/me·lo·dràm·ma/
sostantivo maschile
Dramma teatrale cantato con accompagnamento strumentale (oggi com. opera o opera lirica).
Da melodramma, che indulge a una ridicola teatralità negli atteggiamenti.
“personaggio da m.”
Cadere nel melodramma, nel patetico o nel ridicolo.
Ai detrattori che accusano The Whale di Darren Aronofsky di essere “melodrammatico” bisognerebbe far leggere un paio di testi. In primis L’immaginazione melodrammatica (1976 – traduzione italiana 1985) di Peter Brooks: saggio seminale all’interno del quale l’autore inglese sostiene che il melodramma, facendo riferimento al termine come «categoria critica non valutativa», è una modalità espressiva cruciale nella letteratura moderna. In secondo luogo ci aiuterebbero Luca Aimeri e Giampiero Frasca, i quali nel più recente Manuale dei generi cinematografici. Hollywood: dalle origini a oggi (2002) hanno sentito il bisogno di specificare che si tratta di «un ben definito complesso di procedure e sfumature del significato che riconducono esplicitamente a tutta una serie di situazioni narrative e discorsive fondate sul concetto di eccesso». Ne scaturirebbero una serie di dibattiti più o meno interessanti riguardo l’eredità estetica dell’immaginario spettacolare popolare.
In nessuno dei due casi, comunque, tale aggettivazione o denominazione si connotava negativamente. Il che la dice lunga sull’instabilità di certa terminologia ma anche sulla incompetenza con cui oggi si tende a fare critica cinematografica al pari dell’opinionismo televisivo. Con melodrammatico perciò si intende tutto ciò che è retoricamente esplicito, espresso, esposto. Da un certo punto di vista anche un funerale, per quanto composto e dignitoso, potrebbe essere definito tale. Qualsiasi rito sociale, in fondo, ha a che fare con la condivisione di un’intimità altrimenti sottaciuta in pubblico. Il cinema e il teatro, in quanto eventi rituali, non sono da meno. Potremmo quasi dire che il concetto stesso di “messa in scena” nasca dall’idea sì di portare un conflitto su un palcoscenico, ma soprattutto di portare alla luce – persino dare voce a – una storia. E quale miglior mezzo del Meodramma – da melos (canto) e drama (rappresentazione) – per rivelare l’inconosciuto?
Tutta questa premessa per togliere ogni scoria di preconcetto dall’impianto drammaturgico, preminentemente orientato alla progressiva intensificazione del dramma emotivo, che caratterizza The Whale. Sì, perché così era costruito il testo di partenza e tale l’ha mantenuto il regista statunitense. Non c’è alcun tentativo di dare dinamicità alla situazione. Anche di fronte alla ricerca di diversi piani di ripresa all’interno della tana abitata da Charlie (un incredibile Brendan Fraser, rilanciato nel business da Aronofsky come accadde a Mickey Rourke per The Wrestler), evidentemente impossibili in un teatro, si ha spesso una sensazione di immobilità pressoché identica a quella del protagonista. Siamo tutti in trappola con lui in quell’appartamento, nella sua disperazione. Un uomo di 300 chili, “disgustoso” per sua stessa ammissione, e arreso alla propria situazione. E nelle due ore di film lo affianchiamo (quasi) sempre nel tormento che si autoinfligge.
Lo vediamo masturbarsi, dare lezioni di letteratura inglese on line con videocamera spenta, strafogarsi di cibo. Poi ansimare, vomitare, e in generale soffrire al solo tentativo di spostare quella mole di peso. Nemmeno le cure della leale amica Liz (Hong Chau) – che poi si scoprirà avere un ruolo ben più rilevante – o il ritrovato rapporto con la figlia adolescente Ellie (Sadie Sink) potranno smuovere fisicamente e moralmente Charlie dalla sua decisione di lasciarsi andare verso la fine. Un’eternità che egli stesso spera essere oblio così che il compagno Alan, morto suicida tempo prima, non possa vederlo ridotto in quello stato. Non c’è quindi speranza di perfezione nemmeno in un ipotetico mondo ultraterreno. Aronofsky conferma ed esaspera il suo discorso sul conflitto fra anima e corpo ma cinicamente esclude che esso possa risolversi grazie alle promesse della religione. Anzi, dietro la tragedia ci sarebbe persino l’attività di una losca setta chiamata New Life.
Gli unici elementi di evasione da quello spazio sono i due punti di fuga, la finestra tramite la quale Charlie dà da mangiare agli uccelli e la porta dalla quale entrano ed escono gli altri personaggi, il ricordo di un giorno sulla spiaggia con una piccolissima Ellie, e una misteriosa stanza che per buona parte della pellicola rimane chiusa a chiave. A tal proposito è bene ricordare come una volta nelle abitazioni delle famiglie ebree dell’Europa orientale vi si potesse trovare la cosiddetta “stanza del caos”, ovvero un luogo in cui lasciare che il disordine imperasse nelle case e portasse l’equilibrio nelle loro vite. È bene rammentare anche come Aronofsky in gioventù si sia recato a Gerusalemme per seguire le proprie origini ebraiche e abbia compiuto studi biblici da autodidatta. L’ennesima dimostrazione che The Whale è sì un’opera estrema, se si vuole melodrammatica, ma soprattutto si tratti dell’ennesima tappa nell’affascinante e coerentissimo percorso di un autore fuori dagli schemi.
Immagine di copertina e nel testo: The Whale, di Darren Aronofsky