Per molti registi la componente musicale può risultare secondaria: in alcuni loro lavori giunge in seguito, valorizzando scelte pre-esistenti nell’uso della macchina da presa. In quei casi le melodie diventano un “di più”, un fiocco utile a perfezionare un pacchetto già autoportante. Questo però non accade per le opere di Damien Chazelle, che con le sue doti ha sorpreso Hollywood e il mondo intero al punto da diventare nel 2017, a soli trentadue anni, il più giovane vincitore nella storia dell’Oscar alla miglior regia.
Il suo è un cinema di contrappunti, ritmica e melodie, in cui la musica assume tanto un valore narrativo quanto tecnico, sfociando nell’approccio con cui egli stesso si rivolge alla macchina da presa prima e al montaggio poi. Gli indizi di questa interconnessione con la sfera sonora si ritrovano anche nel suo vissuto. Prima di frequentare il corso di Studi Visivi all’Università di Harvard, infatti, ambizione di Chazelle era quella di diventare un batterista jazz. Non riuscendo a farne un mestiere, quella passione viscerale è confluita in modo massiccio nel suo approccio al cinema. In questo, gioca un ruolo fondamentale la collaborazione con il compositore – nonché coinquilino ai tempi di Harvard – Justin Hurwitz, che prenderà parte a tutti i suoi progetti. Le colonne sonore che nel corso degli anni Hurwitz scrive per l’amico sono febbricitanti e distintive. Principalmente di stampo jazz, accompagnano le immagini visionarie del collega con toni pizzicati, frenetici, facendosi binari su cui si muove una regia minuziosamente studiata. Così, nei loro film, la musica assurge non solo a ragione di vita, ma addirittura a feticcio, idolo da adorare.
Ciò accade già nella loro prima opera in collaborazione, Guy and Madeline on a Park Bench (2009), nato come tesi di laurea del regista. Il progetto contiene il seme di tutti i suoi lavori futuri, e Chazelle si piega a curarne i più svariati aspetti: dalla sceneggiatura al montaggio, passando per produzione, fotografia e ovviamente regia. L’opera pone l’elemento jazz al centro del suo disegno: già l’intro su cui scorrono i titoli di testa è accompagnata da una linea musicale simile alle sonorità che ritroveremo in La La Land (2016) e non a caso una delle prime immagini è l’inquadratura ravvicinata di una tromba suonata dal protagonista eponimo. La musica con lo scorrere del minutaggio diventa occasione di conoscenza, strumento sociale, si eleva fino a definirsi comprimaria tanto quanto lo sono i Guy e Madeline del titolo. È l’onnipresente fil rouge della vicenda e, nei momenti in cui non compare sul piano della trama, si fa sistematico accompagnamento degli eventi. La regia ne asseconda gioiosamente i ritmi, con l’aiuto di un montaggio puntuale. Nel lavoro, per quanto acerbo, traspare ben chiara l’idea cinematografica di Chazelle. Merito anche dello stile visivo à la Nouvelle Vague, emerge una certa vena autoriale: il risultato è un prodotto in bianco e nero su pellicola 16mm, di stampo mumblecore indipendente, ossessivo su dettagli e piani ravvicinati.
Scorgiamo già i cardini su cui appoggiano i film successivi, tra elementi visivi e narrativi sia di Whiplash – la batteria, la strumentazione jazz, il topos dell’ambizione, i riferimenti ai grandi maestri – che di La La Land – il rapporto di coppia, ma registicamente anche la giustapposizione con panoramica a schiaffo fra tip tap e accompagnamento jazz. Si instaura già anche la chiusura che diventerà marchio di fabbrica del regista, ricorrente in tutti i suoi lavori, su un significativo scambio di sguardi fra protagonisti in piano ravvicinato.
Evidentemente, le tessere del puzzle sono tutte in gioco sin da subito. Così, dopo una breve pausa di riflessione utile a ordinarle – e dopo un cortometraggio dal titolo omonimo con cui sponsorizza e raccoglie fondi per il suo progetto – giunge la sua seconda pellicola, che lo rivolge all’attenzione di pubblico e critica: Whiplash (2014). Stavolta al centro del disegno si colloca il big band jazz. Con l’aiuto dello spietato insegnante Fletcher, Andrew ambisce a diventare “il più grande”. In questo
caso, però, Chazelle si rivolge al mondo musicale con uno sguardo ben differente: l’approccio è più combattivo, violento; la sfumatura di significato è quella della sofferenza, di una lotta estenuante volta a plasmare il migliore, performando l’arte nella sua forma più pura. Il protagonista è sì un sognatore, ma in un’ottica cieca che lo rende furioso e disumano. La sua batteria diventa prolungamento del corpo, e l’arte devozione in ragione di cui annullarsi. La passione si fa tumulto logorante, tanto propulsiva da rendersi dannosa. Le aspettative sono destinate a rimanere insoddisfatte, o a essere soddisfatte a costo della vita. Tutto è metodo e tecnica, il romanticismo non è previsto: una passione positiva diventa ossessione distruttrice, esperienza vorticosa e febbricitante. In questa resa, il lavoro di Hurwitz è fondamentale: la ripetizione martellante di brani come Caravan e Whiplash finisce per rivelarsi estenuante, traducendo al pubblico il senso di soffocamento del protagonista stesso. Il clamore per il film è unanime, ma manca ancora qualcosa.
Così due anni dopo, accompagnato da un velo di romantica umanità e di omaggio al genere musical, giunge il lavoro che lo porta alla definitiva consacrazione: La La Land.
La musica, sempre centrale, è la professione dell’ambizioso pianista Sebastian; la recitazione, invece, il sogno della sua co-protagonista Mia. Intrecciandosi alle derive della loro storia, il sonoro assume una forma comunque intensa ma più nostalgica, è il contrappunto alla narrazione esistenziale di uno sviluppo umano e relazionale. L’ambizione che ci aveva travolti nel film precedente non scompare, e resta fonte di immani frustrazioni, ma si intreccia ad una visione più sentimentale e legata all’evoluzione del sé: la scrittura di Chazelle è più mitigata e consapevole. Mia e Sebastian infatti evolvono come esseri umani conoscendosi e vivendo il loro rapporto. Allo stesso modo nel mentre evolvono anche le loro carriere, così come la colonna sonora del film. Inizialmente ogni riverbero è sognante e giocoso, ma in breve l’atmosfera diventa densa di aspettative e impazienza. Non tarda poi a farsi intrisa di frustrazioni e delusioni, finendo per guardarsi indietro con una malinconica strizzata d’occhio. La musica è elemento tematico, ma rispettando il retaggio del musical è anche traduzione cristallina delle fasi che vivono i protagonisti nel loro diventare persone a tutto tondo – anche a costo di allontanarsi l’uno dall’altra. La costruzione del disegno di Chazelle e Hurwitz è millimetrica, e il successo che incontrano sensazionale. Anche per questo, il pubblico è perplesso quando il regista annuncia il suo progetto successivo, First Man – Il primo uomo (2018): un biopic su Neil Armstrong, molto lontano dalla linea che aveva seguito sino a quel momento.
Chazelle è all’apice del successo, la voglia di sperimentare non manca e il successo ottenuto gli permette di farlo agevolmente. Questo è in effetti l’unico suo lavoro in cui la componente musicale non si eleva a protagonista ma preferisce tirarsi lievemente indietro, per lasciar spazio al delinearsi di un film biografico. Tuttavia, il sonoro si rifiuta di scomparire e assume invece di buon grado una vena più introspettiva, intima. A differenza dei lavori precedenti, questa pellicola è tutta rivolta all’umanizzazione di un mito; la musica non ha un ruolo nella trama, ma ciononostante si impegna per la resa efficace di un protagonista marcatamente umano. Si ripiega su se stessa, facendosi minuta ma potente, per poi esplodere con un’accecante deflagrazione nel successivo Babylon (2022). Ancora una volta, e forse più che nei precedenti, il progetto di Chazelle è tremendamente ambizioso e la componente musicale ne è cardine.
Proposito del regista è quello di tratteggiare un omaggio della storia del cinema soffermandosi sul passaggio da muto a sonoro. L’enfasi sulla componente audio – e sulle difficoltà che la sua introduzione comporta – viene portata avanti trasversalmente dalle vicende dei personaggi comprimari e assecondata in particolare da un’intera linea di trama dedicata al personaggio del trombettista Sydney Palmer. Ma, forse ancor più che nelle storylines, la musica è partecipe dell’azione anche nel ruolo di corposa colonna sonora. Le ipnotiche melodie tribali intessute da Hurwitz nel corso di tre anni sono deliberatamente debordanti, eccessive. I ritmi accelerano, accompagnano la follia dell’epoca con il loro piglio totalizzante; le note si fanno avviluppanti in un continuo crescendo di frenesia e tempi serrati che strizza l’occhio al dance moderno.
Così, oltre a porla al centro della trama nell’accezione di “sonoro”, Chazelle fa della musica in Babylon traduzione dell’Es del film, un magma straripante che incarna lo spirito edonista del lungometraggio. Talvolta l’eccesso d’ambizione viene punito, ed è dunque difficile non leggere la sua successiva inattività – così come la scarsa considerazione a lui rivolta durante la stagione dei premi – come una sanzione inferta dall’industria alla sua ipotetica hybris.
Trattandosi di un regista tanto giovane e prolifico, è però indubbio che il pubblico non dovrà attendere troppo per osservare sue nuove opere in sala – e già infatti un suo progetto in uscita nel 2025 fa parlare di sé.
Quello che risulta spontaneo domandarsi, piuttosto, è se e come riuscirà Chazelle a mantenere la componente sonora su un gradino privilegiato nella costruzione della sua visione cinematografica, scoprendo di volta in volta se ritmo e musica pur rimanendo centrali saranno capaci di assumere forme nuove nei suoi lavori.