde funziona anche qua).

Glazer

Tratto molto liberamente dall’omonimo romanzo di Martin Amis, The Zone of Interest è un quadro tanto bucolico quanto… nazista. Glazer non si attiene alla trama originale ma di certo al sentimento del romanzo, affare non da poco. La “zona di interesse” del titolo è Kat Zet, come è chiamato il campo di concentramento di Amis. Nel film, invece, è Auschwitz. Ma non è un film su Auschwitz, come il romanzo non era su Kat Zet, ma sul comandante del campo, il diligente Höss, e la sua famiglia composta da moglie e cinque figli. Vivono sereni, a parte qualche piccolo incidente, presi dalla loro quotidianità in una villa adiacente al campo.

Glazer

Ed è questo il punto: la loro normalità a due passi dall’orrore. Uscita dalla proiezione, un bell’uomo molto dandy ha gridato all’amica “the banality of evil!”, la ragazza riccioluta di fianco ha sussurrato al collega “la banalidad del mal”, quindi ho letto una delle prime recensioni: riproponeva anch’essa l’Arendt de “la banalità del male”. È chiaro. Glazer ha reso i nazisti famigliari, creando un film che possiede una forte ambiguità morale. Per quasi due ore siamo placidi voyeur delle dinamiche di una famiglia di orribili nazisti. A essere audaci, possiamo anche averli trovati non troppo diversi da noi (amano più la natura e gli animali che i rispettivi consorti e l’umanità). Si va via con un retrogusto indubbiamente disturbante.

«Ci vuole un grande regista per corrompere il pubblico fino in fondo» scrive Tarantino in Cinema Speculation. E Glazer in qualche modo ci corrompe, anche se a metà. Non concede, infatti, mai un primo piano. Osserviamo i personaggi agire, chiacchierare, litigare, ma la telecamera – grazie a dio – non ci permette di empatizzare con loro integralmente. Altrimenti la perturbanza si sarebbe trasformata in disgusto. 
Per due ore seguiamo la famiglia nella villa e nell’ampissimo e curato giardino (pochissimi i fuori scena). La servitù si dedica alle faccende quotidiane, saremmo quasi in un quadro di Vermeer se non notassimo i loro capi piegati e non sapessimo dell’orrore che sanno e che è lì fuori. La moglie di Höss apparentemente fa di tutto per essere la perfetta moglie e madre. Ama i suoi fiori (li coltiva con passione e li conosce per nome) e il suo cane, sembra amare meno i suoi figli e suo marito (a un certo punto abbiamo una prova: è molto attaccata al suo agio). Höss è un padre amorevole, legge loro le favole, si preoccupa.
Tuttavia, inevitabilmente, l’orrore irrompe, sebbene in maniera sottile, indiretta. Si sprigiona in una frase in cui si ride degli ebrei sterminati, in un’altra in cui lei si rallegra di essere chiamata “la regina di Auschwitz”, o in lui che gongola, orgoglioso di avere progettato una potente camera a gas.

Glazer è anche abilissimo a introdurre l’orrore attraverso i suoni (un climax di voci, urla, schianti, spari, esplosioni che esploderà nella colonna sonora finale) e gli odori (i fumi dei forni crematori). «Se quello che stiamo facendo è buono, perché puzza così tanto?», si chiede un personaggio nel romanzo di Amis – possibile epigrafe del film. La colonna sonora è di Mica Levi, compositrice londinese, il sound design di Johnnie Burn. Standing ovation per entrambi. L’effetto mi ha ricordato gli scioccanti escamotage acustici del teatro della Societas Raffaello Sanzio.
Non per ultimo, la famigliarità con il mostro ci fa anche riflettere sul nostro stesso denial (insomma, non siamo anche noi stessi eticamente riprovevoli, continuiamo con il nostro tran tran, ossessionandoci per dei biglietti a Cannes? etc etc).

Tutti altri nazi (sono i nemici) in Indiana Jones e il quadrante del destino, fuori concorso con prima visione mondiale a Cannes. La regia non è più di Spielberg, ma di James Mangold (Girl, interrupted, Walk the line). Produzione spropositata (300 mila dollari), molti si chiedono se riuscirà a recuperare ai botteghini. Difficile prevederlo: è soprattutto un’operazione nostalgia e sappiamo quanto ai fedeli, ora nell’età adulta, non piacciano i cambiamenti. Indiana Jones da eroe diventa vecchio e acciaccato aiutante della figlioccia dedita e birichina (Phoebe Waller-Bridge). Harrison Ford ha ancora il suo ghigno spettacolare. Lo vediamo anche in una prima parte ringiovanito dall’IA (si segnala lo sguardo vitreo e le espressioni gommose, non siamo ancora alla totale replicazione dell’umano), come sempre c’è la magica fanfara di Williams, che rivitalizza gli animi ogni volta che parte. Ma oltre a questo, difficile capire gli intenti del film. Forse, data la leggenda, era semplicemente un film impossibile.

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