Il protagonista de La voce della luna si chiama Salvini, ma se c’è qualcosa di profetico nell’ultimo film di Fellini è che la postmodernità si sta privando dell’autentico. Oggi, alle soglie della duplicazione algoritmica, nel mercato, nella politica e nella cultura assistiamo a comparse che diventano buoni caratteristi.
Possiamo immaginarceli, i casting delle comparse: a volte criteri dettati meticolosamente, connotati e identikit dalla precisione poliziesca, a volte no, a volte semplici suggerimenti e suggestioni. Chi lavorava per Fellini, ad esempio, sapeva che l’unico criterio erano le facce (sull’argomento Andrea De Carlo girò un documentario) e sapeva perfettamente quali cercare: facce fuori dall’ordinario, facce da barnum, facce così artefatte da sembrare uscite dal pennino del regista (non a caso alcune di queste comparse divennero caratteristi) e degne del suo secondo mondo.
Ecco, Giorgio Diritti ha fatto il cercatore di facce per La voce della luna, e proprio da lì, da quelle facce artefatte, è iniziato il suo cammino nel cinema. La fisiognomica, le deformazioni e i tic della sua prima pellicola di rilievo, Il vento fa il suo giro, hanno qualcosa di fellinesco, ma il film è quanto di più lontano possa esistere dalla poetica felliniana: girato senza teatri di posa nelle valli occitane del Piemonte, vi si parla un vivido dialetto e si respirano nebbie più liriche che magiche.
Arte factus, fatto con arte: l’etimo non inganna e ci svela – la sottile linea tra arte e artigianato – come in origine il termine esaltasse il saper lavorare bene con le mani. Il cinema eredita dalla pittura questa dimensione da bottega artistica, ma endemicamente assorbe anche la novecentesca polarità autentico/inautentico, un vulnus che si porta dietro per più di un secolo e che finisce per incancrenirsi con l’avvento del digitale.
Sottotraccia per tutto il diciannovesimo secolo, affiorante in Kierkegaard e Nietzsche, il binomio autentico/inautentico emerge pienamente dalle immersioni viennesi a cavallo tra i due secoli per poi stagliarsi lungo la tratta Benjamin-Heidegger. Come ha spiegato Agamben, a partire dal XVIII secolo, da quando la Tecnica è esplosa nella rivoluzione industriale, tutto ciò che viene realizzato dall’uomo rientra in due categorie: o si tratta di opere d’arte, o di prodotti in senso stretto. Questi ultimi sono realizzati a partire da un typos, da uno stampo, e non hanno nessuna originalità. Le opere d’arte sono invece irriproducibili in quanto, nell’atto irripetibile della creazione, conservano un rapporto strettissimo con l’arkè. Scrive Agamben: «La riproducibilità è dunque lo statuto essenziale del prodotto della tecnica, così come l’originalità (o autenticità) è lo statuto essenziale dell’opera d’arte».
Uscito lentamente dai circhi e dalle fiere, il cinematografo stava cercando di darsi una patente autoriale quando viene colpito dall’anatema di Benjamin: il cinema è arte riproducibile per eccellenza. Sarà solo grazie al concetto heideggeriano di opera d’arte come messa in opera della verità che ogni produzione umana votata alla poiesis, cinema incluso, avrà una chance per riabilitarsi.
Così, prima del digitale fantasmatico (dalla dissolvenza al dissolvimento), il cinema fa in tempo a saggiare la miglior tradizione delle arti rinascimentali: pittori, falegnami, costumisti, storyboard a matita e modellini in cartongesso, cercatori di luce e sceneggiatori col Martini dry contribuiscono alla creazione di mondi, alla messa in opera della verità.
Prima con Fellini, poi con Avati e Olmi, Giorgio Diritti fa in tempo ad essere garzone di bottega al tempo dell’analogico, e ancora oggi il suo cinema conserva il sapere di chi ha lavorato con le forbici e sa che la materia sfugge al fantasmatico. Autentico e inautentico entrano indissolubilmente nell’etica e nell’estetica nelle sue narrazioni: il suo Antonio Ligabue precisa litanicamente di essere un vero pittore; il pastore de Il vento fa il suo giro si scontra quotidianamente con la falsità piccolo-borghese dei compaesani; in L’uomo che verrà la retorica di regime non scalfisce minimamente le verità del mondo contadino.
Nella bottega di Pupi Avati, Diritti sviluppa un certo gusto per le storie provinciali, ma intuisce che la nostalgia moraleggiante e un’impeccabile ricostruzione dell’epoca non bastano a tappare i buchi della sceneggiatura e i vuoti dei personaggi. È da Ipotesi Cinema, la bottega d’arte di Ermanno Olmi, che Diritti impara a produrre mondi; la narrazione a quadri di vita, la morale in chiaroscuro, la validazione del dialetto: è dal retaggio olmiano che Diritti costruisce la sua resa dell’autentico.
La scelta di Diritti si compie al bivio benjaminiano: assecondare la dimensione illusionistica della nuova arte tecnologica oppure lavorare all’interno del linguaggio e della tecnica per far emergere la potenzialità critica? Abatantuono, Boldi, Roncato, adesso Pozzetto (un giorno toccherà a Checco Zalone): Avati è più capomastro che creatore di mondi; forse dimenticando che siamo il paese di Boccaccio e della divina commedia, fa il demiurgo elevando attori comici a rango di tragici. Per lui il passato è autentico per natura ontologica e dentro storie d’ambientazione è lecito istillare moralismo a piene mani. Le sue opere riuscite, come Regalo di Natale, sono invece quelle in cui smaschera con ferocia i bluff borghesi, il moralismo in primis, ma a Diritti la ferocia sta a cuore solo se si rivolge verso l’innocente, e se l’innocente è autentico. A Diritti stanno a cuore gli umili che da Manzoni a Olmi provano sentimenti e non sentimentalismi.
Quando non si possiede l’innata capacità di mettere in opera la verità, l’artefatto finisce in artificio. Se in Fellini nulla è più autentico del falso teatrale, come la laguna veneziana del Casanova in fuga dai Piombi o il dialetto creato in vitro da Zanzotto, è perché il suo cinema è salvato dall’identità heideggeriana di pensiero e poesia che consente di creare mondi. Senza questo dono, il cinema conosce solo il senso deteriore di artefatto e infatti il dialetto emiliano di Bertolucci ha il sapore posticcio dello stucco veneziano in un salotto borghese.
Nell’era della duplicazione algoritmica, il contraffatto, il replicato, il virtuale hanno un solo antidoto: le parole semplici, quelle che, scrive Saramago in L’uomo duplicato, non sanno ingannare. Olmi impiega questo dispositivo aggirando le risacche dei manierismi e navigando nelle acque profonde di un personalissimo realismo poetico. La cesura è netta: Casanova e Novecento sono del 76, il Ligabue televisivo di Nocita è del 77, l’Albero degli zoccoli del 78, Maria Zef dell’81. Nell’82 nasce Ipotesi Cinema, e Giorgio Diritti inizia il suo giro.
Foto di copertina: Il vento fa il suo giro, frame