Search
Close this search box.

Il rapporto contraddittorio tra immagine e film. The French Dispatch di Wes Anderson



Ogni tanto appaiono dei film che chiedono allo spettatore, volontariamente o meno, di interrogarsi su cosa sia un’immagine cinematografica, che senso abbia all’interno di un racconto audio-visivo e quindi in modo ancora più ampio ci domanda: che cos’è il cinema? The French Dispatch è uno di quei film non perché abbia un impianto teorico evidente, come il cinema d’avanguardia o ricerca, ma perché il suo regista, Wes Anderson, porta la sua ricerca sull’immagine e il dettaglio al massimo grado di radicalità finora raggiunto dalle sue opere.

Il film racconta alcune avventure vissute dai giornalisti della sede francese di un giornale americano il cui direttore (Bill Murray) alla morte chiede di cessarne le pubblicazioni con un ultimo numero in cui ripercorrere i migliori articoli mai pubblicati. Così il film diventa una raccolta di episodi, tre per la precisione, più la cornice e il necrologio finale. In questi racconti, scritti da Anderson con Roman Coppola, Hugo Guinness e Jason Schwartzman, si mescolano le ossessioni e i gusti del regista: una storia d’amore e arte in un penitenziario, il racconto di una rivolta studentesca venato di romanticismo, un’avventura poliziesca. Le vere ossessioni di Anderson però si vedono nel suo lavoro sul quadro, sulla messinscena, sull’estetica.

Con il contributo di un’eccezionale squadra di artisti e tecnici (Robert Yeoman alla fotografia, Adam Stockhausen alle scene, Milena Canonero ai costumi) Anderson porta alle estreme conseguenze il suo studio sulla simmetria e sugli elementi formali e plastici dell’immagine continuando a gettare ponti tra le inquadrature del cinema muto e il design e la pop-art contemporanei e il lavoro diventa così estremo da sembrare un paradosso, arrivando quasi a negare il valore che fino a oggi abbiamo dato all’immagine nel film, al suo posto in un racconto filmico: perché The French Dispatch e il suo autore non sembrano credere all’immagine in movimento che da sempre è un pilastro dell’arte cinematografica, tanto da farne in America un sinonimo di cinema – moving picture, da cui movie –, quanto piuttosto al movimento nell’immagine, a ciò che brulica dentro i suoi quadri viventi, alle geometrie che si ridefiniscono continuamente in base a personaggi ed eventi.

The French Dispatch

Ciò che c’è dentro una singola inquadratura di The French Dispatch è il risultato di un lavoro di elaborazione artistica che ha più a che fare con le arti grafiche, con il design o il mosaico, il collage o la pittura che con il cinema, facendo di Anderson la versione iper-pop di Peter Greenaway o Lech Majesvski: dentro ogni immagine vi è uno studio preciso e maniacale che può risultare asfissiante, come hanno fatto notare molti critici fin dalla sua presentazione al festival di Cannes, ma che al contempo non esprime solo la personale visione del cinema del suo autore, ma anche il suo sguardo sul mondo. Il film di Anderson racconta il mondo del giornalismo d’epoca, quel periodo d’oro che molto cinema Usa ha esaltato e usato per i propri fini spettacolari – da La signora del venerdì di Hawks e Prima pagina di Wilder fino a Tutti gli uomini del presidente di Pakula e The Post di Spielberg – e che qui il regista rilegge in modo ambiguo e contraddittorio e per questo intellettualmente fertilissimo: se il giornalismo è da sempre l’avanguardia dello storytelling, il terreno in cui sperimentare i diretti effetti del racconto sul lettore, il senso politico di ogni narrazione molto più che nella letteratura (se pensate che il concetto di fake news nasca con i social consigliamo di guardare Quarto potere di Welles o leggere Illusioni perdute di Balzac), The French Dispatch si nasconde sotto le apparenze di inno al giornalismo e omaggio all’arte narrativa di chi scrive sui quotidiani per smontare sistematicamente i modi dominanti di intendere oggi il racconto, tanto cinematografico quanto giornalistico.

Il cosiddetto découpage, ossia il sistema di montaggio e costruzione del racconto su cui il cinema ha costruito il suo dominio popolare negli ultimi cento anni, è sostituito quasi per intero dalle inquadrature fisse e dai movimenti geometrici che scorrono l’immagine come fosse un’unità visiva, un fumetto (altra passione di Anderson) o una sequenza di arte grafica, prima che un’unità narrativa, il modo di raccontare avviene nella maggior parte dei casi grazie al flusso inarrestabile delle parole dei giornalisti che hanno scritto l’articolo prima che con le immagini e le sequenze, come in un film “tradizionale”. Al tempo stesso però le immagini e le inquadrature tessute certosinamente da Anderson non sono mera decorazione, anzi servono in qualche modo a contraddire le parole, o perlomeno il loro valore, spezzano il dominio del giornalista per restituirlo al metteur en scène, e uso la definizione francese di regista per sottolineare l’amore del cineasta per il cinema d’Oltralpe, a partire da una delle primissime sequenze in cui il percorso di un fattorino cita alla lettera Mio zio di Tati. I toni e i colori, i formati e le cornici di ogni inquadratura fanno trapelare l’emotività celata dietro un’estetica apparentemente raffreddata, la cura della forma sembra astrarsi da ciò che vuole raccontare e invece gli dà la forza dello stupore, quello che si chiede a uno spettatore che assista per la prima volta a uno spettacolo cinematografico, portato a chiedersi cosa può fare il cinema, quali siano le sue possibilità.

Allo stesso modo in cui il racconto si accende di brucianti emozioni e passioni, seppure rappresentate con il formalismo più evidente, l’immagine bidimensionale e frontale del passato assume profondità impreviste, il gioco a imitare gli stili (il melodramma, l’avventura poliziesca, la commedia romantica) si spoglia all’improvviso dell’ironia e diventa vero romanticismo, vero dolore, vero divertimento ed eccitazione infantile. The French Dispatch nega la drammaturgia canonica e i modi di comunicare dominanti, sia con la parola e la voce sia con l’immagine, per riscriverle, farne un uso proprio, in cui il continuo scontro tra i livelli dello sguardo e dell’udito crea un altro modo di raccontare, che prende anche i cascami del nostalgismo a cui siamo sempre più abituati e dà loro nuova vita. Non è facile accettare certe regole, possiamo capirlo, e di conseguenza non è semplice giocare al gioco di Anderson sempre più complesso film dopo film, alla sua sterilità di facciata che nasconde tutta la sua ricchezza artistica: ma una volta che ci si abbandona al gusto di quel gioco, alla sua intenzione primaria e più profonda, si rischia l’assuefazione.





Copertina: Wally Wolodarsky, Bill Murray e Owen Wilson in THE FRENCH DISPATCH. Searchlight Pictures. © 2020 Twentieth Century Fox Film Corporation

categorie
menu