Se è difficile trovare artisti della generazione Y già assurti allo status di leggenda, questo non vale per il fotografo e poeta cinese Ren Hang, già autore di culto e scomparso nel 2017 togliendosi la vita.
A Ren Hang è dedicata la bella mostra Ren Hang Photography ospitata negli spazi della Fondazione Sozzani a Milano fino al 29 novembre; un’ottima occasione per tornare nuovamente a confrontarsi con le immagini dell’autore e con temi che direttamente o implicitamente queste trattengono con sé.
Mi è capitato negli ultimi dieci anni di guardare le foto di Hang, apprezzandole prima di tutto attraverso le pagine patinate di riviste di moda come Purple, per poi vederle moltiplicarsi digitalmente attorno al 2009 in condivisioni sulle piattaforme social, in moodboard e collettori di immagini virtuali come Tumblr. La fortuna e la rapida diffusione del lavoro di Hang mi hanno sempre incuriosito e affascinato per due ordini di motivi: come potevano quei corpi asiatici incontrare così profondamente l’interesse del pubblico occidentale in un panorama visivo ipersaturo di nudi di ogni tipo? E soprattutto perché il mondo dell’editoria di moda, prima che il mondo dell’arte, aveva anticipato largamente il fenomeno Hang pubblicandolo e facilitandone la circolazione delle opere in gallerie e spazi dedicati alla fotografia?
Via via che in quei primi anni Dieci il segno di Ren Hang si faceva strada maggiori informazioni circa il suo autore iniziarono a circolare aggiungendo, se possibile, ancora più densità al suo sguardo e chiavi di lettura per meglio comprendere la sua arte. Innanzitutto Ren Hang era un poeta, alcuni esempi delle sue composizioni si possono trovare soprattutto dopo la sua morte come parte dell’allestimento delle sue mostre, come in questa Milanese oppure nelle recenti grandi mostre Nudes al Centro Pecci, e Love al C/O di Berlino. La scrittura di Ren è stata raccolta anche in vere e proprie pubblicazioni (ne è un esempio uno dei volumi esposti alla Fondazione Sozzani) ma gran parte della sua produzione si deve all’impegno diaristico che l’autore dedicò online al suo blog intitolato inequivocabilmente My depression, dove per circa un decennio pubblicò pensieri e il suo viaggio umano accompagnato dal quel malessere profondo che lo porterà al suicidio appena ventinovenne.
La scrittura insomma, è per il fotografo un segmento decisivo (così, come vedremo poi per molti artisti cinesi) per tratteggiarne la figura e soprattutto per cogliere, al di là di qualsiasi rozzo tentativo di lettura psicanalitica, la costante necessità di Ren di rappresentare quell’abbraccio vitale e comunione di corpi che sembrano invece assai remoti nelle sue poesie.
Dalla sua biografia emerge poi un altro dato significativo; Ren Hang iniziò a dedicarsi alla fotografia come forma di ribellione e insofferenza verso gli studi all’università di marketing e pubblicità che avrebbero dovuto indirizzarlo verso un certo tipo di carriera ma soprattutto verso uno stile di vita totalmente opposto a quello che lo ha reso famoso. Ren faceva parte di quella generazione di cinesi della “politica del figlio unico”, e perciò insita fin prima della nascita quella dimensione di controllo e di censura che non solo ha definito l’opera di Ren e dei suoi coetanei ma più in generale il coraggio e l’inesauribile voglia di esprimersi da parte degli autori cinesi di almeno tre generazioni precedenti a quella del fotografo.
Se è palese a tutti il campo di azione di questa forma di resistenza nel rappresentare ogni tipo di libertà – personale, sociale e sessuale -, quello che probabilmente non tutti i visitatori occidentali riescono realmente a cogliere è quanto tale esigenza rappresenti un valore fondamentale – e poi vedremo – “tradizionale” degli artisti cinesi delle ultime generazioni, cresciuti in un ormai secolare regime di controllo dei linguaggi visivi ed espressivi. Ecco che allora i corpi nudi di Ren Hang, il loro avvilupparsi, disporsi felicemente a creare composizioni e situazioni talvolta surreali, si inquadrano al di là dell’implicita carica erotica in un più profondo desiderio di relazione tra individui, di libertà.
Poco fa descrivevo la mia curiosità iniziale verso il successo e la condivisione dei corpi mostrati negli scatti di Ren. Perché ad esempio la loro semplice comparsa è di per sé un fatto intimamente più carico di senso rispetto ad esempio ad autori occidentali più o meno coevi a Ren Hang che si sono dedicati a simili temi, come ad esempio l’americano Ryan McGinley? Anche se ugualmente ospitati in pagine di riviste di moda la nudità in McGinley è mera rappresentazione di uno status symbol e di un mondo auto-assolto, distante anni luce da ogni conflitto, laddove per Ren il corpo nudo è il precipitato di un lungo percorso che trova degli interessanti precedenti in campi quali il cinema e l’arte cinese. L’essere autodidatta di Ren è facilmente ascrivibile ad una serie di casi fortunati che hanno visto grandi autori del suo paese strutturare – non senza enormi sforzi e pagandone le conseguenze – la propria identità trovando non nell’ortodossia degli insegnamenti accademici, ma nel personale desiderio di scoperta quei modelli di rappresentazione da fare propri.
Penso ad esempio agli autori di cinema della cosiddetta “quinta generazione” che iscritti all’Istituto di cinema di Pechino nel 1979 non trovarono nient’altro che apparecchiature fatiscenti importate dell’Unione Sovietica e professori che non realizzavano film da almeno un decennio. Dopo anni di amnesia collettiva quella generazione riscoprì come necessaria la propria storia culturale e in particolare quei film precedenti al 1967 e del periodo pre-comunista che censurati e indicati come “fiori avvelenati”. La cinefilia fu dunque l’unica forma di approvvigionamento di immagini “proibite”: quelle pellicole (e altre europee, giapponesi e americane) anziché essere distrutte dal regime Comunista furono conservate alla Cineteca di Pechino e ogni giorno gli studenti esploravano le pellicole del passato ed estere la cui importazione è stata a lungo vietata. Analogamente a ciò che ere accaduto per la Nouvelle Vague francese, la quinta generazione cinese imparò a fare cinema guardando film. Ren Hang inizia a fare foto guardando riferimenti occidentali come la Goldin, Araki, e Tillmans certamente, ma soprattutto guardando il lavoro performativo di artisti cinesi fondamentali come Zhang Huan che ha rappresentato durante la sua carriera un immaginario sofisticatissimo dove il suo corpo e quello di altri soggetti diventa strumento di misurazione, elemento sottilmente anarchico che si insinua tra le cose cambiandole. Non si può del resto non cogliere nel lavoro di Ren Hang più di un rimando alle opere nate come performance ma tramandate in splendide documenti fotografici come per esempio To Add One Meter to an Anonymous Mountain del 1995 o all’ancora più famoso To raise the water level in a fishpond di due anni successivo.
Vi è poi un altro elemento che accomuna le scelte di Ren Hang alle rappresentazioni visive di Zhang e altri autori cinesi che è da cercarsi nel rapporto con lo spazio: i corpi esplicitamente nudi di Ren hanno composizioni improvvisate che ce li restituiscono in pose più divertenti che erotiche, altre che hanno esplicitamente un forte contenuto sessuale – sicuramente agli occhi cinesi – ma ancora una volta con elementi che più che ad amplessi fanno pensare alla commedia, al baccanale o alla danza contemporanea, in ogni caso lo spazio che accoglie tali manifestazione del corpo è uno spazio “chiuso” o semi-astratto e le location scelte da Ren Hang non esprimono né la Cina moderna, né la sua storia, ma suggeriscono tacitamente attraverso quella dimensione atemporale e fantasmatica qualcosa di più segreto: il trauma subito da artisti cinesi censurati per generazioni.
Perciò non è tanto da ritrovarsi in una forma di esotismo l’apprezzamento del pubblico occidentale per Ren Hang ma in qualcosa che lavora a livello più inconscio: un incontro con la nudità anomalo, caratterizzato dalla mancanza d’un legame con il tempo e insieme l’esplorazione ossessiva di una scena primaria dove al centro impera il corpo vivo e fragilissimo.
Non è quindi un caso se la storia recente dell’arti visive (e non solo) cinesi siano costruite attorno a questo spazio mancante, a un decentramento permanente ed è logico anche che, negli anni duemila l’arte, la fotografia e il cinema cinesi ci siano giunte come forme espressive “in esilio” molto spesso non visibili in Cina ma accolte con favore in Biennali di arte e di cinema.
Nel répertoire di Ren Hang come già nei casi citati di altri fotografi occidentali compaiono inizialmente i corpi più prossimi a quello dell’autore: perciò i compagni di stanza, gli amici e tutti coloro che hanno condiviso un rapporto di intimità con l’autore. Quando il suo lavoro inizia rapidamente a essere riconosciuto e condiviso anche il casting cambia e ragazze e ragazzi sconosciuti al fotografo chiedono di partecipare entusiasti di far parte di una simile narrazione ed esperienza del corpo. Con loro però arriva anche la polizia che chiude rapidamente le sue mostre in patria. I divieti costituiscono sicuramente per Ren Hang motivo di dolore ma ammantano anche la sua arte di quell’aura leggendaria cui facevo riferimento all’inizio: le foto di Hang circolano non solo sul web ma anche in numerosi volumi in edizione limitata oggi già oggetti di culto, alcuni dei quali esposti anche nella mostra milanese, alimentando la sua reputazione dentro e soprattutto fuori la Cina, dove inizia ad esporre dal 2013 nella collettiva Fuck Off 2 curata al Groninger Museum dall’artista cinese dissidente più famoso, Ai WeiWei.
C’è una foto che a mio avviso più di ogni altra è emblematica non solo del lavoro di Ren Hang, ma anche di tutta la cultura visiva della Cina degli anni Duemila. Un’immagine che racchiude in sé tutta la poesia e i contrasti di una cultura che ho cercato di elencare fin qui. La foto senza titolo (come tutti gli scatti di Ren, del resto) è conosciuta come Kissing Roof, ed è uno scatto realizzato nel 2012: sul tetto di un edificio in Cina un ragazzo e una ragazza si baciano, lei con il capo all’indietro, facendo cadere i lunghi capelli in verticale al centro dell’immagine mentre riceve dall’alto il tenero bacio di un ragazzo che appena si flette su di lei. Non ne scorgiamo per davvero gli organi genitali ma ne intuiamo la completa nudità, sopra di loro un sole pallido illumina la scena attraverso la coltre di nebbia e smog che domina il paesaggio, lambendo appena i corpi dei giovani che, se non fosse per pochi segni sarebbero indistinguibili l’uno dall’altra. C’è tutto. Uomini e donne diventano forme androgine confuse in un gesto d’amore che sfida la tradizionale percezione della bellezza e del pudore in Cina, e c’è soprattutto questo rapporto tra figure e sfondo assai raro, come abbiamo detto, nell’arte di Ren Hang. La scena, anche se distante dalle strade, si svolge all’aperto. Improvvisamente per contrato, percepiamo qualcosa di raro e preziosissimo nei paradigmi di Ren: un cambio di scala e lo sfondamento di quelle barriere, e di quello spazio coercitivo o annullato che conteneva i corpi. Kissing Roof è la visualizzazione di un sogno, le due figure sembrano librarsi sulla città, che pur nella sua mestizia qui riesce a manifestarsi come poetica. È persino semplice, da occidentale, rivedere in questa scena i brani più alti della pittura onirica di Chagall così come, non posso non pensare alla libera festa dei nudi immortalati nella natura da Ren senza pensare alla danza più famosa della storia della pittura, quello di Matisse.
Il nove febbraio del 2014 Ren Hang scriveva: «Il mondo si sta ingrandendo o sono io che mi sto rinchiudendo».
L’architettura e lo spazio nell’arte di Ren tiene lontano dal mondo che rimane così astratto, lontano, prestandosi facilmente alla lettura metaforica. Questa sensazione claustrofobica, lo abbiamo appreso nel modo peggiore immaginabile deve aver molto pesato all’artista come si evince da tutto ciò che ha lasciato scritto ed è per questo che fa ancora più impressione vedere contrapposta a questo sentimento l’estrema vitalità, la gioia e la componente ludica che accompagnava i momenti di realizzazione di tali scatti, così come sono custoditi nel documentario I’ve Got A Little Problem (2017) di Zhang Ximing, visibile in mostra. In esso traspare qualcosa di assolutamente importante e che non è scontato a chi guarda le sue immagini: la partecipazione attiva dei soggetti, la dinamicità dei corpi, le risate, l’euforia dell’essere coscienti di partecipare a qualcosa di proibito. È proprio lì che appare evidente il portato politico, anarchico dell’intera operazione.
Non quindi nell’ostentazione di pratiche erotiche (in verità mai pornografiche), non nel “nudo” (a cui peraltro non corrisponde nella lingua cinese una reale traslitterazione) ma in questo spazio interstiziale di vicinanza dei corpi, al loro partecipare liberamente e diventare “corpo unico”, da questo enorme potenziale che evidentemente si ravvisa e rende necessario l’esercizio della censura da parte del potere.
Judith Butler, richiamando Hannah Arendt scrive ne L’alleanza dei corpi (2017, Nottetempo): «Secondo Arendt, l’azione politica può aver luogo solo a condizione che il corpo faccia la sua apparizione. Io appaio agli altri, gli altri appaiono a me, il che significa che qualche spazio tra di noi ci consente di apparire». E ancora: «Nessun corpo instaura singolarmente lo spazio dell’apparizione perché quest’azione, questo esercizio performativo, accade solo ‘tra’ corpi, in uno spazio che costituisce il vuoto tra il mio corpo e quello dell’altro. Di conseguenza il mio corpo non agisce mai da solo quando agisce politicamente».
Nella sezione della mostra intitolata Ren Hang, Photography and fashion sono esposte alcune delle riviste che hanno ospitato il lavoro del fotografo nella sua breve e fondamentale carriera. Sono pubblicazioni di riferimento per chi conosce l’editoria di moda, come Tank, Purple Fashion – che già ricordavo -, Beauty Papers, Antidote Magazine e varie altre. Per quanto non ce ne dovrebbe essere bisogno è però opportuno ricordare l’assoluta importanza della moda contemporanea come spazio di sperimentazione e di visualizzazione dei mutamenti delle identità, e del corpo: l’apporto di Ren Hang è stato in tal senso fondamentale, i suoi editoriali provano senza margine di equivoco che la moda non è una questione di vestiti, ma dei corpi che li indossano e soprattutto dei corpi che se ne liberano. Invito in tal senso a notare come tra i vari editoriali selezionati, l’unico nel quale compaiono effettivamente dei vestiti che quasi “soffocano” e schermano la vibrazione dei nudi di Ren appartiene a Numéro China.
La morte di Ren Hang rappresentò un colpo durissimo per un ampio pubblico trasversale tra moda, arte e fotografia accompagnato da un cordoglio che non ricordo per altri autori recenti tanto era sincera l’ammirazione per la purezza e l’innocenza che il pubblico riconosceva nel lavoro dell’artista. La sua produzione non è mai stata così celebrata come in questi due anni, attraverso mostre e pubblicazioni come la più mainstream Ren Hang, curata da Dian Hanson un anno prima della morte del fotografo (2016, Taschen). Eppure l’assenza del suo corpo, della sua resistenza è qualcosa di cui sentiamo sempre più la mancanza: abbiamo ancora tutti nei nostri occhi le immagini della repressione dei corpi degli scontri ad Hong Kong, corpi che non possono più manifestarsi nella loro fisicità naturale ma che per sfuggire al riconoscimento digitale devono ricorrere a mascheramenti che li rendono altro dall’umano (fatto questo che ha curiosamente anticipato questa nuova era di volti post-covid). Il volto come algoritmo, come QRCode, il corpo come oggetto da “obliterare” attraverso gli idranti ad inchiostro della polizia. Il filosofo coreano Byung-Chul Han avverte ne L’espulsione dell’Altro (2017, nottetempo) «l’ordine digitale provoca una progressiva scomparsa del corpo del mondo. Sempre meno ci sono oggi comunicazione di corpi. L’ordine digitale elimina anche gli anticorpi, mentre toglie alle cose il loro peso materiale, la loro massa, la loro vita propria, il loro proprio tempo e le rende in ogni momento disponibili: gli oggetti digitali non sono più obicere ci vengono incontro con il loro peso, non incontriamo in loro nessuna resistenza. A tutti i livelli ha luogo oggi la scomparsa di ciò che ci sta di fronte. Il mi-piace è l’opposto dell’obicere. Tutto esige il like. La totale assenza di un essere contro non rappresenta una condizione ideale, perché l’essere contro ricade dolorosamente su se stessi e ciò conduce a un’autoerosione».
Cosa può
rappresentare dunque la visione dei corpi di Hang oggi, a pochi anni della sua
morte? Mentre visitavo la mostra durante l’inaugurazione ho sentito subito il
desiderio di condividere su Instagram una delle foto che ritengo tra le più
belle: due corpi senza volto uniti tra di loro a creare un paesaggio,
un’immagine astratta che ricorda molto più la complessa geometria di un nodo
che la sinuosità di due anatomie. Istantaneamente e con mio stupore il mio post
è stato rimosso da Instagram che mi ricorda la violazione delle linee guida
della “community”.
Ed è proprio Ren a ricordarmelo con le sue parole:
«Ogni persona è improvvisamente come un’enorme ferita.»
(Ren Hang, 2016)
Immagine copertina: © Ren Hang, 2015. Courtesy Stieglitz19 and The Estate of Ren Hang