Essere morti dev’essere una noia mortale e terribilmente faticoso. Così come accudirli, questi morti. O, meglio, in un ribaltamento continuo di piani, nel contenere i morti per accudire i vivi, per mantenere viva una speranza di compiutezza e, dunque, salvezza.
Sono passati trent’anni dall’uscita di Dellamorte Dellamore di Michele Soavi, tratto dall’omonimo romanzo di Tiziano Sclavi: la vita che continua a morire, la morte che continua a tornare. Non eravamo pronti, allora. Non siamo, probabilmente, pronti nemmeno oggi, nel mezzo di un rigurgito di ricordi e relitti degli anni Novanta, ultimi arrivati dopo le precedenti decadi eppure sempre uguali, di nuovo qui al solo scopo di smuovere animi e coscienze di spettatori e consumatori con un unico, solito, incessante obiettivo e cioè quello di vendere. Se è vero che il riparo nostalgico rappresenta un’apparente salvezza laddove la fiducia nel futuro è venuta meno, Dellamorte Dellamore, già allora, dava una forma a come dal nostro impasto di monotonia e quotidianità fosse impossibile evadere, prigionieri tra un eterno pendolare di noia e lavoro, dove, appunto, né la morte, né l’amore potevano – possono – farci molto. Alla fine, la vita è una cosa passeggera, è che, qui, non passa. Eccoli, allora, i ritornanti: «Io li chiamo ritornanti, anche se non capisco perché abbiano tanta voglia di ritornare». Eccolo Francesco Dellamorte che non si capacita del perché, una volta liberati dalla vita, ci siano ancora esseri spinti da una necessità o volontà di ritorno a cui il film, come il romanzo, come la vita, non dà alcuna spiegazione. Eccolo Francesco Dellamorte, dopo trent’anni, tornare, a sua volta, come il seguito perfetto di un finale che pianta i suoi chiodi nei palmi dei protagonisti, nei palmi di tutti quanti: un continuo reincarnarsi in un destino sempre uguale, sempre sbagliato, sempre indecifrabile. Sempre: come scrive Pirandello in Uno, nessuno e centomila: «Ogni cosa finché dura porta con sé la pena della sua forma, la pena d’esser così e di non poter essere più altrimenti».
L’orrore, in Dellamorte Dellamore, c’è. Forse non nella rappresentazione più grottesca che gotica, non nei testi e sottotesti più surreali e mai gravi, forse nemmeno nell’umorismo nero che soffonde l’opera di sclavismo supremo. L’orrore è altrove, l’orrore è ovunque. Nel continuo fare di ognuno «quello che [si] può per non pensare alla vita»: Gnaghi innamorato delle foglie morte e delle teste mozzate, il sindaco Scanarotti pronto a qualsiasi spunto per la propria campagna elettorale, il commissario Straniero volontariamente incapace di chiudere anche i casi già risolti perché altrimenti poi che rimane, i teppisti e le moto, gli scout e la religione, Francesco Dellamorte e l’amore. Francesco Dellamorte e, in realtà, la paura.
La paura delle cose che si dicono e si fanno sempre uguali, la signorina Chiaromondo che lo chiama, instancabile, “ragioniere”, lui che risponde che non è ragioniere, in eterno. La paura del tormento della ripetizione, dell’assenza di un definitivo, che non arriverà mai. Francesco Dellamorte, come un trevisaniano Thomas «continuamente […] è disturbato» (Vitaliano Trevisan, I quindicimila passi, Einaudi), costretto a uccidere morti che ritornano, forse più nella speranza di salvare se stesso, di riconoscere una luce di finito, ma, anche questa, è diventata routine su cui non interrogarsi se non per brevi attimi («Succede solo a Buffalora, o anche nel resto del mondo?») per poi concludere che «chi se ne frega, in fondo io faccio il mio lavoro e basta». Quanto è dissimile questa condizione da quella descritta di Bianciardi, esule in una “città della non vita” (Oreste Del Buono in L. Bianciardi, Aprire il fuoco, Rizzoli, 1976), quanto è diversa dall’alienazione che proviamo tutt’oggi, a trent’anni di distanza, e che chissà ancora per quanto sarà, purtroppo, attuale?
Nemmeno l’amore, che mai tale si rivela, riesce a rappresentare un poco di salvezza per il protagonista: anche lì si rintana la paura: «Ci andrei per paura. E per poi riprovare la paura della prima volta. Sempre per paura» ed ecco, di nuovo, svanire ogni via d’uscita.
L’orrore, in Dellamorte Dellamore, siamo noi, quelli di oggi, gli stessi di trent’anni fa, con le nostre vite un po’ invecchiate, ma mai cambiate veramente.
Sono pochi, pochissimi, gli alleati di quello che sarà, dopo non troppo tempo dall’uscita nelle sale, il futuro Dylan Dog. Di sicuro non la morte, con cui intrattiene discorsi a senso unico e che non sembra troppo capace di fare quel che da lei ci si aspetterebbe, piuttosto un amico d’infanzia, Franco, di cui il protagonista si domanda se moglie e figlia esistano davvero, un amico così tanto senza scopo nella vita, così tanto tumulato dentro faldoni e burocrazia da far venire il dubbio se non sia più morto di chiunque altro, da giungere due volte in aiuto nei confronti del becchino: la prima compilando improbabili moduli M-3 che lo stesso protagonista prontamente disconoscerà e distruggerà, la seconda appropriandosi dei suoi delitti, lasciandolo libero, ancora una volta, di vivere una vita che, per lui, ha perso ogni significato, forse, non l’ha mai avuto.
Ma è l’assistente, Gnaghi, l’unico compagno immerso nella sua stessa realtà con la medesima naturalezza e assenza di straniamento, la reale realizzazione di un’opera costruita sul doppio, su una moneta dove ciascuna faccia è quella che perde. Gnaghi, inabile al parlare, ma capace di armonizzare in modi sempre diversi lo stesso suono “gna”, tanto da risultare più espressivo di chiunque altro. Gnaghi, inetto sociale, eppure il più compiuto tra i personaggi. Gnaghi rappresentante della crisi della narrazione e Dellamorte costretto alla sagacia senza essere compreso, peggio, nemmeno ascoltato. Gnaghi ricambiato da una testa ritornata senza corpo, Dellamorte condannato per tre volte a non essere mai amato. Mi ricorda, questa coppia sbagliata, una visione distorta de Il cavaliere inesistente (Italo Calvino, Einaudi): Dellamorte, Agilulfo e cavaliere a modo suo contro ritornanti di cui nessuno si è mai accorto, inesistente come tutti, con, al posto della forza di volontà, un’inestinguibile consuetudine al rimanere vivo nonostante tutto e Gnaghi, il suo opposto, come lo scudiero Gurdulù, ma più che privo di coscienza, molto consapevole, solo abitante una dimensione altra e, forse, salva. Eppure, la crisi d’identità rimane la stessa calviniana, tanto che, se fosse un poco più serio, lo vedrei Francesco Dellamorte dire a chi ha appena seppellito: «O, morto, tu hai quello che io mai ebbi né avrò: questa carcassa. Ossia, non l’hai, tu sei questa carcassa, cioè quello che talvolta mi sorprendo ad invidiare agli uomini esistenti» (I. Calvino, Il cavaliere inesistente, Einaudi, 1959).
Il Francesco Dellamorte di Sclavi è solo in un mondo di morti – morti viventi, vivi morenti, poca è la differenza – così come il Thomas di Trevisan lo è in un mondo di monchi, ognuno a mutilarsi l’anima come si può, sempre per riscoprirsi interi, per ritrovarsi, sfortunatamente, vivi: entrambi ci raccontano qualcosa di noi, noi che non siamo evidentemente in grado di essere, poi, così diversi. Noi che non abbiamo la lucidità di Gnaghi nella scena finale, Gnaghi che sa che una casa esiste e che è lì che è giusto tornare.
Chissà se questo ritorno nelle sale non sia, in realtà, il sequel perfetto, quello che non ci meritavamo, quello che, forse, di nuovo, non capiremo abbastanza.
In copertina: frame tratto da Dellamorte Dellamore, 1994