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Essere nell’abbandono. Carmelo Bene e la sospensione del tragico

Il “teatro intensivo dell’attimo” di CB, nel quale l’atto incarna la fine di ogni racconto possibile, del testo, della parola e della Storia

Curioso sarebbe capire come un alcolista incallito come Carmelo Bene, di una eccentricità inarrivabile e personaggio di una sterminata e raffinatissima cultura, riuscisse a funzionare e ad avere un enorme successo all’interno dello strumento anti-beniano per eccellenza: la televisione popolare.
Attraverso la sua opera e la sua presenza-assenza televisiva, Carmelo Bene ci ha consentito di sollevare un quesito radicale: stiamo vivendo fino in fondo? Stiamo andando al fondo del nostro fare, del nostro esistere, del nostro stare? Domanda interessante. La risposta che verrebbe da dare guardandosi attorno è sicuramente negativa, e lo è perché non siamo in grado di essere sufficientemente radicali nella nostra vita. È difficile andare al fondo delle cose quando la nostra vita è continuamente interrotta. Siamo assorbiti da quel “fare e disfare” che caratterizza la quotidianità del nostro vivere, e sempre ci interrompiamo, ci distraiamo, ci spostiamo da un’altra parte e la nostra concentrazione si dirige su qualcosa d’altro, che comincia per essere poi a sua volta interrotto. La vita viene vissuta come una costante sequenza di interruzioni, e tutto sommato noi sguazziamo all’interno del nostro quotidiano fatto di frammenti, perché in realtà andare al fondo di noi stessi è definitivamente pericoloso.
György Lukács avrebbe parlato di anarchia del chiaroscuro [1], intendendo con ciò che l’uomo non vive mai in un netto cono di luce, o d’ombra, ma in uno status in cui un’intenzione interrompe un’azione. Un’unica eccezione si presenta a questo scacco matto esistenziale: quando assistiamo ad una tragedia, quando un’anima spoglia e nuda dialoga, in assoluta solitudine, con il suo nudo e altrettanto spoglio destino. Questo ci dà il teatro tragico.

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Edipo e la Sfinge, Gustave Moreau, 1864

Fra i primi personaggi che hanno fatto intendere il rischio del tragico c’è Edipo. «Vivere a caso è la cosa migliore» [2] gli dice Giocasta, che intuisce l’orizzonte oscuro del destino di Edipo e gli consiglia di continuare a vivere nella molteplicità delle azioni e delle interruzioni che inondano e caratterizzano il nostro vivere la vita, senza voler indagare l’abisso, perché ciò che Edipo desidera, convinto di avere un destino così come l’oracolo gli ha rivelato, è il suo trauma originario. Edipo non sente però ragioni, non ascolta Giocasta, e volendo andare al fondo di sé stesso compie la sua verità, si auto-rivela: diventa un mostro, diventa sposo della propria madre, diventa fratello dei suoi stessi figli, diventa qualcuno che non sottostà più al criterio della misura, al punto che Sofocle lo definisce «uguale al dio e uguale al nulla»[3], segni distintivi di chi non rispetta nessun codice, nessuna legge. Questa è la realizzazione di chi ha voluto la verità e il disvelarsi del proprio destino. È la fine del mondo.

Edipo è, in questo senso, il compimento dell’impoliticità assoluta. Edipo non appartiene alla pòlis perché la sua mostruosità lo emargina, lo isola, lo fa essere un corpo estraneo e cancerogeno, senza alcun valore ordinante. La pòlis invece ha bisogno del cittadino, ha bisogno della misura, di chi non può scoprire il proprio destino e la propria verità. E questo lo delinea molto bene Platone, che nella Repubblica muove la prima condanna dell’arte tragica della storia del pensiero occidentale, in quanto la tragedia parla alla nostra passionalità e non alla nostra razionalità, parla alle nostre pulsioni e non all’èthos, non al lògos, rischiando di trascinarci nel pàthos. È evidente qui che Platone sta facendo un discorso politico: l’arte rischia di far franare le coscienze non educate, può turlupinare e smuovere chi è debole nella ragione – i bambini, gli stolti, gli sciocchi, i folli –, quindi l’arte ha in sé il pericolo della vanificazione di quello sforzo razionalistico messo in piedi nella Repubblica, dove non c’è religione, non ci sono sofismi, non c’è quel tragico che farebbe riemergere passioni e pulsioni profonde nell’uomo. L’arte tragica dunque va castrata, va repressa, va soffocata, perché è uno strumento che agisce sull’irrazionalità dell’uomo e smuove quel fondo che lo Stato non vuole vedere rappresentato, in quanto metterebbe in discussione il potere e l’ordine razionale e misurato delle cose.

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Raffaello Sanzio, Scuola di Atene (particolare con Platone e Aristotele), Milano in Ambrosiana dal 1610 ©Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Mondadori Portfolio

E tuttavia la società ha bisogno di teatro. Proviamo a sviluppare questo ragionamento sillogistico: l’uomo è certamente, come dice Aristotele, un animale sociale che necessita della pòlis, ma la pòlis ha bisogno del teatro, perché è attorno al teatro che si costituisce la società; e il teatro, in quanto tale, ha bisogno di un racconto, di una narrazione che a sua volta – e si chiude il cerchio – plasma l’uomo. L’uomo necessita di un racconto, ha bisogno di raccontarsi, ha bisogno di quello strumento politico essenziale che è il racconto, la parola, che lo rende un buon cittadino.
«Si chiamano drammi perché imitano persone che agiscono» [4] dice Aristotele. Dunque il teatro tragico si muove attorno alla sua capacità di narrare, ed è in grado di generare nel cittadino che assiste alla sua rappresentazione quella coerenza d’azione e di parola che appartiene al racconto teatrale. Ecco perché gli ateniesi adorano il teatro, perché lì vedono il paradigma di ciò che vorrebbero e dovrebbero essere: i buoni cittadini che imparano a dialogare, a parlare bene e coerentemente, con misura, rigenerati da un processo catartico che centrifuga le passioni e li migliora: siamo all’opposto dell’invito giocastiano del “vivere a caso”.

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Amleto, Carmelo Bene

Il Novecento, da Antonin Artaud a Carmelo Bene, terremota tutta questa concezione del teatro. Artaud per primo calpesta il teatro borghese del cittadino per inaugurare il teatro dei corpi straziati e delle passioni, il teatro che vuole farla finita con le parole per mettere insieme i corpi frammentati, i quali abbandonano il teatro della composizione delle parole, del racconto, della narrazione logica e dialogica, per approdare al teatro della lacerazione del corpo. Carmelo Bene invece va oltre, opponendo al teatro della tradizione europea non il corpo in pezzi, ma l’atto, concetto espresso con il massimo rigore teorico e concettuale all’Uno contro tutti del 1995 di Maurizio Costanzo:

«Il tempo non esiste, ma gli stoici avevano trovato un tempo, l’aiòn, che dovrebbe essere
l’immediato, ma è un immediato svanire. […] Io cercai di dare spettacolo di un teatro
irrappresentabile, dal camerino addirittura, non volli mai provare, non presi mai parte.
[…] Dovevo sempre essere in ritardo, e i ritardi dovevano sempre aumentare, su un
signore, un rumorista – Mario Contini – che rompeva delle cose, provocava dei danni,
amplificatissimi (il chiasso del pentolame storico) in questa specie di disastrata fucina, o
cucina, in questo strepitio di padellame che è la storia. E mi toccava stargli dietro, non
coincidendo mai, per allargare via via gli intervalli, e questo mi impediva di pensare, di
pensare ad immedesimarmi in qualcosa, di pensare dov’ero, di pensare chi fossi. “Non
c’era il tempo”, a caso come la vita, a caso come l’autorità di un artefice nell’atto e non
nella sua azione.
Senza il soccorso del tempo aiòn contro il tempo chrònos non sarei arrivato a dissociare i
suoni. Lorenzaccio è prevenuto sempre dal proprio agire, da un se stesso, è disilluso
sempre dal progettare qualcosa che poi troverà già fatto, compreso l’assassinio di
Alessandro suo cugino, duca mediceo assassinato… ma assassinato da chi? Non certo da
Lorenzaccio» [5].

Carmelo Bene ha voluto qui esprimere la necessità di farla finita con la dialettica, con il dialogo teatrale, con il racconto di una storia, perché questi rimanderebbero sempre alla necessità di un “dover essere”. E al racconto dialogico si sostituisce l’ascoltarsi, che è il gesto anti-dialettico per eccellenza, dato che sempre, quando si ascolta, si ascolta qualcun altro, non noi stessi. Occorre giungere ad un atto che coincide con un ascoltarsi e con un vedersi, con quella che è definibile come una sospensione che la tragedia è in grado di compiere, a partire proprio da una cancellazione del dialogo – e infatti la maggior parte delle opere di Bene sono dei lunghi monologhi con un’unica macchina attoriale [6] in scena che fa tutte le parti, come nel Pinocchio. Il teatro beniano va inteso come il massimo tentativo di concepire questo paradosso: quello di un teatro dell’unicità, dove non è ammessa la pluralità delle volontà, dei soggetti e degli oggetti, dei personaggi, dei dialoghi, un teatro intestimoniabile dove le parti non esistono e tutto è riunito in un fascio di voce modulante che è la macchina attoriale, che è Carmelo Bene; e allo stesso tempo un teatro che restituisce un pluriverso fatto di infiniti dardi [7] che attraversano quella stessa macchina attoriale. Ma come si spiega questa apparente contraddizione? La pluralità viene ammessa in quanto condizione prima del non-più-soggetto che, non essendo più un uno cristallizzato, è un continuo susseguirsi di pluralità che mai si fissano, generando quindi un teatro che è al contempo uno e multiplo nell’impossibilità di stabilire un uno.

Tutto è monologico e non monodico, tutto è un uno molteplice, tutto è impolitico, tutto è anti-storicistico e molto nietzschiano. C’è una sola fonè possibile, un’unica voce onnivora che fagocita tutto, dove non c’è alcun socratismo maieutico “a due”, non c’è alcun platonismo, nessun teatro delle parti. L’unica voce si piega in tutte le intonazioni e inclinazioni possibili, ma che escono e sono riconducibili ad un unico sangue. Un gesto, una pausa, un alzare o abbassare il tono, un amplificare [8], un tendere e modulare la voce quasi impossibile da replicare, per cui occorre esserne dotati da sempre: questa è la fonè che consente di fare a meno dell’azione, della dialettica, della misura, del progresso, dell’incontro, del riconoscimento e della mediazione. Tutto viene sospeso senza poter lasciare spazio ad una trama degli eventi che possa essere recitata: non c’è quindi alcuna possibilità di ripetizione, di progettazione dell’intreccio, di significazione, in definitiva non c’è alcuna mente razionale e non c’è alcun soggetto drammatico che agisce o patisce subendo.

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Otello, Carmelo Bene

Difficile è tentare di spiegare a parole questa volontà di insistere sul problema, irrisolto e irrisolvibile, del tragico, della voce e della vita. Il teatro di Carmelo Bene, che recupera in questo la teoria nietzschiana sul teatro greco, è un teatro dell’accadere senza la parola, la quale è sempre generatrice di mondi, è sempre un ventre gravido di significati, è sempre l’inizio delle cose. E come possiamo comprendere cosa sia un teatro dell’accadere se non c’è spirito, non c’è corpo, non c’è dialogo, non c’è azione, non c’è passione e non c’è una trama storica? Cosa rimane? Rimane la sospensione del tragico, rimane uno spazio libero per l’evento, rimane l’atto di Lorenzino de’ Medici che traccia una via di fuga dal grande bordello della storia, dall’azione e dal progetto, che inscatolano ognuno di noi nella grande catena di montaggio che è la nostra vita, da quando apriamo gli occhi la mattina a quando li chiudiamo la sera.

Lorenzino de’ Medici è un nipote disgraziato del Magnifico, facente parte del ramo cadetto della famiglia granducale, un nobile cialtrone e vitellone della Firenze di inizio XVI secolo, un emarginato della classe aristocratica scelto da Bene per compiere una rivoluzione, che mai sarebbe potuta venire dalla schiuma della società, interessata solo ad uscire dalla condizione di feccia o a creare una nuova etica, e quindi una nuova storia – come Bene dice dei cesaricidi. Lorenzino era cugino del duca Alessandro de’ Medici, detto “il negrone di Firenze”, e nipote di quel papa, Clemente VII, che aveva commissionato a Michelangelo di affrescare la Sistina. Lorenzino, che viveva presso la corte dello zio a Roma, ad un certo punto, emulando Alcibiade e per ragioni mai chiarite del tutto, decide di decapitare le statue dell’arco di Costantino. Lasciata Roma per evidenti ragioni se ne va a svolgere la nobile professione del ruffiano presso la corte del cugino Alessandro, figlio illegittimo del papa e duca mediceo di Firenze, con l’intento però di eliminarlo. La voce, che inizia a circolare fra gli ambienti repubblicani, fa erroneamente scambiare Lorenzino per un democratico; ma l’intento sfugge ai tentacoli della razionalità politica, non si può banalmente e stupidamente inscrivere in un fine civile e politico.

«Nel momento di uccidere il tiranno bisogna sospendere l’azione, cioè essere
nell’abbandono, bisogna dimenticarsi del medesimo. […] Il gesto è l’atto, ma nel gesto
Lorenzino non era, non c’era, si era esentato, si era assentato da se stesso per potere
contravvenire all’azione, per realizzarla de-realizzandola così a pieno, cioè a vuoto» [9].

Il gesto di Lorenzino è quindi o-sceno, è un qualcosa che non si fa imbrigliare in alcun significato, in alcuna storia, in alcuna logica etica, civile, sovversiva o rivoluzionaria, è un accadimento che sta fuori dalla trama e dalle trame, che sta fuori dalla scena e dall’azione e che si getta nell’abbandono. È un assassinio che non può essere rappresentato, quasi ambiguo, senza un prima e senza un dopo, senza alcun soggetto, dove – negli appunti di Bene – alla fine della rappresentazione lo spettatore non dovrebbe essere in grado di distinguere se Lorenzino, solo in scena nell’atto di agitare in aria un tagliacarte, sia uno dei congiurati oppure il duca Alessandro che cerca di difendersi dai coltelli dei suoi carnefici.  

E chi è Lorenzino allora? È un congiurato o è Cesare? Non è né l’uno né l’altro, perché sta sia nell’uno che nell’altro, perché è appunto un gesto che si ascolta e si vede, che si abbraccia, è un buco in cui precipitano entrambi i ruoli, è un gesto al di là delle parti, al di là dei ruoli. Questo è un atto, è ciò che non ha precedenti, è un evento senza precursori e senza eredi – è l’agitare il tagliacarte – è un fluire, una sorta di insieme disorganico di quanti, dove Carmelo Bene imita, vanificandoli e rendendoli acefali, i gesti mimetici, naturali e coerenti del rumorista Contini. La macchina attoriale fa quindi sorgere un gesto dal nulla, lo dilata intensivamente (e non estensivamente) e lo fa riprecipitare nel nulla [10], al di fuori di ogni coerenza, e tuttavia la consistenza del gesto viene guadagnata proprio nell’essere un nulla, nell’essere una sospensione.

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Lorenzaccio, Carmelo Bene

Ed ecco come Carmelo Bene arriva a legare l’o-scenità al concetto di porno in quanto au delà del desiderio, in quanto superamento della voglia e raggiungimento dell’uno. Se è vero che l’osceno è l’abbandono, il superamento della dialettica soggetto-oggetto e quindi di ogni io-autore, questo si riferisce al superamento della volontà e non alla sospensione dell’azione. L’impossibilità di Lorenzino di essere autore dell’azione deriva dall’impossibilità di legare l’atto all’azione, in quanto l’autore dell’atto deve esautorarsi e cadere nell’oblio per compiere quell’atto stesso, proprio perché quest’ultimo è, di per sé e definitivamente, impensabile. Siamo giunti al mistico, cioè all’informe, al buio, a ciò che sta al di là di ogni modo.

Ci troviamo alla presenza di un teatro intensivo dell’attimo, di un teatro fatto di espressioni cancellate, di copioni irrilevanti, di interruzioni ritardanti, di assenza di desiderio e di aspettative, di una volontà di far svanire la rappresentazione scenica nella sua coerenza per insistere sull’o-scenico, appunto, sulla sospensione del tragico, sull’eterna morte del teatro che quindi non cessa di morire e che fa permanere solo una pura sensazione, dove non ci sono più un soggetto e un oggetto, ma dove – come avrebbe detto Fichte – il soggetto è l’oggetto, dove lo spettatore è la sensazione stessa, dove c’è un io puro senza mondo che è nell’evento, è nell’aiòn, è altrove rispetto alla storia e al suo tempo.


[1] G. Lukàcs, L’anima e le forme, 1911.

[2] Sofocle, Edipo re, V sec. a. C.

[3] Ibidem.

[4] Aristotele, Poetica, IV sec. a.C.

[5] C. Bene, Uno contro tutti (trasmissione di Maurizio Costanzo), 1995.

[6] «Che cos’è una macchina attoriale? Innanzitutto deve essere amplificata, ma l’amplificazione non deve essere un ingrandimento. Teatro è tutto ciò che non si comprende, deve i contorni svaniscono – fa l’esempio dell’avvicinare progressivamente un foglio verso gli occhi. (Io) ho bisogno sempre di leggere, di esser detto, non di ri-ferire la cosa, non di recitare. Il teatro è nell’atto, nell’immediato svanire, la presenza è al tempo stesso assenza, questo è il superamento del grande attore. Non è agire, ma agere, cioè “essere detti oralmente”. La lettura (mi) serve non per ricordare ma per dimenticare: la lettura come oblio, come non ricordo, dove si è in balia dei significanti, dove lo spettatore deve abbandonarsi all’ascolto dell’occhio e dell’orecchio», Carmelo Bene macchina attoriale, intervista per Rai due, in https://www.youtube.com/watch?v=Pkh6hd5vkm8

[7] C. Bene, Uno contro tutti (trasmissione di Maurizio Costanzo), 1995.

[8] L’amplificazione è una delle coltellate più profonde e laceranti che Carmelo Bene affonda sulla tela del teatro europeo. Durante Uno contro tutti del 1994, Bene spiega ad Aroldo Tieri che il microfono non è una protesi scenica in quanto non è strumento di amplificazione, bensì strumento di riduzione, di svuotamento dell’io dell’attore che permette l’abrogazione del soggetto.

[9] C. Bene, Uno contro tutti (trasmissione di Maurizio Costanzo), 1995.

[10] Sempre nell’Uno contro tutti del 1995 Carmelo Bene spiega questo concetto sostenendo che si tratterebbe di pensare all’avvicinarsi di un foglio bianco verso il volto, fino a quando gli occhi, non vedendo più nulla, non riuscirebbero a distinguere né il foglio né nient’altro: ecco il buio.

* un ringraziamento all’amico e collega prof. Federico Beltrame per i preziosi consigli.

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