Ci sono molti film stranieri che nei cinema italiani non arrivano o a cui è riservato un lancio in pochissime sale, o molto tempo dopo l’uscita all’estero, film che non vengono promossi, film che rimangono ai margini del dibattito culturale. A volte questo accade anche al cinema d’autore, a film dibattuti dalla critica internazionale, a film premiati.
#Gli Scomodi è la rubrica di Emanuele Rauco dedicata ai film ignorati, ai film di cui non avete sentito parlare e su cui invece c’è molto da dire.
«I find feelings through stories.» Trovo i sentimenti attraverso le storie: non potrebbe essere più chiaro l’assunto teorico e poetico alla base di Three Thousand Years of Longing, il film di George Miller che dopo la presentazione al festival di Cannes del ’22 e il seguente flop al box-office (60 milioni di budget, 19 di incasso nel mondo) è sparito dai radar italiani ed è rimasto inedito. Reperibile per ora solo in dvd e blu-ray è un film che ha sconcertato il pubblico e i critici, una sontuosa storia d’amore strutturata per novelle, un film fantasy che è riflessione metalinguistica e soprattutto nessuna traccia di quell’adrenalina che aveva portato Fury Road a diventare un film d’azione epocale, sette anni prima.
Con Miller è sempre stato così, tolte le lande post-apocalittiche di Mad Max, il suo percorso di regista è stato tra i più imprevedibili e tortuosi del cinema recente, i film per bambini (Babe – Maialino coraggioso e il suo seguito, il musical animato Happy Feet), il grottesco (Le streghe di Eastwick) o il dramma lacrimoso (L’olio di Lorenzo). La nuova deviazione del regista verso i territori del fantasy sentimentale e della meta-riflessione narrativa non stupiscono quindi lo spettatore accorto, a maggior ragione perché il suo film più recente (il prossimo, Furiosa, previsto per il prossimo anno, torna nel mondo di Mad Max) si lega in un certo senso a un documentario del ’97, 40.000 Years of Dreaming, non solo per l’assonanza del titolo, ma perché raccontava il centenario del cinema cucendolo assieme alle teorie aborigene del sogno.
Three Thousand Years of Longing racconta di una studiosa inglese (Tilda Swinton) che è preda di incubi e allucinazioni; durante un viaggio acquista in un bazar di oggetti vari una bottiglia antica e accidentalmente libera un genio (djinn in lingua antica, interpretato da Idris Elba), che le chiede come da tradizione tre desideri che vengano davvero dal suo cuore. La donna è scettica, soprattutto sul concetto di desideri e così convince il genio a raccontarle tre storie che hanno poi condotto al suo imprigionamento nella bottiglia: e sono tre storie d’amore, quella della regina di Sheba e di re Salomone, quella di Gülten, la concubina di Solimano il Magnifico, e quella di Zefir, moglie di un mercante turco, e dello stesso Djinn. Ovviamente, questi racconti conducono la studiosa a innamorarsi del genio e ovviamente, sarà un amore impossibile.
Miller parte da Il genio nell’occhio d’usignolo, pubblicato nel 1995 da Einaudi (e oggi fuori catalogo), raccolta di novelle mitologiche a opera di A. S. Byatt (di cui la Alithea di Swinton è una sorta di alter ego), e usa la classica struttura del racconto nel racconto, come Le mille e una notte o Il decamerone, per costruire una riflessione sul potere del racconto e dell’immaginazione, sulla sua capacità di generare immagini ed emozioni, di poter creare sentimenti laddove altrimenti non esisterebbero. Più specificamente, e abbastanza in controtendenza rispetto a una certa erotofobia del cinema contemporaneo, il racconto crea desiderio e il film punta il suo sguardo proprio su questo, ovvero il bisogno vitale del desiderio, sessuale, spirituale, morale o di altro tipo e questa spinta a desiderare può arrivare oggi solo dai racconti e dalle immagini.
La vera domanda però è: quali racconti in un’epoca dominata dalla stessa idea di narrazione e storytelling? Quali immagini dato che ne produciamo tutti, di continuo e quindi rischiamo di esserne anestetizzati? In questo senso, Miller, aiutato da Augusta Gore in sede di scrittura e da John Seale per la fotografia lussuosa, semplicemente sceglie la strada forse più semplice, ovvero torna al passato, alla mitologia dell’amore, all’estasi visiva di un mondo in cui ogni racconto sembrava dover evocare l’idea di paradiso, con tutte le diverse sfumature religiose e culturali, che i tempi e le latitudini portano con loro. Così quei paradisi perduti possono essere riconquistati con la forza del racconto, con la purezza dell’ascolto e della creazione.
Three Thousand Years of Longing è quello che gli studiosi chiamano cautionary tale (che è anche il titolo della canzone portante della colonna sonora, cantata da Matteo Bocelli) o in italiano ‘racconto di ammonimento’, ossia una storia che deve mettere in guardia il pubblico da un pericolo preciso, in questo caso l’oblio, l’assuefazione ai gesti del racconto e della visione che portano al buio dell’amore e della pulsione vitale, e per non correre il rischio che lo spettatore del film viva questo oblio, Miller e i suoi collaboratori riempiono l’opera di tutto ciò che può attrarne occhio e orecchio: la costruzione dei singoli racconti e del dispositivo, le bellurie visive che costeggiano praticamente ogni inquadratura, i virtuosismi che sembrano il cuore stesso del film finiscono, dopo 108 minuti, per mangiarsi il fine ultimo del film stesso, l’effetto che l’ammonimento vorrebbe ottenere.
Certo, il senso del rapporto tra Alithea e il genio è di perdersi nelle storie e nei loro spiragli, ma fino a che punto ha senso che anche il narratore si perda lì dentro? Non dovremmo invocare quindi un genio del racconto che intervenga a mettere ordine alle spirali di questo calderone, o perlomeno a fare in modo che dai rivoli confusi di storie, riflessioni, dialoghi e passioni che si raffreddano per amor di accumulo si possa trarre l’essenza più illuminante? Perché per trovare i sentimenti attraverso, dentro, i racconti serve che questi non impediscano la ricerca a noi spettatori, lettori o ascoltatori.
Illustrazione di copertina di Elisabetta Panico