«Passiamo troppo tempo in stanze chiuse» scriveva Bruce Chatwin nel suo articolo scritto per Vogue It’s a nomad nomad nomad NOMAD world, (dicembre 1970, si trova nel volume postumo del 1996 Anatomia dell’irrequietezza, Adelphi), concludendo che «le droghe sono i veicoli per gente che ha dimenticato come si cammina. I viaggi reali sono più efficaci, economici e istruttivi do quelli fittizi».
Ancora trentenne, lo scrittore inglese pareva in procinto di chiudere il manoscritto del libro che mai vide la luce: L’alternativa nomade, previsto in uscita nel 1971 per l’editore Jonathan Cape. Tuttavia, quel titolo, raccontato nei dettagli in una famosa lettera a Tom Maschler del 24 febbraio 1969, diventerà un marchio definitivamente legato al nome di Chatwin e non a caso il titolo dell’opera straordinaria a lui dedicata dall’amico Werner Herzog riprende il concetto, ampliandolo. Ma non solo: nel suo film Nomad. In cammino con Bruce Chatwin, appare chiaro che il nomadismo non è un’alternativa ma il genoma primordiale, la nostra intelligenza primitiva che ci spinge a conoscere il mondo. E in questo documento di struggente bellezza, Herzog svela al mondo per la prima volta che quel famoso manoscritto non andò distrutto, ma che ne esiste una copia, finalmente fruibile almeno come immagine cinematografica per tutti noi.
Nel 1977, con l’uscita del famoso In Patagonia, il mondo si sarebbe accorto di Chatwin e del suo modo contemporaneo e al contempo radicato nei più profondi recessi della storia umana, di continuare a raccontare la creatura più irrequieta che abita la Terra. Werner Herzog, allora ventottenne, ci aveva già fatto conoscere la sua visione nomade con il film di debutto, quel Segni di vita del 1968 il cui “sistema circolatorio” si incentra sull’irrequietezza, l’indole visionaria, nevrotica, del protagonista, e in Nomad il regista inserisce la straordinaria scena dei mulini a vento, quei “segni di vita” che Chatwin, come scopriamo nel film, amava citare.
Bruce e Werner erano destinati a incontrarsi, essendo questo un intreccio generazionale (classe 1940 il primo, 1942 il secondo) ed era destino che sia proprio il regista bavarese a realizzare Nomad che grazie al lavoro di Wanted Cinema, lo scorso ottobre e per un numero limitato di giorni (causa DPCM) è stato accolto in Italia da un grande successo di pubblico. Ma riflettere su questo film richiede distacco dall’attualità spicciola. Siamo in presenza di un’opera cinematografica che riesce nel difficile compito di offrici, senza didascaliche interferenze e sovrastrutture intellettuali, quello che Chatwin, nel suo capolavoro del 1987 Le Vie dei Canti (titolo originale The Songlines, Adelphi), affronta: l’idea stessa di poesia – la poiesis – consegnata a chi vede ed esperisce il film nel suo senso originario del termine: “creazione”, “il nulla che diventa qualcosa”, come gli antichi greci ci insegnarono.
É la grandezza di questo regista che nel suo irrequieto viaggio artistico (cinquant’anni di narrazioni visionarie!), sa farci cogliere la creatività che non conosce il mortale lessico dell’attualità e delle asfittiche categorizzazioni; la creatività conosce infatti lo spazio che andrà ad assegnare alla creazione e la creazione è ciò che noi umani realizziamo quando siamo profondamente umani; la creazione è ciò da cui dipende la nostra stessa sopravvivenza, perché sa farci adattare al mondo, per poi interpretarlo. E, come ci insegna Chatwin in Le vie dei canti, per realizzarne le potenzialità: «Quando leggi una grande poesia, nel tuo cuore, nelle tue budella, immediatamente avverti una profonda, inerente verità, una verità estatica» dirà Herzog molti anni dopo. E questo è il nodo: la creatività è il motore dell’alternativa nomade, fin dagli albori. Ambulo Ergo Sum è un altro modo di esprimere il nostro inquieto destino di uomini, nati per camminare e pienamente vivi in quanto curiosi di comprendere le interconnessioni del mondo che ci accoglie.
Nel film, Herzog consegna una storia umana che non a caso parte anche dalla potente immagine del relitto di un’imbarcazione fotografato da Chatwin in Patagonia nel 1976, arenato a pochi metri dalla riva e che il regista tedesco non casualmente riprende, quarant’anni dopo il passaggio dell’amico. Un’immagine che calibra in modo subliminale Nomad: per descrivere il relitto, Herzog parla di “luogo” – il genius loci, immediatamente avvertito e interiorizzato dai due straordinari artisti in due momenti diversi delle loro esistenze. Vite spese alla ricerca imprevedibile dell’ineffabile alternativa nomade, che si rivela solamente a chi la pratica, come vediamo nello svolgersi dei capitoli di questo film che, come un libro, dipanano e orientano una trama dove emerge l’intreccio di due spiriti accomunati dal nomadismo spirituale.
E mentre noi vediamo e ci appassioniamo, desiderando vivere ogni singola esperienza evocata o narrata, Herzog si sofferma sul legame tra lui e l’amico, ma soprattutto sul panorama sempre più ampio che Nomad sa regalarci penetrando, impercettibilmente ma inevitabilmente, nel profondo dello spettatore, connettendo tutto ciò che solo in apparenza non è: dal Ghana dove si gira il famoso Cobra Verde, alla Patagonia, la Terra del Fuoco, dall’Australia profonda e aborigena alla collina di Silbury nel Wiltshire e alle Black Hills del Galles, buen retiro di uno scrittore scomparso troppo presto, con i dolci ricordi della moglie Elizabeth. E poi quel momento topico, la zampata di Herzog che legge l’ultima frase scritta di proprio pugno da Chatwin, per regalarci una visione della inestricabile tessitura del mondo, che non è diviso a pezzi, ma tutto frutto di un unico cosmo: «Cristo indossava una veste senza cuciture». Come un Gesù nomade, in perenne cammino, simbolo anch’egli di quell’irrequieto popolo senza nome, sparso nel tempo e nello spazio al quale è inutile cercare di assegnare un nome. Perché noi conosciamo il senso della veste senza cuciture di questo nomade, nomade, nomade mondo.
NOTA. Per sapere quando sarà possibile rivedere nelle sale il film, basta seguire i canali social e il sito di Wanted Cinema (www.wantedcinema.eu). Sul camminare e sull’idea profonda dello spirito nomade, Davide Sapienza ha scritto molto, in particolare nel volume Camminando (Lubrina Ed, 2014, Feltrinelli ebook 2015).