Che cosa ci fa il disegno nella nostra vita? A che cosa serve? Cosa può svelarci del nostro essere qui?
Si potrebbe argomentare la tesi che il disegno racconti la vita in un modo tutto suo e chiamare in causa psicologia e scienze cognitive. Ci limiteremo a dire che ogni disegno lo fa, ancora e ancora, e mille disegni della nostra paura dei temporali, non faranno scomparire né i temporali né la paura, ma la renderanno più sopportabile, poiché in parte scrutabile.
I vermi di Noemi Vola temono i temporali, come noi.
Noemi Vola – in Sulla vita sfortunata dei vermi. Trattato abbastanza breve di storia naturale edito da Corraini Edizioni – disegna le vicissitudini di creature nude, indifese, trascurabili e per la maggior parte del tempo invisibili ai nostri occhi, i vermi. Eppure, lasciandoci trascinare da scrittura e disegno, ci sembrerà che accada molto più di questo.
Tutto ha avuto inizio da Il libro dell’estate di Tove Jansson (Iperborea): una bambina scopre con la nonna che, zappando l’orto, possa capitare che un verme si divida in due. Su questa possibilità, Jansson scrive «ma forse la parte anteriore (del verme) trova che è bello non avere niente da tirarsi dietro, ma chi lo può sapere, perché non è poi così sicuro. Non ci può essere niente di sicuro quando si tratta di creature che possono dividersi in due in qualsiasi momento. Ma quali che siano le opinioni sull’argomento, si dovrebbe comunque smetter di pescare con i vermi sull’amo».
È di Noemi Vola l’intuizione che da lì sarebbe potuto nascere un altro libro, che quella frase avrebbe aperto davanti a lei una landa sterminata e costellata di dubbi e di incertezze, terra madre del disegno, dove vacillare quel tanto da lasciare aperta la risposta. Non sarebbe servito altro, bastava provare a rispondere, senza riuscirci, disegnando. La domanda e la direzione del discorso sono semplici: cosa può mai succedere a un verme che prima era intero? Merito di Noemi non aver rincorso false certezze e aver potuto così ospitare le aspirazioni di tutti.
Un fulmine nel bel mezzo di un temporale, appunto, e non una zappa, divide in due parti il verme, la creatura un istante prima unica, si fa doppia. Chi rimane, una parte, perde la sua metà, la coda, e prova a capire cosa sarà di lui. Noemi sta dentro ai dubbi di questo nuovo io: «si guarda allo specchio e non si riconosce, si mette al sole ad asciugare e spera di evaporare, inizia a domandarsi molte cose su sé stesso e la sua natura, sono uno o sono una metà, e quando ho iniziato ad essere io? Si può essere qualcuno per tutto il tempo e poi diventare improvvisamente qualcun altro? Dove finirò quando non sarò più io? Può fare male una coda che non c’è? Potrò mai sostituire la mia coda?».
Come accaduto in estate all’interno delle giornate della rassegna “La grammatica delle figure”, scrive e disegna, e il disegno va sempre un po’ oltre, un po’ più in là delle parole, non le descrive, ma le apre. E ci apre quello spazio vasto, lungimirante, sconfinato e accogliente che solo i disegni sanno mettere al mondo.
E allora, perché un trattato, perché l’autrice ha scelto una struttura che sembra uscita da un manuale di entomologia?
Il mio è un finto tono scientifico, non so molte cose sui vermi e ogni volta che ho cercato di approfondirne la conoscenza mi sono trovata dinnanzi a nuove incertezze. Sono andata avanti quattro anni a esplorare e costruirmi dei campi di osservazione sui vermi, a un certo punto ho messo da parte tutto questo materiale e iniziato davvero il libro. Il tono da trattato di storia naturale mi ha consentito di avere il giusto distacco da una cosa in cui non volevo essere troppo coinvolta come la vita del verme, un apparente tono asettico, privo emozioni, che mi ha permesso di dire molto di più e di andare più in profondità.
Il tuo verme è un tratto a pennarello, morbido, grosso, rosa confetto e rigato di rosso. Come sei passata dai disegni dei manuali scientifici così affezionati al dettaglio e per missione dediti alla descrizione pedissequa delle creature viventi a questo segno sintetico e asciutto?
I vermi non hanno niente, sono indifesi. Non hanno corazze, armi, pungiglioni, artigli, aculei, denti aguzzi. Non hanno niente di più di quel che vediamo. Niente di più. Un tratto rosa, rigato, che cambia sempre forma, perché invertebrato, disegnato con i pennarelli, descrive questo suo essere una creatura spogliata e senza maschere.
Odio la tecnica, il disegno fatto bene, i pennarelli lasciano una tessitura doppia, brutta da vedere, mai pulita. Sento la necessità di avere un segno sporco e di usare tecniche povere, naïf, più brutte di altre, che vanno contro e oltre i canoni estetici che nella maggior parte delle scuole d’arte che ho frequentato mi hanno cercato di inculcare. Sento che un segno brutto possa permettermi di stare più vicino a quel che voglio cercare senza distrazioni.
Quando hai scoperto che disegnare sarebbe diventato il tuo lavoro?
È stato tutto molto naturale, ho sempre avuto molto chiaro che mi piacevano i libri, non ero portata per la scrittura e un modo per avvicinarmi ai libri è stato fare i libri con le figure. Il disegno è sempre stato un modo per raccontarmi delle cose.
Disegnare e scrivere è diventato nel tempo un modo per esplorare tutto, la quotidianità, la vita, una lente attraverso cui guardare tutto ciò che mi sta attorno. Ho bisogno di disegnare, per provare a capire delle cose che altrimenti non saprei nemmeno avvicinare. Alle volte soffro un po’ a non staccare mai, il mio lavoro autoriale è tutto impastato con la vita e il suo disordine, disegno e quotidianità sono uno dentro l’altra, ma capisco anche che questo mi permette di scavare nelle cose.
Molte volte arrivo a capire quello che voglio dire o stavo cercando di dire quando sono molto stanca e ho disegnato tutte le strade possibili, proprio allora, quando sono esausta, appare una piccola rivelazione.
Esistono cose non disegnabili?
Non c’è niente di indisegnabile! Per un periodo ho pensato fossero le rane, ma invece anche per quelle ho poi trovato un trabocchetto. Tutto può essere disegnato e secondo delle visioni sempre diverse. Un po’ di tempo fa ho fatto un libro sui cavalli, Un libro di cavalli rivoluzionari sempre con Corraini. Il cavallo è l’animale forse più difficile da disegnare e più trattato dalla storia dell’arte, non ho imparato a disegnare un cavallo a regola d’arte, ma quando trovi delle forme che diventano le tue, puoi disegnare qualsiasi cosa.
Le parole di Noemi ci riportano alla mente un altro bellissimo libro, Sei lezioni di disegno di William Kentridge, edito da Johan&Levi, in cui Kentridge dedica un passaggio a un piccolo gruzzoletto di pezzi di carta nera in movimento su un foglio bianco e nell’istante in cui i nostri occhi riescono a riconoscere una sagoma, una forma, poi un cavallo. Ci ricorda come questa nostra forte esigenza di prendere i frammenti e comporre un’immagine sia sempre presente nel nostro modo di guardare il mondo. Anche riducendo le sagome e semplificando l’immagine, il cavallo non ci abbandonerà più. Scrive: «All’interno c’è un senso di cavallo, una cavallinità che attende di essere innescata. Ronzinate, Bucefalo, il cavallo di Troia, Stubbs, il photofinish di una corsa, sono tutti lì. Il processo è duplice. Il foglio di carta viene verso di noi e il nostro senso del cavallo gli va incontro».
Perché disegni, Noemi?
Questa domanda è piuttosto difficile per me, e per questo chiamo in soccorso i vermi: «Il lombrico trascorre infatti gran parte del suo tempo a scavare instancabilmente gallerie sotto la superficie del terreno, senza sapere nemmeno bene il perché. Si potrebbe forse pensare che sia alla ricerca di qualcosa, ma non è così: è perfettamente consapevole che scavando nella terra troverà soltanto altra terra. […] Ogni volta che un verme inizia una galleria non sa dove questa lo porterà, quanto sarà lunga, dove andrà a finire; non sa se troverà qualcosa di utile nel terreno […]. Inoltre, quando inizia a scavare, il verme non sa mai che direzione prendere, e il fatto che una galleria abbia infinite possibilità di svilupparsi in ogni direzione può stancarlo fino a fargli perdere i sensi, perché in ogni momento è costretto a scegliere dove andare e non può mai stare tranquillo. Questo comportamento ostinato dei vermi, che sono disposti addirittura a mangiare la terra che hanno davanti pur di continuare la costruzione della loro galleria, ci fa pensare che essi siano alla ricerca di qualcosa. Ma di che cosa non lo sappiamo, e forse nemmeno i vermi sanno quello che cercano mentre scavano; e se stanno cercando qualcosa oppure assolutamente niente ci è impossibile saperlo. Quello che è certo è che le gallerie, seppure innumerevoli, sono sempre diverse tra loro, e anche se forse non esistono per nessun motivo, sono tuttavia l’unica certezza nella vita dei vermi».
Penso che per me il senso dell’illustrazione, del disegnare, e dei libri in generale, sia lo stesso di quello che per i vermi è scavare gallerie. Disegniamo con ostinazione senza sapere davvero perchè lo facciamo, e senza sapere dove questo ci porterà, anzi, siamo consapevoli che difficilmente troveremo delle risposte alle nostre domande, e che scavando nella terra si «troverà soltanto altra terra». Tuttavia dobbiamo farlo perchè non possiamo fare altro. È nella nostra natura, e anche se si tratta di un’azione completamente inutile, è la nostra unica certezza. Che cosa stiamo cercando nei nostri disegni e nei disegni degli altri? Forse solo di salvarci, in qualche modo.
Credits: Noemi Vola