Infine le strade di Cannes si sono ripopolate di persone con il cartellino al collo. Il Festival è tornato sulla Croisette, le celebrità sfilano sul tappeto rosso, e nonostante i tendoni sotto la ruota panoramica siano adibiti ai tamponi salivari – il «festival degli sputi», si è detto – per gli undici giorni della sua durata l’ultimo anno e mezzo è stato messo da parte.
Del resto, i festival per definizione rientrano in un altro piano dell’esistenza. Le ore della giornata cessano di avere un proprio significato, e acquistano rilevanza solo in relazione al vero protagonista dell’evento: il programma. Attesissimo nei giorni precedenti, quando arriva richiede l’attivazione di ogni risorsa mentale per poter incastrare tutti gli spettacoli a cui si desidera assistere, memorizzando nel frattempo tutte le repliche per i cambi all’ultimo momento. Niente può essere scolpito nella pietra.
I ritmi serrati del festival permettono di non scadere nel sentimentale, di non crogiolarsi in pensieri ridondanti come l’amore per il cinema che ci tiene in sala per ore e ore di fila. Bisogna essere pratici, spietati e avere un fondoschiena di ferro – sia in senso letterale che figurato, perché la riuscita della propria esperienza dipende anche dai colpi di fortuna insperati, un posto che si libera all’ultimo nello spettacolo che si puntava da giorni e che era andato esaurito trenta secondi dopo l’apertura.
Arrivata verso la seconda metà del festival ho già l’occasione di orecchiare le conversazioni delle persone in coda davanti a me: quali film si possono evitare, quali sono invece imperdibili. Mi oriento tra preferenze personali e quelli che vanno assolutamente visti per cogliere lo spirito del festival. Tra di noi discutiamo su quale sia il tema dell’anno: ufficialmente non c’è, ma di volta in volta ci sono elementi comuni che emergono. Tra i tanti spunti che ci siamo scambiati davanti a un gin tonic dopo l’ultima proiezione del venerdì sera, arriviamo alla nostra quadra, alla risposta/non risposta che ci si può dare nel momento in cui per una serie di giorni ci isoliamo dal mondo esterno per entrare nel microcosmo di Cannes, dove non esistono più i pasti, e scopriamo di non essere stati gli unici a ripiegarsi in sé in questi mesi.
Molti dei titoli presentati giocano sulla metanarrativa. Annette di Leos Carax è un musical che compie un gioco di rifrazioni costante, e al centro c’è la crisi del personaggio di Adam Driver, che sta perdendo il suo pubblico. Bergman Island di Mia Hansen-Løve crea una cornice – Tim Roth e Vickie Krieps sono due registi in residenza artistica sull’isola di Fårö, dove Ingmar Bergman visse e girò molti dei suoi film – in cui si inserisce un secondo film, quello scritto dal personaggio di Krieps, che tratta invece una delle tematiche principali del cinema di Hansen-Løve, e cioè la persistenza dell’amore adolescenziale, il sentimento più pervasivo immaginabile, difficile da scrollarsi di dosso anche nell’età adulta. Il senso dell’occasione che è perduta ancora prima di essere presa in considerazione si aggiunge alla prima linea narrativa, che sembra trattare una coppia in crisi, ma i cui motivi di crisi risiedono sempre lì: nella capacità di generare arte, e nelle discrepanze che si creano tra chi riesce a produrre e chi cerca altre strade.
Julia Ducournau in Titane compie un’operazione folle, raccontando la storia di una gestazione fuori da ogni schema, dai tratti diabolici. Siamo di fronte a una gravidanza – impossibile, rivoltante, che riprende alcuni codici dell’horror – che è la manifestazione fisica più associata al processo creativo. La creatura che la protagonista di Titane deve mettere al mondo è impensabile, e Ducournau, dopo Raw, dimostra di non avere paura di niente.
Sean Baker invece concentra il proprio cinema in Red Rocket, la parabola di un attore del cinema porno che torna a vivere nella casa della moglie e della suocera, mentre si prende una sbandata per una quasi diciottenne che lavora in un negozio di ciambelle e spera di lanciarla nell’industry. Baker, regista già di Un sogno chiamato Florida, ha dimostrato di essere abilissimo nel visitare quegli angoli sperduti degli Stati Uniti dove vive la cosiddetta white trash, e in Red Rocket questa sua capacità va al servizio di una tematica che, osservando il campione Cannes, sembra essere diventata urgente: rimanere a galla, ripartire.
La domanda al centro sembra essere la stessa: come essere ancora rilevanti? Non può essere semplicemente una conseguenza della pandemia – tenendo conto che alcune delle produzioni presentate a Cannes sono precedenti, ed è stata posticipata solo la data di uscita: il presente che ora accoglie queste opere non è uno stato compatto, ma si modula in variabili infinite che accolgono sensibilità ed esperienze diverse. Non è una limitazione alla creatività, ma una sfida che può solo portare a una rinascita del mezzo.
Eppure, nel mare di nuove possibilità, in questa fase intermedia si rimane in acque conosciute, con fortuna o meno. Bruno Dumont in France prova a dipingere la fine della borghesia intellettuale francese e le ipocrisie dei mezzi di comunicazione, attraverso il non molto sottile escamotage di chiamare la protagonista, di cui seguiamo picchi e abissi, proprio France. Con una scrittura ripetitiva e talvolta fin troppo esplicativa finisce però per fare un ritratto grottesco che non crea per lo spettatore lo spazio per una critica effettiva al sistema che va a indicare.
In questo eterno ritorno a se stessi la penultima sera del festival, al Cinéma de la Plage, proiettano Il favoloso mondo di Amélie di Jean-Pierre Jeunet, arrivato al suo ventennale. Che si ami o si odi, ogni scena è diventata iconica degli anni, anche grazie alla colonna sonora composta da Yann Tiersen: dalla celebre crosta della crème brûlée ai sassi gettati dal Canale Saint-Martin, non c’è un’inquadratura che non sia riconoscibile all’istante. Se è vero che da Amélie in poi è cominciata la gentrificazione del quartiere di Montmartre, l’immaginario parigino che ha costruito è difficile da scrollarsi di dosso, e forse qui non c’è nessuna volontà di farlo.
Anche questo fa parte del festival: una nostalgia che rimane appiccicata sulla pelle, il perpetuarsi di un’idea mitica di cinema, come in The French Dispatch di Wes Anderson, dove la rivista che dà il titolo al film raccoglie tre episodi intrisi di una malinconia per un’epoca che tuttavia non rimane impigliata in nessuno dei numerosissimi personaggi. Tra omaggi a Jacques Tati, tra gli altri, e il ricordo del giornalismo che fu – esisteranno ancora le redazioni di un tempo? – Anderson si appoggia un po’ troppo alla propria estetica, che è sempre riuscitissima, passando dal bianco al nero all’animazione, ma lascia un vuoto dolceamaro dove ci si aspetta di trovare un’affezione per le storie raccontate. Vero è che l’assenza potrebbe essere a sua volta un sentimento, una perdita di contatto con il passato che rimane un bizzarro oggetto da osservare nel presente.
La penultima sera a Cannes, dopo l’inizio di Amélie sulla spiaggia e prima di confrontarci davanti ai nostri gin tonic, ci avviamo verso la Sala Debussy per la proiezione notturna di Gaspar Noé, Vortex, con Dario Argento nel ruolo di un cinefilo, o forse proprio un regista, che affronta il lento decadimento della moglie, malata di Alzheimer. Un’opera che si dipana lentamente, mentre uno split screen separa le vite parallele dei due coniugi, che entrano in comunicazione ma non possono aggirare quello spazio tra loro che crea la malattia, e che strania la percezione della quotidianità. La loro vita è un sogno dentro il sogno – ed è di cinema e sogni che scrive il personaggio di Argento: torna la stratificazione, il racconto nel racconto.
Sediamo in sala, le scarpe piene di sabbia, mentre tutti si alzano in piedi per applaudire.