When people say, you’re not my kind
And that your clothes are out of line
And that your hair isn’t combed all the time
You’re not real pretty but you’re mine.
(Sonny & Cher)
Encino sta nella San Fernando Valley, che sta nella “grande” Los Angeles e che ospita da quasi un secolo pezzi sempre più larghi dell’industria cinematografica e televisiva. Prima c’erano i ranch allestiti dalle grandi compagnie per girare i western; poi, negli anni Settanta, fiorì la miliardaria industria del porno (v. Boogie Nights), e infine molte delle stesse compagnie vi si trasferirono. Ma la Valle è considerata la parte meno suggestiva di LA, lontana dalle spiagge e dalle strade celebri; fino ad alcuni decenni fa, i losangelini degli altri distretti e comunità la consideravano l’area “grigia”, industriale, piccolo borghese. Forse per questo si riesce a ricreare con tanta naturalezza un tempo passato (i Seventies) che slitta impercettibilmente nel presente, dove lo sguardo non cozza mai con un universo simbolico inflazionato, con il gigantismo lucidato e unidimensionale del digitale, dove, a parte abiti, musiche e insegne dei locali, il 1993 di America oggi di Altman scivola con garbo nel 1973 di Licorice Pizza, che a sua volta trasparirà nel nostro prossimo 2023. Vediamo un film ambientato cinquant’anni fa e lo viviamo come perfettamente contemporaneo. E (quello che oggi forse conta di più) come “non siliconato”: può succedere a noi; forse ci è successo; di certo sta succedendo a qualcuno. Questo è il segreto della grande arte.
Il riferimento a Robert Altman ovviamente non è casuale. È tanto risaputo da apparire ormai banale che, tra i tanti grandi autori di riferimento di Paul Thomas Anderson (Welles, Ophuls, Kubrick, Huston, Minnelli, Wilder, Scorsese, Demme, i Coen, ecc.), un posto speciale spetta, fin da Sydney, ad Altman (di cui fu standby director – inutilizzato – nel 2006 per Radio America); ma più che di un “posto” (e dell’esplicita eredità altmaniana raccolta da Anderson nell’intreccio vertiginoso e all’apparenza casuale di situazioni e caratteri), si tratta forse di un “sentimento” speciale che lega il regista di Studio City (Anderson è nato nella Valle) a quello di Kansas City (Altman, ma losangelino fin dal 1960). Questa America che ci hanno raccontato, spesso per entrambi spietata o ignara o cinica, poi finisce sempre per rivelare uno zoccolo duro di sorprendente ingenuità, di umanità sotterranea che salva l’anima e la dignità di uno (o più) personaggi. Ai quali entrambi, sotto sotto o esplicitamente, vogliono bene. E questo è un altro segreto della grande arte.
Licorice Pizza, certo, ricorda Robert Altman, non solo perché racconta una storia per frammenti e (grazie al cielo!) senza preoccuparsi troppo di cosa succede tra un segmento e l’altro, ma soprattutto per come è girato: per i lunghi carrelli che concedono tempo e reazioni ai dialoghi e alle emozioni, per gli zoom, talvolta insistiti e talvolta appena accennati, che vanno a scoprire sentimenti, ripicche, intese, per le tante superfici sulle quali si riflettono e si sovrappongono volti e chiacchiere o si intravedono oggetti del desiderio. Per l’uso della musica (tanta e “narrante”), per quella sensazione di vita colta al volo (come non è mai, ovviamente: per il cinema, come per l’abbigliamento, apparire casual è molto più complesso e lavorato che apparire “dressed to kill”) che manca spesso anche ai film più “naturalistici” di oggi.
A parte tutto questo, non è che Licorice assomigli a Nashville più di altri film di Anderson (certo molto meno di Boogie Nights o Magnolia). E, se proprio dobbiamo trovare un’analogia, allora è con America oggi. Toni diversi, certo, una commedia drammatica e una romantica; ma tutto quel girare dei personaggi di entrambi i film in un’area composta notoriamente di tanti agglomerati urbani senza centro, dove però tutti finiscono continuamente per incrociarsi, incontrarsi, scontrarsi, tessendo così quei grovigli di viticci dei quali parlava Altman riferendosi ai racconti di Raymond Carver, tutto questo assomiglia tanto ai casi della vita. Di sempre. Ma in realtà, il tramite altmaniano di Licorice Pizza è Vizio di forma (esplicito omaggio di Anderson a Il lungo addio), la storia del detective Larry “Doc” Sportello che si sveglia un giorno nel suo ufficio e nel corso della sua indagine percorre la San Fernando Valley in una leggera trance, eroe bizzarro e spaesato, accompagnato anche lui da una macchina da presa che si muove al suo ritmo.
Altrettanta aria, altrettanto spazio ad azioni ed emozioni, c’è intorno ai due protagonisti di Licorice: Gary e Alana, sedici e venticinque anni, non fatti per stare insieme ma irresistibilmente destinati a incontrarsi, stuzzicarsi, divertirsi, litigare, ingelosirsi, abbandonarsi, soccorrersi, mettersi in società, evitarsi, cercarsi, ritrovarsi. In auto, in aereo, su un camion, ma soprattutto a piedi e di corsa. Sono sempre in moto, Gary e Alana, fin dal primo incontro, dove Anderson (dopo averli collocati nella loro specifica età, lui nei bagni della scuola dove qualcuno fa la bomba d’acqua, lei di spalle, in shorts, già una giovane donna) li accompagna a lungo in un bellissimo piano sequenza spezzato in tre. Occhiata, approccio, dialogo. Baldanza adolescente, ironia giovanile. Leggero affanno maschile, apparente noncuranza femminile. L’inizio dà il passo a tutto il film, anche se posizioni e umori a volte si ribalteranno e certi momenti e certi sguardi rubati o avvinti saranno nel chiuso di un bar, di un ristorante, di un ufficio. Ma per lo più camminano e corrono, trascinandosi dietro nel loro moto perpetuo famiglie (tutta la vera famiglia Haim di Alana, madre, padre, le due sorelle Danielle ed Este), per una volta meno opprimenti di quanto non sia solito nei film di Anderson, ragazzini complici, agenti cinematografici e imprenditori vari, un giovane candidato sindaco che nasconde una bella dose di cinismo sotto una patina di compostezza, un attore disilluso con la passione della moto (Jack Holden, ispirato a William Holden), un parrucchiere delle star iroso ed erotomane (Jon Peters, nome autentico, base del personaggio di Warren Beatty in Shampoo di Ashby). Sean Penn impeccabile in grigio e Bradley Cooper in bianco con ricami, rispettivamente Holden e Peters, tirano fuori la Hollywood che non vediamo mai nel film (se non attraverso agenti marginali e spettacoli per ragazzi), quella delle star, dei rimpianti, degli eccessi. Passa anche Tom Waits, il regista declamatorio e arrochito che Holden incontra nel bar con Alana e che trascina fuori tutta la compagnia per un’esibizione notturna. Hollywood in realtà traspare dallo stile: quella degli anni Settanta di Breezy di Eastwood (con William Holden), di Shampoo, della paranoia politica di Taxi Driver di Scorsese (nelle scene negli uffici della campagna elettorale), degli incessanti andirivieni sulla stessa strada, in auto invece che a piedi, di American Graffiti di Lucas. Anderson riallaccia i fili della memoria cinematografica collettiva senza soluzione di continuità, senza rileggere, ricreare, senza “imporsi”: non fa vintage, e nemmeno abusato postmoderno, non crea stupore, per eccesso o per difetto. Racconta, in un flusso narrativo stampato nel nostro subconscio, la storia più basica del mondo. Boy meets girl. E tutto quello che ne consegue.
Forse è eccessivo trovare ricordi truffautiani nella leggera schizofrenia del mutevole rapporto tra Alana e Gary, ma era da molto che sullo schermo non si vedeva una storia d’amore raccontata con tanta naturale spontaneità e, contemporaneamente, tanto attenta al “sottotraccia”, dall’ottimistica fiducia imprenditoriale di Gary ai guizzi ideali di Alana, dai rapidi passaggi su altre vite improbabili (e per questo vere) alla crisi energetica del ’73. Tutto questo ci suggerisce anche l’America e il suo fuggevole “sogno”, e sembra il passato remoto, ma è anche il passato prossimo e il presente: trent’anni dopo Gary, invece di vendere materassi ad acqua, avrebbe creato startup in un garage, e Alana sarebbe stata un’influencer o magari una cantante (com’è Alana Haim con le sue sorelle, mentre Cooper Hoffman, tanto simile al padre, è a un passo dal trasformarsi in un nerd). Non possiamo non riascoltare qualcosa di noi stessi in questo racconto fatto di palpiti, occhiate e risate quotidiane, affannato e ondivago quanto la corsa alla maturazione dei due protagonisti, ma capace anche di momenti di magnifica sospensione. Due, che è indispensabile citare. La duplice telefonata, quasi muta, tra i due protagonisti nelle rispettive case, fatta di respiri trattenuti e occhiate perplesse di fratelli e sorelle, consapevolezze e imbarazzi, e la lunga sequenza, senza musica, del camion rimasto senza benzina, che scivola giù dalla collina guidato a marcia indietro da Alana, con Gary al fianco e i ragazzi sballottati all’interno, e poi si riavvia dritto, supera un semaforo miracolosamente verde e finalmente si blocca. Questo pathos che pare fatto di niente, questo è grande cinema. E forse su Marte c’è vita.