Quando è stato presentato in concorso al festival di Cannes 2021, Benedetta è stato accolto in modo molto contraddittorio, tra entusiasmi della critica militante e risate o sberleffi di una parte più conservatrice. Non ci stupisce, un po’ per la fama del regista Paul Verhoeven provocatore indefesso e proprio per questo capace di dividere (basti pensare a come Showgirls è stato accolto prima e rivalutato poi) come pochi altri contemporanei, un po’ perché il contenuto del suo film più recente è pensato appositamente per generare scompiglio in chi guarda. E forse proprio per questo, in Italia è ancora inedito (e anche la sua distribuzione sarebbe troppo costosa in base alle previsioni di incasso).
Il film è tratto da Atti impuri – Vita di una monaca lesbica nell’Italia del Rinascimento, libro di Judith C. Brown (ES) che racconta la vita e le vicende di Benedetta Carlini (interpretata da Virginie Efira), una mistica del XVII secolo che nel convento di Pescia in Toscana si fa suora, conquista il rispetto delle suore e la venerazione del popolo, ma anche il cuore e le grazie di Bartolomea (Daphne Patakia), una giovane monaca con cui si lasciano andare al piacere. Ovvio che le voci girino e che il potere religioso voglia scongiurare la diffusione di uno scandalo e di una pratica tra le suore: scatta così una lotta di potere tra Benedetta, l’ex-badessa (Charlotte Rampling) e il nunzio (Lambert Wilson).
Verhoeven, che qui scrive anche la sceneggiatura con David Birke, non ha mai avuto la mano leggera, non si è mai tirato indietro di fronte a sesso e violenza, basti pensare all’evirazione di Il quarto uomo (progenitore di Basic Instinct) o il tripudio grandguignolesco alla base di L’amore e il sangue. Il sangue e la religione sono sempre stati alla base degli interessi d’autore del regista olandese e quindi, chiaramente, un soggetto come quello di Benedetta si dimostra perfetto per continuare una riflessione portata avanti fin dagli inizi della sua carriera negli anni Settanta. La religione come confine e carcere del corpo e del pensiero, il sesso come liberazione, il corpo di Cecil B. DeMille e dei suoi kolossal e lo spirito sensuale di Ken Russell che con i suoi Diavoli sconvolse e scandalizzò il mondo cinquant’anni fa; non è però più tempo di ideologia, Verhoeven lo sa da un bel po’, da quando ha messo piede in America e con l’ideologia hollywoodiana ha fatto i conti, arrivando a far rizzare i capelli in testa alla sinistra di mezzo mondo con l’ambiguità del suo Black Book. Per cui Benedetta non è per nulla assimilabile a una mera lotta tra oppressione ed emancipazione (femminile e sessuale), ma parte dal godimento e dall’orgasmo di una donna, suora e lesbica per farne un discorso sul potere del corpo e della fede, potere spirituale certo, ma anche secolare e politico, in cui la gestione dell’ordine e del comando è una questione (anche) di generi, di sessi, di modi più o meno leciti di mantenere il controllo sull’altro, e usare il proprio fisico e gli organi genitali o i simboli della religione è la stessa cosa – letteralmente, visto che Benedetta e Bartolomea usano una statuetta votiva della Madonna adattata a giocattolo di piacere (ed è uno dei motivi per cui da Singapore agli Usa il film è stato bandito oppure vittima di attacchi dei movimenti religiosi).
Questa equiparazione rende decisamente più ambigua e sfumata – e quindi intellettualmente stimolante – la descrizione dei personaggi e del conflitto in atto, rendendo la questione politica del controllo sul e del corpo un viatico per la gestione delle masse e dei loro pensieri, elemento di cui anche la protagonista è consapevole, gestrice e vittima del potere al tempo stesso, manipolatrice e santa, capace di estasi totali ma anche di ricatti subdoli al suo popolo, usandolo per la sua salvezza: Benedetta è una politica e leader contemporanea rispetto al modo in cui il Nunzio esercita le sue influenze e questa idea di scrittura fa del film una decostruzione delle fede stessa che diventa idolatria, forza dell’immagine, anche subdola, come può esserlo il cinema. È a quell’immagine che Verhoeven si vota ed è un’immagine direttamente greve, kitsch, sfacciata nei suoi riferimenti iconografici: se vuoi smontare un costrutto radicato nei secoli e nelle culture la raffinatezza e l’accademia serviranno a poco, sarà molto più efficace l’exploitation, il genere nella sua componente più selvaggia e maleducata.
E allora Benedetta, giustamente, sceglie la via del romanzo d’appendice, lascia libero il suo cattivo gusto per sbeffeggiare un’intera iconografia (la scena incredibilmente trash di Gesù che salva Benedetta dai serpenti), cerca l’artificio e l’esagerazione per mostrare la fede proprio come iperbole e mistificazione del pensiero. Al netto delle motivazioni concettuali, le scelte di Verhoeven fanno del film un’opera libera, sfrontata, divertente nella misura in cui si coglie l’inclinazione come sempre ironica e beffarda del suo autore: fiero del proprio pensiero sempre a rischio fraintendimento. Fascista, misogino, reazionario o blasfemo, sono alcuni degli aggettivi che accompagnano i suoi film: o semplicemente provocatore fertile che pone quesiti e dubbi le cui risposte sono problematiche, svelano la complessità e l’oscenità del mondo. Facendolo però si diverte molto e Benedetta, tra la parabola e il romanzetto sconcio, appassiona con il senso acceso della serie B (o inferiore) e il lucido acume di un pensatore. Scomodo, magari, ma meglio così.