All’inizio del marzo 1975, poco prima dell’uscita sul mercato di Young Americans, un fantasma sbarca a Los Angeles. È emaciato e scavato come chi non dorme da giorni, poco più di un eccentrico aggregato di geometrie ossee che su un palcoscenico riesce a dare voce a dischi che vendono quanto nessuno riesce a vendere. Fa soldi, tanti soldi. Quel fantasma risponde al nome di David Bowie, una star di fama planetaria, ricercato ovunque; da un bel pezzo Ziggy è morto sul palco e gli Spiders from Mars si sono ritirati nelle loro orbite, Diamond Dogs e i cut up à la Burroughs sembrano già acqua passata. Da poco ha presentato Aretha Franklin alla cerimonia dei Grammy Awards, sotto lo sguardo esterrefatto di John&Yoko, mostrando al mondo i suoi 40 chili e i tic nervosi da tossicomane consumato, e si appresta a volare a New Mexico per impersonificare il ruolo dell’alieno Thomas Newton nella pellicola L’uomo che cadde sulla terra di Nicolas Roeg.
LA dal canto suo è una città all’apice della sua carica sulfurea, nella quale l’odore della setta di Charles Manson è ancora nell’aria, mescolato a quello del sangue e della cocaina. Da qualche parte a Venice Beach Iggy Pop si nasconde al mondo in un antro d’ombra tra liti furiose e dosi massicce, mentre tonnellate di riviste targate Playboy svolazzano nell’aria insieme al sogno della celebrità che sembra sbattere in faccia a chiunque si incammini lungo Bel Air e Malibu. Sono tanti i cadaveri che galleggiano nella piscina di un Sunset Boulevard affollato di flash. Cosa potrà mai trovare questo esile fantasma nella città degli angeli che si sono rivelati demoni affamati della carne delle celebrities? All’apice del delirio paranoico, ad un passo dall’abisso che minaccia di risucchiarlo per sempre tra esorcismi, esoterismo e simbologie pericolose, David Bowie si spoglia delle sue tante pelli e si immerge in un processo di metamorfosi, un percorso di cambiamento personale e artistico che lo porterà ad una lunga tourné, all’LP Station to Station e all’approdo a Berlino accanto al fido Iggy, dove incideranno quelli che ad oggi sono riconosciuti come i dischi più importanti della loro carriera e, all’ombra del Muro, troveranno una nuova parvenza di vita.
A raccontare per immagini questo passaggio, di matrice esistenziale prima ancora che artistica, è la mostra David Bowie. The Passenger, inaugurata lo scorso 2 aprile negli spazi del Teatro Arcimboldi di Milano, prodotta da Navigare Srl e Show Bees Srl, a cura di Vittoria Mainoldi e Maurizio Guidoni per Ono Arte. Una retrospettiva che raccoglie oltre cinquanta scatti del fotografo statunitense Andrew Kent, che ha seguito Bowie da LA all’Europa in un periodo-chiave per l’artista britannico, esposti accanto a diversi cimeli e documenti originali provenienti dall’archivio di Kent, insieme ad abiti, microfoni, macchine fotografiche, dischi, modellini e manifesti. Un percorso allestitivo che diventa l’occasione per affacciarsi sulla carriera di David Bowie in quei delicati mesi, raccontati dallo stesso Kent che li ha vissuti in prima persona accanto all’artista.
Signor Kent, partiamo dall’inizio. Come vi siete incontrati la prima volta lei e David Bowie?
Nell’ottobre del 1975 Cameron Crowe, mio amico fraterno, giornalista nonché grande regista, mi portò con sé in uno studio di registrazione di Hollywood. Fu lì che conobbi per la prima volta David Bowie. Cameron aveva seguito David qualche volta nei mesi precedenti mentre quest’ultimo stava lavorando a del nuovo materiale che avrebbe dovuto farlo uscire da una situazione complicata, ben rappresentata da dischi di grande successo come Aladdin Sane, Diamond Dogs e Young Americans. Situazione complicata in quanto quel tipo di successo ha sempre delle conseguenze, sia per la mente che per il fisico: tra di esse per Bowie c’era la tossicodipendenza. Cameron pensava che Bowie – che stava cercando un fotografo che lo seguisse per il suo imminente tour – potesse trovarsi a suo agio con me per via della mia sensibilità e del mio carattere. Insomma, pensava che Bowie avrebbe potuto trovare giovamento dalla mia compagnia.
Effettivamente, Bowie in quel momento ha bisogno una serenità che sembra perduta. Guardando alcune storiche esibizioni, come quella al Dick Cavett Show del dicembre 1974 oppure a Soul Train nel novembre 1975, si ha l’impressione di un uomo che lotta contro i propri fantasmi. Magrissimo, alterato dalle sostanze, con la voce sporcata dagli eccessi di Los Angeles. Che impressione le diede Bowie in quel periodo?
Una delle prima volte che l’ho fotografato è stato proprio durante la performance a Soul Train… David dava davvero l’idea che stesse attraversando il periodo più difficile di tutta la sua vita. Non si può negare che le droghe fossero un serio problema per lui in quel momento e che avesse spinto il suo fisico e la sua resistenza al limite, ma allo stesso tempo stava fortemente cercando una via d’uscita da questa situazione. Il viaggio in Europa ha questa valenza: è evidente anche da alcune mie fotografie che, una volta tornato in Europa, Bowie tornerà ad essere la persona positiva che è sempre stata. Aver lasciato Los Angeles fu la sua salvezza.
Fu un momento di grande cambiamento. Il 23 gennaio del 1976 Bowie dà alle stampe Station to Station, il suo decimo album, del quale, racconterà più tardi, non ricordava le session di registrazione: è il punto di svolta, l’abbandono definitivo del glam e del soul plastico per un nuovo modello artistico. «The european canon is here» canta in quel disco, mentre nasce dalle sue macerie private il personaggio del Thin White Duke. Cosa ricorda di quel processo di metamorfosi, che emerge molto bene nei suoi scatti?
Bowie nelle vesti del Thin White Duke poteva apparentemente sembrare un personaggio algido, lontano e calcolatore, ma si trattava dell’ennesima maschera dietro alla quale nascondersi. Tutte le critiche che gli sono piovute addosso in quel periodo, legate soprattutto alla sua presunta simpatia per alcune visioni legate alle destre storiche, furono del tutto fraintese e ve lo posso dire da ebreo…
Lei ha saputo guardare Bowie senza sovrastrutture. A stupire maggiormente è la sua scelta di rappresentarlo non con gli abiti della divinità del rock, ma nei suoi momenti più umani. È come se le interessasse non tanto ciò che stava sul palco, in esposizione, ma il backstage di questo artista. È così?
Ho fatto tante foto sul palcoscenico, il mio ruolo all’interno dell’Isolar Tour era quello di fotografo ufficiale e quindi ho realizzato decine di centinaia di scatti di David sulla scena, ma avendo il previlegio di viaggiare con lui avevo anche un accesso esclusivo a tanti momenti intimi. A quel punto eravamo diventati amici: non pensavo a scattargli delle foto esclusivamente in modo professionale, ma è anche vero che ero pur sempre un fotografo professionista e che quindi avevo la mia macchina sempre con me e in alcuni casi non ho potuto fare a meno di sollevarla e di scattare. Ma non gli ho mai puntato l’obiettivo in faccia, e David questo lo sapeva… credo che per questo si sia sempre concesso a me con così grande disponibilità, e per questo alcune delle mie foto oggi sono così intime.
In un bellissimo scatto, ci mostra Bowie mentre si prepara il trucco prima di entrare in scena. Cosa si nascondeva sotto il suo make-up?
Un ragazzo di 29 anni. Spesso ci si dimentica che era così giovane… io avevo appena un anno meno di lui. In quel momento lui aveva già cambiato il volto e il suono della storia della musica, ma in fondo era solo un ragazzo.
Questa vicinanza anche anagrafica ha creato una forte complicità tra voi. C’è un momento che ricorda con particolare affetto, nei giorni passati accanto a David?
Tutto il percorso fatto con lui è stato particolarmente emozionante e sono tanti i momenti di cui ho un bel ricordo. Ricordo che, durante una pausa dal tour, a David venne l’idea di andare in treno fino a Mosca. Fui io ad occuparmi del viaggio e dei documenti necessari e partimmo dalla stazione di Basilea. Erano i giorni del compleanno di Iggy Pop, che viaggiava con David durante il tour, e prima di partire abbiamo festeggiamo con una torta al bar della stazione, con tanto di candeline… era mattina, e ricordo che la gente ci guardava un po’ perplessa.
La figura di Iggy Pop è fortemente legata a questa fase di ricostruzione per Bowie, che culminerà con il trasferimento a Berlino, nel cuore della vecchia Europa, per disintossicarsi. Ne nasceranno tre dischi leggendari – la cosiddetta trilogia berlinese – e due di Iggy (The Idiot e Lust for Life), oltre a una storica tourné che vedrà Bowie suonare il piano, defilato sul palco.
Bowie si trasferirà a Berlino nel 1977, quando le nostre strade si erano da poco separate. Quella fu per lui la trasformazione finale, il momento in cui non sentì più il bisogno di essere un personaggio per le masse, di indossare le sue maschere. Era il punto d’arrivo, ma l’inizio di quella trasformazione fui in grado di intuirla proprio durante il nostro viaggio in occasione di quel tour… era come se la sua nativa Europa lo stesse richiamando a sé.
Si trattava di un viaggio personale ma anche letterale, come provano i molti chilometri percorsi insieme. Tra questi viaggi, incredibile fu quello a Mosca nel 1976 sulla transiberiana. Come andò il viaggio in treno e la visita alla città?
In città rimanemmo appena sette ore, la gita fu una fuga rubata rocambolescamente tra una tappa e l’altra del tour. Dalla Svizzera dovevamo arrivare ad Helsinki e Bowie volle fare una deviazione per mostrare a noi e a Jim (Iggy Pop n.d.r) la Piazza Rossa di Mosca. David aveva già visitato la Russia nel 1973 e ne era rimasto profondamente affascinato. In quell’occasione lui e Jim viaggiarono con la transiberiana, mentre noi prendemmo diversi treni, molto più modesti. Ne cambiammo un paio e fummo anche fermati alle diverse frontiere e a Brest, dove un agente del KGB perquisì i nostri bagagli, confiscandoci diverso materiale!
A colpire nella mostra sono anche i bellissimi scatti nell’hotel a Parigi. Cosa ricorda di quella circostanza?
Fu una sessione spontanea. Andai a bussare alla porta della sua camera in hotel e lui mi invitò ad entrare per fare due chiacchere… David si stava preparando per uscire, nulla di speciale. Avevo sempre la mia macchina con me, e mi venne naturale fare qualche scatto, ma di nuovo, in modo non invadente, semplicemente quando notavo un’espressione o una posa interessante alzavo l’obbiettivo e scattavo. Ricordo che ad un certo punto andammo anche sul balcone a bere un bicchiere di vino, era già pomeriggio e c’era una luce molto bella.
Una luce che si riflette sulla pelle di Bowie e che, a distanza di tanti anni, sembra raccontarci qualcosa su questo artista, mentre traccia una mappa ideale per capire i mutamenti della sua carriera in quel breve ma significativo periodo della sua vita. Eppure lei ad un certo punto ha abbandonato la fotografia del mondo musicale. Perché?
Ho abbandonato la fotografia del mondo del rock perché mi sono innamorato delle montagne dell’Idaho e ad appena trent’anni ho deciso di trasferirmi a Sun Valley, dove ancora oggi vivo. Anche se mi piace raccontare che passo la mia giornata a pescare, in realtà continuo ad occuparmi di fotografia, e l’ho sempre fatto, nei settori della pubblicità e dell’arte.
In copertina:
David Bowie reads through a book in his bed during a rare quiet morning in his suite at L’Hotel in Paris, 1976 ©Andrew Kent