Pochi registi hanno raccontato le contraddizioni e le difficoltà della Polonia degli anni Settanta e Ottanta con la precisione e la profondità emotiva del “cinema del conflitto” di Kieślowski. Eppure, quando si parla di Kieślowski, la trascendenza delle pellicole più note, dal Decalogo alla Trilogia dei colori, finisce sempre per oscurare non solo l’immanenza politica e sociale degli esordi, ma anche l’importanza che le prime opere ricoprono in Polonia, sia nell’arena cinematografica che nella definizione di un’identità artistica nazionale in un periodo tumultuoso. Lungi dal disconoscere alcuni elementi stilistici a favore di altri, riscoprire i lungometraggi iniziali del regista ed evidenziare la continuità con le opere successive può intavolare non soltanto una riflessione sulle possibilità artistiche del cinema politico e sulle diverse sfaccettature del cinema del dissenso, ma anche un avvicinamento ragionato al percorso di un autore che ha costruito la metafisica che l’ha reso celebre proprio su un terreno politico particolarmente dissestato.
Nato il 27 giugno 1941 nella Varsavia occupata e cresciuto sotto la Repubblica Popolare di Polonia, Kieślowski fu testimone dell’influenza dello stalinismo sul proprio Paese e sperimentò in prima persona eventi storici come la rivolta operaia di Poznań del 1956, repressa nel sangue, e l’ottobre polacco, che vide l’allentarsi della morsa sovietica con la transizione al governo Gomułka. Fu in questo clima di relative indipendenza e stabilità economica che Kieślowski si formò, laureandosi nel 1969 alla prestigiosa Scuola di Cinema di Łódź, fucina di registi del calibro di Polański e Zanussi, e frequentando i circoli universitari clandestini, dove era possibile seguire lezioni libere dalla censura in appartamenti privati. Fu proprio in seguito all’ottobre polacco del ’56 che venne a costituirsi, all’interno della Scuola di Cinema, una corrente di registi che cercò di seguire i principi del neorealismo italiano staccandosi dal realismo socialista: nomi come Munk, Wajda, Has e Kawalerowicz contribuirono alla formazione di due tendenze ben precise quanto a scelte di regia, e che pur costituendosi come opposte marcano una consapevolezza stilistica e filosofica in costante dialogo con se stessa. Da un lato troviamo infatti una tendenza romantica e idealista, rappresentata da Wajda, mentre dall’altro il cinema di Munk tentava un approccio più intellettuale e a tratti cinico. Kieślowski stesso, in un’intervista a Paul Coates per la sua monografia Lucid Dreams, si accostò alla seconda corrente, pur riconoscendo una vena romantica.
Il periodo di prosperità economica non durò a lungo: all’inizio degli anni Settanta l’inflazione aumentò, e con essa le proteste e la violenza. A poco valsero gli sforzi di Gierek, successore di Gomułka, di salvare la situazione con gli aiuti dall’Occidente. È in questi anni di crisi e sommovimenti sindacali che Kieślowski gira La cicatrice (1976), Il cineamatore (1979), Destino cieco (1981) e Senza fine (1985): tutte opere che gettano le basi per la poetica successiva del regista e che documentano la realtà, la complessità e le contraddizioni della Polonia del tempo. Come osservato da Joseph Kickasola in The Liminal Image, Kieślowski «denuncia le debolezze di un regime totalitario, e il pubblico diventa sempre più esperto nel cercare e riconoscere le critiche politiche (che, nelle parole di Agnieszka Holland, viene a creare una forma di complicità tra regista e pubblico)». Si venne quindi a costituire il Kino moralnego niepokoju, il “Cinema della preoccupazione morale”, dove il termine niepokój indica «un’angoscia generalizzata, un’inquietudine per la perdita delle fondamenta culturali, morali e filosofiche della Polonia» – una preoccupazione che sorge non da un punto di vista etico o religioso, ma dalla necessità di una visione unificante che il totalitarismo aveva ormai soffocato.
È proprio in questo senso di instabilità che si innesta il dramma de La cicatrice, primo lungometraggio di Kieślowski: ambientato nella cittadina di Olecko, dove si andrà a costruire una grossa fabbrica di fertilizzanti in seguito a negoziazioni col Partito Comunista tutt’altro che trasparenti, il film segue le vicende di Stefan Bednarz, membro del Partito di etica solida e sensibilità spiccata, che cercherà di mediare tra gli interessi dei cittadini, dei politici e degli operai fronteggiando al tempo stesso il proprio passato. Sebbene lo stesso Kieślowski non abbia mai nascosto la propria insoddisfazione per il film (“realismo socialista à-rebours”, nelle sue parole), dovuta alla preponderanza di elementi tipici del cinema del realismo socialista (in questo caso le riprese nelle fabbriche, le riunioni e l’attenzione alla scena politica a scapito dell’interiorità umana), è innegabile che l’approccio del regista, che nella fase iniziale della sua produzione ha un taglio molto più documentaristico che narrativo, getti luce sulle specificità della Polonia di Gomułka.
Unendo elementi dell’attualità a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, dallo sviluppo industriale della prima decade ai tumulti sindacali della seconda, La cicatrice mette in scena le problematiche delle trasformazioni sociali portati dall’industrializzazione delle campagne, dalla corruzione del partito e dal confronto con l’Occidente. Non è un caso che Bednarz, come molti degli eroi della preoccupazione morale, si trovi scisso non solo tra il personale e il politico, ma anche tra le due fazioni del politico stesso, e che si ritrovi ad affrontare le conseguenze deleterie di azioni compiute nel nome del bene. Nella sua analisi del film, Ewa Mazierska si sofferma sulle resistenze dell’uklady, l’ordine sociale preesistente, reso metaforicamente dalla frequenza di inquadrature di masse e di scene collettive, che portano l’eroe a ritirarsi nella sfera domestica una volta sconfitto nell’arena pubblica. Mettendo a confronto La cicatrice con L’uomo di marmo di Wajda, entrambi film dove l’eroe (o, nel caso di Wajda, l’eroina) lotta da solo contro un sistema inoppugnabile, Mazierska presenta con efficacia le differenze tra i protagonisti di Wajda, che con ostinazione riescono a far valere le proprie ragioni; e quelli sconfitti, disillusi e introversi che diverranno poi parte integrante della poetica di Kieślowski.
Tre anni più tardi uscì Il cineamatore, che attraverso l’occhio e la lente del protagonista Filip offre una riflessione meta-cinematografica su realtà, sguardo e raffigurazione. Il percorso di Filip dietro la macchina da presa sembra riecheggiare la narrazione tipica dei Bildungsroman, ma se gli eroi dei romanzi di formazione si evolvono nell’interazione sociale e nel contatto con la realtà esterna, il cineamatore eponimo si isola sempre più dai legami che lo costituivano come individuo, buttandosi a capofitto in un’ossessione che devierà il suo sguardo dall’interno (ossia la vita familiare) all’esterno (l’azienda, la censura e i circoli amatoriali), portandolo alla spasmodica ricerca di una propria visione del mondo. Il percorso del protagonista è stato spesso accomunato a quello di Kieślowski, almeno dal punto di vista tecnico: basti pensare ai documentari sui lavoratori, sulla condizione delle fabbriche e sulla gente comune (come i corti documentari iniziali Fabryka o Murarz), al progressivo interesse verso protagonisti complessi (Dal punto di vista di un portiere notturno) e all’inserimento di esperienze personali dei soggetti ripresi. Ma, al di là delle similitudini, studiose come Dina Iordanova hanno cercato di porre l’accento sul contesto sociale e artistico da cui il film si muove, evidenziando le peculiarità diegetiche ed extradiegetiche del discorso sul cinema.
Si può infatti fare un discorso più ampio sulla cultura del cinema nella Polonia socialista. Iordanova elenca le varie istituzioni che compongono la cornice della vicenda: abbiamo il circuito delle produzioni ufficiali, dove il cameo di Zanussi rappresenta non solo il mondo della cinematografia, quasi irraggiungibile per un semplice impiegato come Filip, ma anche l’etichetta dell’intelligencija e dei suoi legami più o meno autentici con la classe operaia. Troviamo poi nei panni di uno dei giurati di un festival Andrzej Jurga, seconda figura di riferimento per Filip e colonna portante della Scuola di Cinema di Łódź, che attraverso i contatti con i cineamatori working class si adopera per trovare delle scappatoie alla censura e costruire un ponte tra intellettuali e operai. I rapporti tra intelligencija e classe operaia, come osservato da Iordanova, sono parte integrante della cultura della RPP prima dell’istituzione della legge marziale, avvenuta nel 1981, e il ruolo di intermediario che Filip ricopre nel corso del film evidenzia proprio questa tensione, che tre anni dopo sarà al centro del documentario di Jacek Petrycki, direttore della fotografia de Il cineamatore, Robotnicy ‘80. C’è poi il tema della censura e della complessa rete di controllo e sorveglianza sui prodotti artistici, incarnati dal padrone della fabbrica, rappresentato tuttavia in tutte le sue sfaccettature, dal discorso sulla liceità delle riprese alle difficoltà di amministrazione dei mezzi limitati di cui dispone.
Per quanto si possa dare una lettura sociologica al film, però, non si può glissare sulla questione dell’autorialità. Uno dei temi che domina il film è l’etica dello sguardo tra autenticità documentaria ed exploitation, dalle riprese sul corpo della figlia neonata a quelle che ritraggono la disabilità, fino a una riflessione sul mostrare o meno la corruzione, la condizione operaia o gli aspetti più crudi della vita in fabbrica. Nelle parole di Kickasola, «Filip si interroga attentamente mentre abbassa la camera. Si misurerà per tutto il film con la ricerca della forma documentaria più appropriata. […] Scopre che l’assiologia del cinema è complicata quanto l’etica dell’esistenza, e che in gioco ci possono essere gli stessi valori». Si può interpretare la scelta di Filip-Kieślowski di inquadrare corpi non conformi come una necessità di far risaltare l’individuo, specialmente se un outsider, in un ambiente che gli è ostile, e se anche questa decisione gli attira le critiche del suo superiore, sarà proprio la sensibilità del suo sguardo a valergli l’approvazione e il rispetto del mondo del cinema (nel film come nella realtà, se prendiamo in considerazione i premi che Il cineamatore si aggiudicò a vari festival internazionali). E nella riflessione amara del finale, in cui Filip brucia la pellicola esponendola al sole e punta la camera verso di sé, Kieślowski si confronta con l’industria cinematografica polacca del tempo attraverso gli occhi del suo eroe: «Lui distrugge quello che ha creato. Ma non si arrende […]. Semplicemente, capisce che come cineamatore si è ritrovato in trappola, e che anche i film girati con le migliori intenzioni possono tornare utili a chi invece ha cattive intenzioni» (Danusia Stok, Kieślowski on Kieślowski).
Fu poi la volta di Destino cieco, il cui titolo originale, Przypadek, significa letteralmente “caso”. Ed è proprio da un incidente casuale, in questo caso un wypadek, lo scontro del protagonista Witek con uno sconosciuto ubriaco in una stazione, che si dipartono tre vicende differenti, tre esplorazioni di possibilità sull’importanza delle coincidenze minime, il cui pretesto è semplicissimo: prendere o non prendere un treno. Ci si potrebbe concentrare sull’analisi di ciascuno di questi Witek possibili, il primo Witek e il suo percorso politico nel Partito dopo l’incontro con il suo primo amore Czuszka e il vecchio militante Werner; il secondo Witek e il suo percorso metafisico-spirituale sullo sfondo della resistenza anticomunista; o il terzo, quello “reale”, che rifiuta fede e Partito per rispondere solo di se stesso salvo incorrere nella più accidentale delle tragedie; ma le implicazioni sociali delle tipologie umane presentate sono altrettanto interessanti.
Destino cieco prosegue la meditazione di Kieślowski sulla conciliazione tra pragmatismo e ideali iniziata ne Il cineamatore, dove persino la presenza di figure di spicco del settore cinematografico ha una funzione meta-narrativa (si pensi al già menzionato Zanussi e al film proiettato nel film, Colori mimetici, che tratta proprio il tema della dissidenza e della libertà di opinione), ma il punto di vista del regista sembra virare sempre più verso il pessimismo. Girato appena prima della legge marziale, in un periodo di relativa libertà artistica nata dai primi risultati di Solidarność, e censurato fino al 1987, il film affronta la disperazione del tentativo di mantenere una posizione etica nel mondo, ancor più nelle condizioni opprimenti in cui la Polonia versava. Sono molti i momenti in cui, nel corso delle tre storie, Witek e lo spettatore vengono messi di fronte a vari dilemmi etici e filosofici, dalle divagazioni sulla trascendenza alla contemplazione del caso. La questione del determinismo è centrale, e nell’analizzare il film Kickasola si sofferma proprio sulla contemplazione – sugli effetti, più che sulle azioni – e sul problema dell’azione individuale sullo sfondo della memoria collettiva.
«Insieme a Senza fine», nota il critico, «questa è l’opera più cupa di Kieślowski, e non è una coincidenza che entrambi i film si aprano a delle riflessioni quasi fantasmatiche sulla memoria, letta come un mezzo per interpretare un presente tragico e tumultuoso. L’identità, sia essa individuale o di un’intera nazione, è una delle prime fondamenta che si trovano in pericolo nei periodi di grande transizione, e l’efficacia della storia (e, per estensione, della memoria) rimane l’unica speranza di guarigione o conforto. Il grande paradosso sta nel fatto che nei periodi di transizione, le circostanze esistenziali e immanenti mettono in discussione quella stessa efficacia: non puoi sapere, come nazione né come individuo, chi sarai una volta attraversato queste difficoltà. A mio parere, Destino cieco affronta il tema della crisi d’identità con la stessa profondità degli altri argomenti trattati, aprendosi alle suggestioni dell’essenza umana e utilizzandola dialetticamente contro poteri più grandi del singolo» (Kickasola, The Liminal Image, p.129).
È con Senza fine, film del 1985 e ultimo prima della consacrazione internazionale definitiva avvenuta con Dekalog e La doppia vita di Veronica, che si chiude questa retrospettiva. Il film si apre con la morte dell’avvocato Antek Zyro, noto per il suo impegno nella difesa degli operai in rivolta, dei prigionieri politici e dei manifestanti di Solidarność, che rimane sulla Terra sotto forma di spirito per vegliare sui suoi familiari e sulle sorti di una Polonia in balia dei disordini della legge marziale. La narrazione si dipana tra la vita di Ula, la vedova, che cerca di elaborare il lutto, e l’azione politica di una piccola rete di militanti di Solidarność connessi a Darek, uno degli ultimi assistiti di Antek. Se già in Destino cieco Kieślowski aveva gettato le basi per le divagazioni metafisiche che hanno costituito il perno della sua sensibilità autoriale, in Senza fine il regista sceglie di avventurarsi nell’impercettibile e nell’indeterminato, servendosi di tecniche innovative (come le composizioni quasi astratte, il montaggio sonoro e l’utilizzo metaforico dei colori) per rendere giustizia all’intraducibilità del dolore con l’esperienza sensoriale del cinema – non a caso, sono gli stessi elementi che ricorreranno in Film blu. Fotografie, ritagli e frammenti tangibili di ricordi diventano «la prova dell’esistenza di una realtà che non c’è più; le persone sono ridotte alla somma delle loro rappresentazioni nei ricordi soggettivi degli altri. È questa la grande equazione semiotica che rende il lutto così difficile, ed è precisamente questo il motivo per cui Kieślowski, il cartografo del senso, si concentra su questi elementi» (Joseph G. Kickasola, The Liminal Image, p.153).
Data la complessità del momento storico, di una Polonia scossa da tumulti e agitazioni di ogni tipo, va da sé che il pessimismo di Kieślowski non si limitasse ai soli destini individuali, per quanto il focus della narrazione fosse sulla soggettività dei protagonisti. Con l’introduzione della legge marziale e la repressione delle proteste, le autorità comuniste avevano proibito la proiezione e la diffusione di numerosi film (tra cui Destino cieco), e il mercato della pirateria, come osservato da Marek Haltof, contribuiva alla promozione di un cinema commerciale che escludeva sia i temi politici che gli approcci autoriali. E Senza fine, per quanto originale nella sua esecuzione, includeva entrambi. L’intento iniziale era di girare un documentario sui processi politici tenutisi dopo l’81, ma con l’aiuto dello sceneggiatore e avvocato Krzysztof Piesiewicz, che collaborerà con il regista per il resto della sua carriera, Kieślowski riuscì a filmare alcune udienze, imparando a notare sotto la guida di Piesiewicz i meccanismi di corruzione che soggiaciono al sistema giudiziario. L’intero film è permeato dalla disillusione di Kieślowski, che optò a malincuore per il cinema narrativo, convinto che la potenza politica della forma-documentario fosse ormai tramontata.
Non è infatti difficile riconoscere questo pessimismo nei suoi personaggi, nel protagonista in primis. È curioso notare anche come la scelta di casting rifletta questo cambiamento di paradigma politico: Jerzy Radziwiłowicz, che interpreta Antek, era celebre per i suoi ruoli di eroe nazionale e attivista politico nei film di Wajda, come il già citato L’uomo di marmo e il suo “seguito”, L’uomo di ferro. Ma se anche pellicole come Senza anestesia (sempre di Wajda), dove l’eroe è più un osservatore che un uomo d’azione, costituiscono quasi un ponte tra i due autori, la figura di Radziwiłowicz nel contesto di Senza fine gioca proprio sulle aspettative del pubblico, che, avvezzo alla rettitudine morale dei personaggi interpretati dall’attore in cui poteva identificarsi, si ritrova qui a osservare la propria impotenza di fronte alla legge marziale e alla repressione delle proteste. Particolarmente importante per la lettura politica è la figura dell’avvocato Labrador, che si interroga più volte nel corso del film sulla condotta ottimale da seguire, sia da un punto di vista etico che politico, sia come individuo che come società. Ma lo spettro di Antek, scisso tra i gramsciani pessimismo della ragione e ottimismo della volontà, si chiede se valga la pena giocare con la sorte, con quello stesso caso (przypadek) che dominava il film precedente. Kieślowski trovò particolarmente interessante mettere in scena «un protagonista con la coscienza pulita, che tuttavia non riesce a fare nulla nella Polonia del 1984». È con la morte di Antek che il messaggio del film passa con più forza, perché «la morte è esattamente il limite dell’incapacità umana di agire». E proprio come l’ombra del protagonista, la cui morte improvvisa riecheggia la soppressione di Solidarność, lo spettatore si ritrova a confrontarsi con il fantasma non sopito degli ideali di resistenza, ancora vivi nella Polonia del tempo.
Cos’è che è Senza fine, allora? Haltof propende per la fedeltà, sia essa all’amore, come per la vicenda intima di Urszula e Antek, o all’ideale politico; ma non esclude una lettura più nichilista, che vede nella miseria politica ed economica della Polonia una condizione di cui non è possibile liberarsi. La reazione al film fu particolarmente ostile: Kieślowski venne attaccato dalla Chiesa cattolica non solo per lo sconforto che permea l’opera, ma anche e soprattutto per le scene di sesso extraconiugale, di suicidio e di negligenza genitoriale; e dalle autorità comuniste per aver criticato la legge marziale. Fu difficile anche per gli attivisti di Solidarność identificarsi con la disperazione sullo schermo. Kieślowski fu tacciato di essere, come lo spettro di Antek, un mero osservatore della realtà politica, che non faceva nulla per cercare di cambiare la sofferenza che lamentava. A dispetto del fallimento apparente, però, Senza fine sancisce l’inizio del Kieślowski metafisico, e inaugura il lungo sodalizio artistico con il già citato sceneggiatore Piesiewicz e il compositore Zbigniew Preisner, che collaboreranno con lui per tutta la sua carriera successiva.
Ed è infatti ripensando a Senza fine che Kieślowski vede le prime gemme dell’opera futura: «La questione più importante per me era quella metafisica. Ma purtroppo non credo abbia funzionato. Eppure, se a qualcuno interessa raccontare una storia esprimendo una certa idea politica o sociale – in questo caso, che ci sentiamo tutti smarriti e abbassiamo tutti la testa – allora quell’aspetto del film è altrettanto importante. Così anche questa si è rivelata in qualche modo una trappola. Ogni film lo è, in un certo senso. Vuoi dire qualcosa e al tempo stesso vuoi fare qualcosa di diverso». Guardando al proprio percorso artistico, il regista vede una continuità nell’approccio a questi primi lungometraggi, dove la tensione dialettica tra metafisica e immanenza politica è al centro della scena, e i lavori successivi, Decalogo in primis, in cui la ricerca interiore viene sviluppata con maggiore precisione: «Sto cercando di evitare [questi problemi], così che all’interno del film ci sia una sola pulsione. Decalogo si è rivelato un ottimo esercizio. I film erano brevi, quindi la pulsione era presente a chiare lettere, definita, ben marcata».
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Foto tratta da Film Lovers