Non si può certo dire che ne siamo usciti o tanto meno che la pandemia abbia esaurito la sua diffusione, anzi è evidente a chiunque che se i vaccini non verranno diffusi anche nei paesi che al momento non ne hanno per vari motivi accesso tutto quello che abbiamo vissuto nella primavera del 2020 non potrà fare altro che ripetersi e forse anche con una virulenza maggiore, con buona pace dei negazionisti di ogni ordine e grado che imperversano nelle strade dei nostri ricchi paesi occidentali donando agli sventurati di turno insulti, violenze gratuite e stupide parole prive di senso e di logica.
Ma in ogni caso quello che non si ripeterà più è la sensazione unica di una prima volta collettiva e globale come è avvenuto nel lockdown del marzo del 2020. In quei mesi pur nelle differenze sociali ed economiche ognuno ha vissuto sentimenti simili, anzi sentimenti precisi. La solitudine come la morte, la fame come la sete, il giorno come la notte, l’amore come l’odio hanno avuto per alcuni mesi un solo tratto preciso, un solo senso preciso: era quella cosa lì e solo quella cosa, quella roba lì e nessun’altra. Non c’erano sfumature o possibilità altre, o dentro o fuori, o vivi o morti, ma senza che la gravità della situazione limitasse la gamma delle situazioni o dei sentimenti che anzi si intrecciavano in continuazione: noia e dolore, assenza e costrizione, voglia di cantare e voglia di dormire. Come raccontare quei giorni? E soprattutto a chi raccontarli visto che ognuno di noi li ha vissuti e, seppure per singole esperienze, vivendo allo stesso modo sostanzialmente le stesse cose.
Il punto di partenza è dunque un sentimento intimo e privato mosso da una spinta sincera e al tempo stesso timida. Il risultato è un vero e proprio diario della pandemia senza parole, ma fatto di soli disegni. Indoors di Nina Fuga, pubblicato dalle raffinate Edizioni Bruno di Venezia, è un piccolo e prezioso quaderno di appunti visivi, il tentativo di offrire una via di fuga alle emozioni e alle visioni recluse durante i mesi del lockdown. Il segno è delicato, a tratti scherzoso e ironico, ma non cela l’inquietudine. Nina Fuga avverte il peso di un tempo imprevisto e a tratti insensato per la presenza assenza di un male che si palesa al mondo comparendo sotto forma di un isolamento obbligato. Come se le vite di tutti avessero all’improvviso preso la forma di un senso più profondo, così ineludibile ed evidente da evidenziare la vacuità della frenesia precedente, l’assurdità di una rincorsa affannosa verso le piccole stupidità quotidiane tanto essenziali quanto inutili. Il segno di Fuga (un cognome che è un nome d’arte a priori, tanto più in questo contesto) allora sembra tentare di scomparire, un po’ come la “e” di Perec, il segno cerca di sciogliersi in un tutto che esaurisce e trasforma la linea in un oggetto preciso: scopa, bottiglia, pianta, letto, pene in erezione, balcone o chitarra. Non è possibile infatti distinguere gli oggetti dal segno stesso, tutto aderisce. I disegni come continue improvvisazioni di jazz standards vivono sulla pagina cadenzando i giorni e le occasioni (limitate) di vita: ogni disegno diviene così un autoritratto del mondo, lo spazio ristretto dentro al quale abbiamo vissuto al punto da trasformare i concetti in forme che dobbiamo ancora del tutto chiarire a noi stessi.
Nina Fuga, veneziana che da anni vive e lavora a Londra, sembra avere con Indoors perso i colori che caratterizzano spesso i suoi lavori, ma il risultato non è quello di un nero che inquieta e angoscia (o almeno non soltanto), ma quello della rivelazione quasi totale del senso della forma, della curva come del tratto che divengono alleati nel produrre imprevedibili oggetti di senso, piccole storie impreviste. Indoors ricorda così lo stupore del mondo in bianco e nero della quinta Cosmicomica di Italo Calvino, Senza colori: dove il mondo appare monotono e opaco eppure infinito. La differenza è che il colore in questo caso – in questa nostra storia comune che tutti abbiamo vissuto – è venuto prima e in un certo senso ci stava opprimendo e poi anche uccidendo. Nina Fuga ha così trovato una breccia nel bianco e nero, una salvezza possibile per ritrovare la luce. E subito viene in mente per affinità In questa luce di Daniele Del Giudice quando scrive:
«Oggetti di luce portano immagini già viste e pensate per noi, fabbricate per il nostro sguardo come una volta sarebbe stata fabbricata una sella pensando al cavaliere. Oggetti di luce sono già immaginazione, portano immaginazione (un martello, un aratro portavano soltanto la loro disponibilità a essere attrezzi) a diretto contatto con la nostra immaginazione, in un circuito ininterrotto.»
Nina Fuga, come scrive Silvia Jop nell’introduzione in apertura del libro, ci mette di fronte al paradosso delle nostre vite e ci restituisce la possibilità dello sguardo. Porta la luce davanti ai nostri occhi senza accecarci, ma offrendoci la possibilità di una ricostruzione. Non esiste un prima e un dopo nell’abbaglio, ma solo la possibilità di immaginare forme a noi meno ostili, un luogo e un tempo che ci possa appartenere. Indoors ha la consapevolezza e la seduzione della prima volta, l’unica vera arma contro una possibile e tediosa (oltre che drammatica) ripetizione. La prima volta è fatta infatti di superfici e di forme potenzialmente infinite dove la curiosità si associa alla cura e la bellezza al segno, e di questi elementi è fatto il lavoro di Nina Fuga.