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“Il castello errante di Mirai”, quando Hosoda bistrattò Miyazaki con Doremi



Con la recente vincita del premio Oscar al miglior film d’animazione attribuito a Il ragazzo e l’airone, il leggendario Miyazaki è tornato alla ribalta. A fronte di una carriera ultra-sessantennale costellata di successi che hanno cambiato l’immaginario di molti, il maestro non ha mai smesso fondamentalmente di far parlare di sé. È, dunque, il momento di rivangare un aneddoto che riguarda uno dei suoi film più celebri: Il Castello errante di Howl. Prima che ne prendesse le redini Miyazaki, la pellicola avrebbe dovuto avere per regista Hosoda Mamoru che, sebbene avesse lavorato intensamente al progetto, arrivando a completare l’intero storyboard, sarebbe stato estromesso dallo stesso veterano dello Studio Ghibli a causa di divergenze creative. Per Hosoda, venir rispedito in Toei a lavorare su serie animate commerciali fu un duro colpo. A maggior ragione, se si considera che avrebbe lasciato incompiuto un film ambizioso nel quale aveva riversato tante idee e altrettante energie e che avrebbe rappresentato per lui un fondamentale passaggio professionale. Fortunatamente, la storia non termina qui. A chi si chiede come sarebbe stata la versione di Howl di Hosoda, la risposta è in un episodio dell’ultima stagione di Ojamajo Doremi, il quarantesimo, da lui diretto nel 2002. Al rifiuto di Miyazaki, Hosoda rispose realizzando un vero e proprio gioiellino animato, pur consapevole di aver messo il proprio talento a disposizione di una serie rivolta a un pubblico di giovani che non avrebbero colto a pieno le sfumature del suo estro. Noncurante, Hosoda compie a suo modo la sua vendetta nei confronti di Miyazaki, adattando il suo personalissimo Castello errante di Howl: al posto del castello, mette in piedi una particolare villetta in stile giapponese, piena di vetrate, fusuma e un’annessa fornace per lavorare il vetro, con Doremi nei panni di Sophie e Howl rimpiazzato da Mirai, una misteriosa «strega che ha smesso di essere una strega» (come recita il titolo dell’episodio).

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Il castello errante di Mirai

Il canovaccio è il seguente: Doremi, salutate le compagne indaffarate, si ritrova davanti a un bivio. Tediata dalla routine, decide di deviare dal solito percorso e di esplorare una zona sconosciuta della città, finché non si ferma ad ammirare la residenza di una donna che passa il tempo a lavorare il vetro in casa. Giunta da poco in città, la donna chiede a Doremi di farle da guida e, per ringraziarla, le regalerà al tramonto una biglia di vetro. Sarà proprio la lavorazione del vetro a suggellare il legame tra le due finché, un giorno, l’arrivo di una cartolina infrangerà tutto: un uomo anziano, convinto che Mirai sia la nipote della donna che aveva amato in gioventù, le scrive da Murano per chiederle di raggiungerlo. In quanto strega, Mirai è immortale. Non invecchiando, è costretta a spostarsi di continuo, senza poter mantenere rapporti duraturi con nessuno. L’incontro fatale con Mirai, che rifiuta la sua natura che l’ha condannata a una vita priva di affetti, seminerà il dubbio in Doremi, in procinto di decidere se diventare o meno una strega.

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Mirai e la biglia di vetro al tramonto

Con un rigore da regista navigato, in appena una ventina di minuti, Hosoda condensa innumerevoli chiavi di lettura, trasformando l’episodio 40 in un vero e proprio corto d’autore. C’è dentro di tutto: la percezione dello scorrere del tempo – elemento fondante della poetica di Hosoda –, l’irreversibilità delle scelte, la malinconia della solitudine umana, espressa con i silenzi, con i cimeli sparsi per la casa, con le mille foto nascoste nell’armadio, un mausoleo di ricordi: lo scatto fotografico come unico mezzo per fermare il tempo. Il vetro, onnipresente, finisce per suggerire l’esistenza di una dimensione parallela, che può apparire al contempo convincente o distorta, vera o ingannevole.

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Scatti di Mirai e del suo amato da giovane e da vecchio

La regia è magistrale. Non un attimo di esitazione. Non un dettaglio fuori posto. L’impiego di simbolismi, l’uso intelligente di luci e ombre e di tecniche sublimi come la ricorsività o la soggettiva di Doremi, mentre osserva lo spazio che la circonda attraverso la biglia di vetro, dimostra la maestria, la freschezza e la voglia di sperimentare di un uomo in grado di trascinare lo spettatore in una dimensione onirica e ipnotica. Tutta l’atmosfera, depurata dalle ingenuità, le magie e le bizzarrie tipiche della serie, unita alle inquadrature ricercate, all’architettura degli sfondi e la cura dei particolari, così come i continui riferimenti alla realtà, dai nomi dei luoghi in cui ha soggiornato Mirai (Repubblica Ceca, Okinawa, Danimarca…) alla cartolina scritta in italiano corretto, con il francobollo timbrato della “donna nell’arte”, infondono all’episodio un sapore fortemente realistico.

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La cartolina in italiano ricevuta da Mirai

Un altro aspetto da considerare è la vocazione al citazionismo letterario di Hosoda: se Il Castello errante di Howl era la trasposizione del romanzo di Diana Wynne Jones, Doremi to majo wo yameta majo è, invece, liberamente ispirato al racconto Lemon, scritto nel 1925 da Kajii Motojiro (1901-1932), tradotto in italiano da Luca Capponcelli. Tutto l’incipit dell’episodio ricalca la volontà di peregrinare del protagonista del racconto:

«Alle volte, percorrendo quei vicoli, improvvisamente provavo a immaginare di non essere a Kyoto, ma in un luogo lontano centinaia di chilometri. Se ne avessi avuta la possibilità, sarei voluto fuggire da Kyoto per finire in una città dove non conoscevo anima viva. […] Sentii all’improvviso il bisogno di uscire per vagare senza meta, come se qualcosa mi stesse mandando via da lì.».

Così come il limone simboleggia per il narratore la necessità di ancorarsi alla vita e di sfuggire all’inquietudine di un destino infausto (l’autore scrisse Lemon mentre era malato di tubercolosi, con la consapevolezza che non sarebbe sopravvissuto a lungo), per Doremi è la biglia ad assumere il ruolo del limone:

«La massa inquietante, che incessantemente opprimeva il mio cuore, pareva aver allentato la sua morsa dal momento in cui avevo stretto nella mano il limone e io mi sentivo beato. Che la mia tristezza tanto tenace potesse essere ingannata da un oggetto così piccolo sembrava un fatto inverosimile e paradossale.»

Anchela biglia di vetro è ripresa da un passaggio della storia di Kajii:

«Mi venne la passione per le biglie colorate e per le perle di vetro di Nanchino. […] Nel sapore sottile e rinfrescante di quelle perle, sentivo una sorta di bellezza poetica.».

È lo stesso regista a suggerire il parallelismo letterario in una scena dell’episodio quando, per un istante, è possibile udire l’insegnante Seki mentre legge un passo di Lemon.
L’episodio 40 ha segnato una milestone sia per Doremi che per lo stesso Hosoda. Con lo sguardo rivolto verso il futuro (Mirai significa letteralmente “futuro”), il regista scelse per Mirai la voce di Harada Tomoyo, l’attrice protagonista della prima trasposizione cinematografica de La ragazza che saltava nel tempo (Obayashi Nobuhiko, 1983). Gli sforzi del regista non furono vani perché attirarono l’attenzione di un produttore dello studio Madhouse che permise a Hosoda di dirigere per il grande schermo l’adattamento animato de La ragazza che saltava nel tempo, nato proprio da questo embrione di rivalsa.

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Il bivio in Doremi Dokkan 40 (Hosoda Mamoru, 2002)
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Il bivio ripreso in La ragazza che saltava nel tempo (Hosoda Mamoru, 2006)

Tra ispirazioni e omaggi

Se Hosoda ha avuto l’ardire di offrire a Ojamajo Doremi un livello qualitativo irraggiungibile, va riconosciuto che l’intera serie, dietro un’estetica colorata e infantile, votata al product placement di gadget per bambine, è sempre stata un eccezionale esercizio di empatia, che segue il paradigma del character development. Non a caso, la produttrice Seki Hiromi nel 2004, nel booklet che accompagnava l’uscita degli episodi speciali di Naisho, aveva dichiarato che la serie è stata concepita come una sorta di “diario collettivo”, in cui lo staff era libero di riversare ricordi e suggestioni della propria infanzia. La volontà di non centralizzare lo sviluppo di Doremi nelle mani di un unico autore o sceneggiatore ha avuto il merito di arricchirla con una varietà invidiabile di tematiche affrontate nel corso di oltre 200 puntate. L’importanza della “comunità” nell’universo corale di Doremi è tangibile nella constatazione che molti comprimari della serie portano i nomi dei membri del team creativo, come se la serie parlasse della vita dello staff. La stessa produttrice Seki ha dato il proprio nome all’insegnante di Doremi, rimarcando il suo ruolo di guida dell’intero progetto, che prende forma dall’opera precedente a cui Seki aveva lavorato per Toei, Yume no Crayon Oukoku (in Italia, Luna principessa argentata). Il legame tra le due opere si limita al lato fantastico della serie, quello legato al mondo della magia, che ha incasellato da subito Doremi nel filone majokko. La serie, in verità, riprende gli stilemi delle storie di stampo “slice of life”, incentrate sulla quotidianità dei personaggi. Parallelamente alle vicende del mondo delle streghe, tutta la narrazione verte sui rapporti relazionali tra Doremi e le sue compagne, i loro genitori e i numerosi comprimari che costellano la vita di zona: l’intersecarsi di piccole storie in una più grande “geografia del bene” in cui il male non va sconfitto ma compreso e accettato. In questo frangente, Doremi segue la scia di serie in voga in quegli anni, come Chibi Maruko-chan e Akachan to Boku, in cui i protagonisti vivono in prima persona i problemi quotidiani degli adulti che li circondano. La virata “materna” della seconda stagione (Sharp) che ruota sull’accudimento della neonata Hana, di cui Doremi diventa madrina, si ispira probabilmente a una serie dai toni simili, andata in onda nel 1992, Mama wa Shougaku Yonensei (Mia madre fa la quarta elementare,inedita in Italia).

Non è raro cogliere una miriade di riferimenti culturali e omaggi di ogni sorta, inseriti quasi per gioco. Come nota il prof. Giorgio Amitrano, l’omaggio in Giappone svolge una funzione comunicativa e rappresenta una sorta di debito intellettuale e tributo affettivo da parte di un autore verso l’artista citato. Per esempio, nei momenti assurdi, i personaggi di Doremi si ritrovano a rompere la tensione emulando la celebre posa comica “Sheeh” inventata dal fumettista Akatsuka Fujio negli anni Sessanta. Così come le fatine di Doremi e delle sue compagne assumono la medesima funzione del pupazzo di Pa-man di Fujiko F Fujio, che prende le fattezze di chi ne tocca il naso, in modo da sostituirsi alla persona agli occhi degli altri, generando spesso situazioni comiche.

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L’iconica posa “Sheeh” creata da Akatsuka Fujio

L’ispirazione più palese, tuttavia, è quella della storyline di Aiko (in italiano Sinfony), che ricalca parimenti quella di Jarinko Chie (La monella Chie), manga di Haruki Etsumi iniziato nel 1978, divenuto celebre grazie al film animato diretto da Takahata Isao nel 1981. Esattamente come Chie, Aiko proviene da Osaka e mantiene fieramente l’accento di quella zona (rimosso nell’adattamento italiano); abita da sola con il padre tassista divorziato e dimostra una maturità e un’indipendenza certamente non tipiche della sua età, costretta dalle circostanze a fortificarsi per sopravvivere a una vita senza madre. Sempre come Chie, è brava negli affari, si preoccupa ogni giorno della spesa ed eccelle nello sport. Nelle rare occasioni in cui riesce a tornare a Osaka per incontrare, di nascosto, sua madre, abbandona il look da tomboy, caratterizzato dalla caratteristica salopette blu, per indossare un abito elegante, come è solita fare anche Chie in vista degli incontri con sua madre, quasi a volerla rassicurare di star crescendo bene, come si confà a una “brava ragazza” giapponese. Il riferimento a Chie è chiaro già dalla prima apparizione di Aiko nell’episodio 3 della prima stagione, che segue similmente il capitolo di Jarinko Chie in cui il burbero padre provoca trambusto durante la tradizionale giornata in cui i genitori assistono alla lezione in classe con i propri figli.

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Jarinko Chie, Haruki Etsumi, 1978

Ricorrenti nella serie sono le viste al tramonto mostrate in ogni singolo episodio, che richiamano implicitamente Sanchome no Yuhi (Tramonto sulla terza strada, inedito in Italia) di Saigan Ryohei, la cui serializzazione prosegue tutt’oggi dal 1974 e che negli anni ha assunto per le masse una sorta di status celebrativo dell’era Showa (1926-1989), a dimostrazione di quanto abbia influenzato i membri dello staff cresciuti in quegli anni. Doremi, la cui prima apparizione risale a 25 anni fa, nel febbraio del 1999, esattamente dieci anni dopo la fine dell’era Showa, ben sigilla la fine degli anni Novanta, una decade a cavallo tra l’ingenuità e l’ottimismo dell’era Showa e il salto verso la modernità dell’era Heisei (1989–2019).

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Alcuni tramonti in Ojamajo Doremi
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Copertine di Sanchome no yuhi, 1974

Non mancano i riferimenti all’arte classica. Ad esempio, nell’episodio 30 della prima stagione, Yurei ni aitai (Voglio incontrare il fantasma), l’incontro tra un compagno di classe di Doremi e lo spirito del nonno defunto strizza l’occhio alla Creazione di Adamo di Michelangelo, o nell’episodio 40 della prima stagione in cui il mondo delle streghe sembra trasformarsi nell’universo metafisico di De Chirico, cui si aggiunge anche una citazione all’Urlo di Munch.

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Ojamajo Doremi 30, Igarashi Takuya, 1999
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La Creazione di Adamo di Michelangelo
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Ojamajo Doremi 40, Itou Naoyuki, 1999
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Mistero e malinconia di De Chirico e L’Urlo di Munch

Nel già discusso episodio 40 dell’ultima stagione diretto da Hosoda Mamoru, oltre a richiamare diverse inquadrature di La Ragazza che saltava nel tempo (Obayashi, 1983), la raffigurazione della biglia di vetro riporta alla mente la forma della celebre litografia di Escher.

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Ojamajo Doremi Dokkan 40, Hosoda Mamoru, 2002
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Mano con sfera riflettente, Escher

Nel 49° episodio, invece, in segno di tributo a Takahata Isao, Hosoda replica l’iconica scena tratta da Omohide Poro poro (Pioggia di ricordi) quando la piccola Taeko e il ragazzino invaghito di lei si incontrano all’incrocio. Non soltanto la posa, lo sguardo e la posizione dei dettagli sullo sfondo sono gli stessi, ma lo è anche il climax.

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Ojamajo Doremi Dokkan 49, Hosoda Mamoru, 2002
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Omohide Poro Poro, Takahata Isao, 1991

Elegia alle muse

Madri costrette ad abbandonare i propri sogni, insegnanti che preferiscono non sposarsi pur di non lasciare il proprio lavoro, donne forti, sole, vedove, nubili che partecipano agli omiai (gli incontri combinati a scopo matrimoniale), streghe che rifiutano di esserlo, bambine che si innamorano delle loro compagne… Doremi travalica il suo soggetto di base, quello di ragazzine che sognano di diventare streghe, per diventare un’elegia all’universo femminile. Le donne adulte sono rappresentate in tutte le loro sfaccettature. Sin dagli inizi, all’insegnante Seki, donna libera e indipendente, nonché appassionata motociclista, si affianca la delicata e materna infermiera Yuki, senza menzionare il ruolo essenziale delle madri delle protagoniste nella trama. Se la madre di Doremi fa la casalinga, quella di Aiko preferisce separarsi dal marito pur di continuare a lavorare nella casa di cura per anziani dove opera quasi per vocazione. Salvo poi scoprire in seguito che la separazione era stata causata da un aborto subito per la troppa fatica a lavoro. Sorprenderà sapere che Ojamajo Doremi è un prodotto con una scrittura eccezionale, che ha saputo trattare tematiche delicate come l’accettazione della solitudine e del lutto, anticipando le storie di donne ritratte dalla fumettista josei Ikebe Aoi.

Mai analizzata seriamente a causa della sua apparenza infantile, Ojamajo Doremi dimostra quanta serietà e passione i creatori della serie abbiano voluto infondere a un’opera per giovani, senza sottovalutarne il pubblico. Dopo 25 anni, non meriterebbe di essere (ri)guardata con uno sguardo meno superficiale?

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Donna a un incontro combinato, Ojamajo Doremi 47
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