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Flow, quando il messaggio va oltre la grafica

Il film d’animazione vincitore agli Oscar 2025, una meraviglia che punta al contenuto e che rivoluziona il genere

Di lungometraggi in CGI con protagonisti animali parlanti siamo davvero pieni. Di quei film, buoni per bambini e adulti, dai quali esci contento delle grasse risate che ti sei fatto, e che ti lasciano nella memoria solo battute, gag e un vago senso di trama che non ricordi perfettamente ma che sai che andava a finire bene. Null’altro. Flow, diretto da Gints Zilbalodis, è un’altra cosa. A cominciare dalla produzione europea franco-lettone-belga – che denota già una direzione diversa dai giganti statunitensi – e continuando con una serie di grandi e piccole aspettative di gusto hollywoodiano che vengono puntualmente disattese. Per esempio, durante tutto il film, difficilmente ti farai grasse risate. Forse qualche sorriso, questo sì. Perché quello che cerca Flow non è il facile riso né l’appagamento consolatorio, ma qualcosa di più sottile: la meraviglia.

A uno spettatore di oggi subito salta agli occhi la qualità grafica non all’altezza della nostra abitudine. Disney-Pixar e Dreamworks ci hanno riempito gli occhi e la mente di verosimiglianza fittizia, di materiali che sembra quasi di poterli toccare, di paesaggi con luci e ombre che appaiono come foto. Viviamo in una sorta di manierismo dell’immagine digitale, dove la qualità è la più stretta somiglianza materica al reale. Qui forse è dettata anche da esigenze extra-artistiche; viene però da pensare che questa grafica sub-standard ci dica qualcos’altro: la verosimiglianza non è un valore. Proviamo per esempio a pensare a un parallelismo con la storia dell’arte: la rottura causata dagli impressionisti prima e, ancor più, da espressionisti e avanguardie poi, ha ribaltato (ad oggi irreversibilmente) il modo di percepire, leggere e creare l’opera d’arte.

Flow

In ogni caso ci si abitua presto allo standard diverso, cade il muro di incredulità e si accettano le piccole inconsistenze e approssimazioni visive che vengono colmate facilmente con l’immaginazione. E la storia comincia a dipanarsi, molto linearmente. Il nostro protagonista, un agile gatto nero (senza nome, scelta non casuale poiché non ci sono parole; per una volta gli animali non sono parlanti), abituato a vagare nei boschi con il sicuro rifugio di una casa diroccata in una radura, si trova di colpo a fare i conti con l’allagamento del suo piccolo mondo. L’acqua arriva con un’onda che travolge ogni cosa e, piano piano, continua a salire. Non c’è riparo per lui, per quanto possa salire in alto: l’acqua sale, lo insegue, e solo le montagne all’orizzonte paiono sicure. Ma troppo lontane. Ecco però una barca a vela con dentro un capibara passa salvifica al momento giusto: comincia così un viaggio in questo mondo sommerso con altri animali che si aggiungono al piccolo gruppo. In realtà è un mondo sommerso soltanto a metà: la barca passa attraverso scenari a città che sembrano essersi da tempo abituati a un mondo d’acqua, ma sono vuoti, come testimonianze di altre civiltà ed ere dimenticate. È un viaggio verso l’orizzonte – verso colonne di pietra insondabili – fatto di incontri, scontri, meraviglia, che si chiuderà lasciando più interrogativi di quelli con cui era partito, ma anche donando qualcosa di inaspettato, che forse non riesce a rispondere a nessuna di quelle domande ma instilla il dubbio che le risposte non siano davvero necessarie. La strana compagnia di animali che s’incontrano sulla barca e fuori – cani, uccelli bianchi, capibara, lemuri e gatto, più un leviatano che segue e assiste come deus ex aqua – può ricordare il viaggio di Vita di Pi, ma se lì vi era un’evidenza allegorica dei simboli, qui è tutto più sfumato, ermetico.

Come le inconsistenze visive, anche quelle narrative e tematiche richiedono una partecipazione dello spettatore, che non può starsene seduto tranquillo lasciando che le immagini scorrano (flow) senza essere presente, senza esserci. Non si è mai passivi davanti a quello che succede; la mancanza di parole necessita una scelta nostra rispetto a quello che accade. Per quanto le immagini da sole abbiano grande potere esplicativo, rimane dominante l’oscuro, il misterico. L’ascesa semidivina dell’uccello bianco, cosa sta a significare? E questo leviatano decisamente più biblico che hobbesiano, ma comunque vivido, mostro non nel senso di terribilità, ma nel suo valore rivoluzionario di messaggio divino, qual è la sua origine, quale il suo scopo? Gli stessi eventi a cui assistiamo, l’inondazione, le città vuote, le montagne… cos’è accaduto? Dobbiamo coprire con l’immaginazione i buchi, senza avere aiuti o indizi, lasciandoci alle spalle tutte le spiegazioni e le parole non necessarie. Gli stessi temi trattati sono volutamente lasciati aperti. La vita di questi animali diversissimi tra loro nella barca certo ci apre una visione sul lento imparare la convivenza, e a fare i conti con un mondo che cambia. Resilienza, sì ma anche resistenza, sopravvivenza, miglioramento. Ma l’acqua che travolge tutto, perché? Da dove viene? Cos’è? È il cambiamento climatico? È diluvio biblico che lava il mondo? È simbolo della guerra? Anche l’estraneità dell’uomo a questa terra – una terra dove rimangono solo sue tracce: un disegno, rovine, palazzi antichi e nuovi comunque diroccati – cosa ci dice? Ci dice che in questo mondo leopardiano, dove solo la natura e la ginestra hanno saputo sopravvivere, l’apocalisse c’è già stata? Ci dice che questa che vediamo è solo una seconda catastrofe? Ci dice che l’uomo come entità separata dal resto non esiste e noi siamo semplicemente gli animali protagonisti?

In un libro intervista, il poeta e etnofilologo Francesco Benozzo, parlando dello scopo della poesia, ha scritto: «L’alternativa per un poeta è sempre stata quella di radicarsi ai fondali da cui anche la realtà che gli sta intorno è stata generata. Radicarsi alla realtà è cadere in un tranello». Le domande che scaturiscono da Flow ci portano in due direzioni diverse. Da una parte ci viene naturale guardare la realtà, il mondo che ci circonda – le guerre, la deriva delle relazioni sociali, il cambiamento climatico – e far confluire lì i temi che il film propone. Dall’altra però quegli stessi temi sembrano anche riferirsi a qualcosa di più impalpabile, di cui la realtà che viviamo non è che un prolungamento, un’emanazione. La nostra paura della fine, quest’escatologia ambientale e nucleare che ci accompagna nel mondo di oggi, si aggancia forse a radici più profonde, poetiche, che toccano il tema per superarlo. Flow pone quindi indirettamente un interrogativo socioculturale importante: non è che il cercare le cause dei nostri timori nei fatti che abbiamo attorno sia un’incapacità di andare anche al di sotto di quegli stessi fatti e sondare davvero le ragioni profonde (psicologiche, ma anche antropologiche e culturali) della nostra paura?

Flow

Tornando al tema visivo della grafica: anche la scelta-necessità di stare ben al di sotto degli standard grafici disneyani si potrebbe dimostrare più profonda. Certo, se si tratta di necessità – budget in primis: 3,5 milioni di euro, contro ad esempio 200 milioni di dollari del disneyano Elemental (fonte: relative pagine en.wikipedia) – verrebbe da dire che non c’è una scelta e quindi non può avere alcun significato. Ma il punto è proprio sapere capitalizzare le proprie necessità, integrando la mancanza di strumenti all’interno del proprio messaggio. Per tornare alla storia dell’arte: un Gentile da Fabriano certo non aveva una concezione umanistica della prospettiva, dei volumi, del chiaroscuro, pur vivendo nel primo periodo della grande rivoluzione culturale del Rinascimento. Ma questo non vuol dire che, pure in mancanza di strumenti, la sua arte valga meno rispetto a quella di un suo contemporaneo come poteva essere Brunelleschi. Solo un incompetente si permetterebbe di criticarlo solo perché i dipinti sono “piatti” o perché “l’anatomia è strampalata”. Quegli strumenti che non aveva per mancanza di conoscenze, o altri fattori dettati da situazioni contingenti, semplicemente non li prendeva in considerazione come valori per la propria arte. Qui lo stesso: la qualità grafica, dovuta probabilmente a una mancanza di strumenti economici, viene scientemente integrata nel messaggio. Quasi paradossalmente, la bassa qualità – soprattutto degli oggetti e dei protagonisti – ci spinge a entrare maggiormente nel mondo, portandoci a coprire con l’immaginazione i punti che mancano di chiarezza visiva. Ma è parimenti via per indicare, insieme alla mancanza di parole e spiegazioni, che c’è altro sotto la superficie. Anzi, la superficie – il rendering grafico e le textures – non sono che fumo negli occhi: bisogna prestare attenzione a ciò che sta più sotto.

Si può pensare anche a un’inversione di tendenza “autorale” per quel che riguarda la CGI, proprio come successe tra fine ‘800 e inizio ‘900 con l’entrata in scena in campo pittorico delle avanguardie: una rottura completa con i valori che fino a quel momento dominavano la scena artistica. In questo caso, con il manierismo dell’immagine grafica di cui si parlava più sopra. Del resto, il primo medium a fare seriamente i conti con la grafica al computer è stato il videogioco, e i giocatori che non si limitano alle grandi produzioni sanno bene che un gioco con grafica semplificata, anche recente, non è sintomo di un gioco scadente (anzi…). Al di là della pixel art, alimentata dalla nostalgia degli ’80 ma che ha generato meraviglie di narrazione e gameplay (come, un esempio tra tanti, Undertale), molte case di produzione indipendenti hanno fatto della semplificazione grafica il loro punto di forza, trovando una propria identità proprio nel momento in cui hanno rotto con la dominazione del realismo visivo che imperversava (e tuttora imperversa in larga misura) nelle grandi produzioni. Pensiamo ad esempio alla semplice genialità e le possibilità infinite che può regalare un gioco come Minecraft. Ma al di là dell’online, che per i giochi è quasi un mondo a sé stante, vengono in mente anche capolavori più autorali, brevi e luminosi come lampi, tra cui possiamo iscrivere i tre della Thatgamecompany: Flow (curiosa omonimia), Flower e, soprattutto, Journey. L’essenzialità grafica in questi giochi è la loro vera potenza; sono narrazioni che rimandano a simboli (anche, come nel caso di Flower, semplici fino alla banalità), a profondità da cui una complessità visiva non può che distrarre. Journey in particolare torna utile in questo frangente, proprio perché il film Flow sembra riprenderne, oltre alla semplificazione grafica, anche la tematica escatologica, la visione ciclica, e quello che è il segno distintivo delle due narrazioni: il viaggio verso l’orizzonte, verso una montagna (o colonne di pietra) che non si sa cosa sia, non si sa a che scopo, e forse si scoprirà soltanto alla fine. Ma forse no.

È difficile (non impossibile, solo arduo) trovare nelle grandi produzioni attaccate al realismo visivo la stessa potenza simbolica. Sicuramente per una questione di target: le grandi produzioni hanno necessità di fare profitto, rivolgendosi quindi a una platea il più possibile vasta, e complessità, ricerca ed ermetismo oggi non sono elementi che aiutano ad ampliare il pubblico. Ma anche perché la cura verso il realismo porta più facilmente a perdere quelle radici profonde da cui la realtà stessa scaturisce. Ecco, non rimane nulla da dire, se non che sfida tutto il disneyano parolame di cui ormai abbiamo fatto didascalica indigestione da un pezzo. Il suo silenzio è ossigeno in questo nostro panorama culturale dove nulla è lasciato al non detto e tutto deve essere necessariamente spiegabile (e spiegato). Quindi, per coatta assenza di Mistero, un panorama dove più nulla è sacro.

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