«Fregatevene di tutto, e dite quello che volete: l’arte è essere vivi e liberi». Questa è la frase che pronunciò una decina di anni fa, in una calda sera d’estate, Gianfranco Baruchello, a un gruppetto di “giovani” artisti tra i quali comparivo anch’io. Eravamo stati invitati dalla curatrice Arianna Rosica che aveva organizzato quell’incontro speciale.
Arrivammo alle porte di Roma, sulla Cassia, in quella che era diventata la Fondazione Baruchello, dove l’artista ci aspettava insieme a Carla Subrizi, la giovane moglie e storica dell’arte. Ricordo Carla che si aggirava tra le stanze calde dell’edificio, con un rispetto quasi reverenziale per noi che volevamo vedere le opere del marito.
Più ci inoltravamo negli archivi, più mi convincevo di essere finito in un mondo parallelo regolato dall’assurdo. Ecco che da una vetrinetta spuntò una bottiglia in cui Baruchello aveva intrappolato il fumo di sigaro del suo caro amico Marcel Duchamp; poco più in là, la fotografia di Calvino e in una scatola trasparente un orecchio gigantesco, che fosse un omaggio a quello di Van Gogh? Nella mia mente avevo sempre associato Baruchello proprio a Van Gogh, perché come lui aveva lavorato per decenni senza curarsi del successo che non arrivava. Ma Baruch, così lo chiamava affettuosamente la moglie, era stato più fortunato perché, compiuti gli ottant’anni, il mondo aveva aperto gli occhi e si era accorto che quel pazzo – che scriveva lettere al Pentagono, accumulava oggetti, spazzatura, ritagli di giornali, origami e pezzi di film – era un grande artista.
Man mano che salivamo i piani, ci avvolgeva un intenso odore di polvere, depositata sui documenti archiviati e su opere che solo di recente la critica mondiale stava riscoprendo. Baruchello aveva una pancia larga quasi malinconica sotto la maglietta blu, il naso appuntito e gli occhi spalancati, mentre ci raccontava la storia della sua vita.
Da giovane, dopo una laurea in giurisprudenza, fonda un’azienda chimica, tanto per dimostrare al padre ricco che ci sa fare anche lui. Ha successo, scorrazza con una Ferrari, ma lui è un artista e sa che l’arte non ti aspetta in eterno. Così un bel giorno dopo un grave incidente decide che su quel bolide non ci salirà più. E comincerà l’avventura dell’arte. «Un’avventura che non sai mai dove ti porta, puoi finire anche nel fango, ma non importa». È il 1959. Va a Parigi, conosce Sebastian Matta, poi a Milano si infila in un ristorante dove sa che sta cenando Duchamp, si presenta e così comincerà la sua amicizia con l’artista più rivoluzionario del Novecento.
Le prime opere di Baruchello sono fatte di giornali assemblati, o libri sepolti nel bianco di una vernice che subito si crepa, invecchiando tutto ciò che ritrae il presente. Un titolo celebre è Il cimitero di opinioni, una sorta di arca di legno che trasporta notizie ormai morte. Questi lavori hanno un iniziale successo, l’importante gallerista newyorkese Ileana Sonnabend è entusiasta, è pronta a lanciarlo nell’Olimpo dell’arte mondiale insieme ai suoi assemblaggi di giornali, ma il Baruch che fa? Cambia materiali, si dedica al plexiglass e poi alla pittura, senza tralasciare il cinema e la letteratura. Chi avrebbe avuto il coraggio di fare come lui, rinunciando alla fama per inseguire le sue idee?
A metà anni Sessanta, Baruchello presenta a Parigi La verifica incerta, un film che ha montato insieme a Alberto Grifi, costituito da scarti di cinema hollywoodiano tagliati e incollati, una sorta di Blob ante litteram che suscita l’entusiasmo di Duchamp, Man Ray e Max Ernst. Questo suo girovagare tra medium diversi ne certifica il coraggio e la grande vena sperimentale, ma forse spaventa il mercato che ha sempre bisogno di rassicurazioni. Pubblica anche libri, come La quindicesima riga, dove sono raccolte in un unico volume tutte le quindicesime righe di libri già esistenti. Il ready made duchampiano applicato alla letteratura. Nel 1968 è la volta di Avventure nell’armadio di plexiglass, pubblicato da Feltrinelli, in cui parla anche del padre, senza mai nominarlo. Un padre amato ma ingombrante, che metaforicamente va fatto fuori.
Prima di cena Gianfranco e Carla ci condussero alla dependance della fondazione, dove avevano sistemato i letti per gli ospiti. Scendemmo delle scalette di cemento adiacenti a un vasto campo d’orzo davanti al quale mi feci fotografare con le braccia spalancate. Anche quel campo dorato era in qualche modo un’opera d’arte di Baruchello, che nel 1973 aveva fondato l’Agricola Cornelia S.p.A., un progetto visionario artistico e zootecnico, un modo per sottrarre il territorio alla speculazione edilizia, ma anche un lavoro in cui riusciva a fondere l’arte, la cultura, la natura e l’economia. Grazie a Baruchello anche un allevamento di pecore poteva essere fonte di riflessione artistica, insieme alla raccolta del fieno e alla coltivazione delle verdure.
Mentre affrontavo il mio piatto di bucatini, non perdevo d’occhio Baruchello, che con il suo parlare sussurrato raccontava delle sue famose scatole, quei contenitori di interi mondi e composte da oggetti trovati, ritagli, disegnini che tutto il mondo aveva potuto ammirare al Palazzo Enciclopedico, la Biennale di Venezia curata da Massimiliano Gioni, e che cominciavano a essere coccolate finalmente anche dal mercato. «Frammentare le cose e metterle in contrasto significa capirne il senso». Ecco forse l’intento di Baruchello: non spaventarsi di fronte alla complessità del mondo e del pensiero, ma viverlo, mapparlo, digerirlo fino a creare nuove realtà.
Dopo cena mi ritrovai a sorseggiare il caffè al suo fianco e gli domandai del suo rapporto con la scrittura. Mi disse che scrivere era sempre stato un modo per fuggire dalla solitudine, un dialogo continuo con se stesso che aveva il problema di ricordare troppe cose. Mi raccontò di quando Calvino gli scrisse un testo per una mostra a New York, o di quando Edoardo Sanguineti fece lo stesso a un’esposizione da Yvonne Lambert. E anche i suoi dipinti in fondo hanno sempre mantenuto un rapporto con la parola: geroglifici in cui a disegni miniaturizzati si alternano frasi sospese in spazi vuoti, praterie di bianchi, e grigi, dall’apparenza fredda, quasi chirurgica eppure non privi di ironia e passione.
Prima di congedarci e raggiungere le nostre camere circondate di orzo, Baruchello fece una cosa che mi colpì: domandò a ognuno di noi quale fosse la nostra pratica artistica. E non lo fece per educazione, no, era evidente la sua curiosità, come se le nostre storie in qualche modo adesso appartenessero anche a lui. Ci ascoltò, concedendosi a noi con smisurata dedizione, e dispensò a tutti lo stesso prezioso consiglio, che mai avremmo dimenticato.
Il 14 gennaio 2023 Gianfranco Baruchello è morto. Aveva novantotto anni.
«Fregatevene di tutto, e dite quello che volete: l’arte è essere vivi e liberi». Grazie Baruch.
In copertina:
Granfranco Baruchello fotografato da Daniel Reinhardt/EPA©Ansa