«Devi immaginarti non come un tipo speciale, ma molto ordinario. Se t’immagini come un essere normale e ti fa ridere, farà ridere tutti. Se pensi a te stesso come a qualcosa di speciale, finirai per essere pedante e noioso. Se inizi a pensare a ciò ch’è divertente, in realtà non lo sarai. È come camminare: se inizi a pensarci, inciamperai.» Così diceva Carl Reiner.
Le generazioni più giovani lo associano al ruolo di Saul Bloom nella serie Ocean’s di Steven Soderbergh; i più anziani ne hanno memoria per la sua lunga e poliedrica carriera sul piccolo schermo (suo è il Dick Van Dyke Show, e non solo). E gli appassionati ne rammentano le qualità di co-autore per nomi quali Neil Simon e l’ancor giovane Woody Allen. Nel ricordare il novantottenne Carl Reiner scomparso il 29 giugno, l’amico Francesco Fabio Parrino mi faceva notare come in tempi di imperante politically correct – tanto forzato e ridondante da indurre la HBO alla soppressione di Via col vento dai listini – un prodotto come Lo straccione (in originale The jerk, “il coglione”) non sarebbe un’operazione altrettanto concepibile. La vicenda infatti – che segna l’inizio del sodalizio con Steve Martin, qui al primo ruolo da protagonista – è la favoletta d’uno sprovveduto adottato da una coppia di colore: per certi versi anticipatrice di Forrest Gump, la candida idiozia di Navin R. Johnson viene paradossalmente premiata da un’inattesa ricchezza, per merito di un brevetto per occhiali che una ridicola controindicazione fa di colpo tornare dalle stelle alle stalle, mentre i genitori adottivi si arricchiscono grazie a lui. Come spesso (e volentieri) capita in questo genere di confezioni, la satira non risparmia un’America dove l’obsoleta concezione di sogno, impartita sino alla pletora nel corso del tempo, è più che favolistica nei propri stereotipi; e la dabbenaggine di teneri sempliciotti, convinti di sbarcare il lunario dalla campagna alla città, concilia con una vis comica sulfurea che di luoghi comuni e pregiudizi fa strame a raggiera (per quasi tutta la prima parte, per dirne una, Navin è convinto di essere un nero). Ragioni di buonsenso impediscono di discorrere sul ribaltamento sociale che vede i black prendersi l’improvvisa rivincita sui wasp, per poi atteggiarsi in modo ad essi non dissimile; ma benché si tratti d’un risaputo canovaccio, non a caso ripreso anche dalle sitcom, a lasciare l’amaro in bocca oggigiorno è che simili spunti, nulla più che burleschi divertissement, siano involontaria materia per fantomatiche accuse di razzismo.
Chissà se il Divino Disegno è stato giusto nel chiamare a sé Carl Reiner appena in tempo, a rischio di ottuse demonizzazioni. Dal demenziale (ingrediente standard della comicità) al demente (indice di comicità di valore soggettivo), si sa che il passo è breve; e gli americani di oggi, parenti strettissimi degli italiani che da settant’anni li scimmiottano, dimostrano di non potere, né probabilmente più volere, ridere dei propri usi e costumi. Sicché piace pensare che l’eclettico Reiner – comico, attore, autore, regista, sceneggiatore, produttore e padre d’arte – a due anni dal secolo abbia scelto di sfumare in punta di piedi imitando l’Onnipotente di una delle sue commedie più divertenti: quel Bentornato Dio! che, nelle spoglie d’un ottuagenario e sempiterno allegro George Burns, cercava di convincere gli umani della propria esistenza affidandosi all’impacciato, occhialuto miscredente John Denver. E benché non sia dato sapere se Reiner abbia lasciato questa Terra (o meglio: «questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo», parafrasando la pellicola di Stanley Kramer in cui recita da comprimario) con l’identico sorriso del Padreterno, chi scrive immagina che il congedo sia stato sereno come il suo spiritaccio: ora irriverente, ora provocatore, mai offensivo e sempre all’insegna della follia. Quella che, in Un tipo straordinario, ha dato modo a Henry Winkler di abbandonare una volta tanto i panni di Fonzie e cucirgli addosso il ruolo di un petulante comedian in cerca di fortuna. Soprattutto, a un emergente Martin di diventare star cinematografica nel registro goliardico, interpretando esilaranti parodie (Ho perso la testa per un cervello) o sofisticati cripto-rifacimenti (Ho sposato un fantasma); e persino rileggere il noir a mo’ di cinefila poetica della nostalgia, giocando a “recitare” con le star del genere (Il mistero del cadavere scomparso), sulla falsariga della fortunata lezione dell’amico e partner Mel Brooks con Frankenstein. Ma a dispetto di quest’ultimo, più burlone e grossolano nell’imbastitura del gag, Reiner è fedele a un paradigma in linea con la formula brillante d’impatto meno immediato, che in qualche circostanza non rinuncia alla pochade equivoca o alla rimasticatura fine a sé stessa, dove un forzato umorismo di grana grossa innesca un effetto contrario alle intenzioni denunciando i limiti del talento.
È tuttavia bastevole l’origine di tale ilarità, ancora una volta di derivazione ebraica, a testimoniare come dietro il “grande disegno” del Creatore, il più grande comico di tutti i tempi inventato da Voltaire per un pubblico timoroso di ridere, nemmeno troppo si celi l’alter ego dell’ateo Reiner («Su Dio ho una visione assai diversa. L’uomo ha inventato Dio perché aveva bisogno di lui. Dio siamo noi»), serbando l’identica matrice dello sketch dell’Uomo di Duemila Anni, proposto e riproposto con successo insieme a Brooks sul palco dello Steve Allen Show. «Se io mi taglio un dito è una tragedia; se tu cadi da una botola e muori, è una commedia», secondo il noto aforisma di Mel, che raggiunge i 94 calendari il giorno prima di quello in cui Carl ci lascia eredi (indegni?) d’un concetto filosofico del milieu buffonesco, travalicante la realtà, senza che si rinunci a prenderla per quel ch’è: una beffarda lotteria. Come peraltro ribadisce la fugace apparizione del medico agonizzante in una sardonica pellicola diretta e interpretata da Burt Reynolds, il cui titolo è già tutto un programma: La fine… della fine.