Ai Golden Globe nessuno si è ricordato di invitarlo, assente tra gli assenti nella notte in cui Ayo Edebiri veniva premiata per la seconda stagione di The Bear (premio sacrosanto, il suo come quello finito nelle mani di Jeremy Allen White), mentre persino delle cosette dimenticabili come Nyad o dei film da streaming svogliato come Saltburn si mettevano in tasca un paio di candidature. Di futura passeggiata sul tappeto rosso degli Oscar, poi, manco a parlarne: l’Academy negli anni ha imparato a stare al gioco delle commedie, a volte persino di quelle che mangiano con i gomiti sul tavolo, ma continua a tenersi alla larga dai film problematici, scivolosi, imbarazzanti, che non si sa da che parte prenderli (e soprattutto se prenderli sul serio).
Bottoms è insomma destinato a rimanere il classico fenomeno laterale, un corpo estraneo a qualsiasi contesto celebrativo, una specie di b-movie che ce l’ha (quasi) fatta: promosso al botteghino americano grazie all’effetto trainante del passaparola (fatevi un giro tra i commenti postati su Letterboxd) e arrivato da noi solo sul piccolo schermo in orbita Prime Video. Eppure, se chiedete a chi scrive, il lungometraggio numero due della canadese Emma Seligman, che già aveva dimostrato di saperci fare con la comicità anarchica nell’ottimo Shiva Baby (adottato e distribuito da Mubi), finisce dritto dritto sulla copertina del 2023.
Ma prima di spiegarvi i perché e i percome di tanto entusiasmo (o almeno di provarci visto il cavallo poco propenso alla sella), cerchiamo di capire di cosa stiamo parlando. Genere: commedia. Sottogenere: high school movie. Studenti e licei. Avete presente? The Breakfast Club e figli più o meno legittimi degli anni Ottanta, di John Hughes e della generazione Brat Pack, a loro volta figli più o meno legittimi di Gioventù bruciata e American Graffiti. Da Fuori di testa di Cameron Crowe (che merita un posto in primissima fila se non altro per la cofana bionda di Sean Penn) ai vari St. Elmo’s Fire, Sixteen Candles,Wargames, Bella in rosa e l’epocale Una pazza giornata di vacanza (che Emma Seligman ha inserito nella lista dei suoi preferitissimi quando è stata chiamata in causa per il sondaggio decennale della rivista Sight & Sound), da Mean Girls, American Pie e Donnie Darko, su su fino a Juno, Booksmart e Ladybird di Greta Gerwig (della quale fatalmente torneremo a parlare). Senza dimenticare l’esplosione dei teen drama nel decennio Novanta: Party of Five, Bayside School, Beverly Hills, Dawson’s Creek, Buffy, Daria e via di seguito all’infinito. Ci siamo capiti, insomma. Tutti abbiamo passeggiato masticando gomma alla fragola per i corridoi di una scuola americana, tra file di armadietti con il lucchetto, bacheche luccicanti di medaglie e trofei, imbranati che cercano l’aula di chimica, professori frustrati, bellissime dai boccoli biondi e giocatori di basket senza cervello.
Non è molto diverso il liceo che frequentano PJ (Rachel Sennott, che è anche la protagonista del già citato Shiva Baby) e Josie (Ayo Edebiri). Una coppia di nerd senza speranza, escluse persino dai secchioni e dagli emarginati, sfigate all’ultimo stadio, prese di mira per il loro orientamento sessuale, certo, ma non solo: «ugly, untalented gays» per usare la sprezzante definizione dell’immancabile preside troglodita; due loser da manuale che, arrivate a toccare il fondo dell’impopolarità, se ne vengono fuori con l’ultimo, disperato tentativo di perdere la verginità prima del college: fondare una sorta di fight club per ragazze, e tra un cazzotto e un naso rotto, provare a rimorchiare le cheerleader delle quali sono innamorate. Da qui in poi è il caos totale. Nel senso che il film galoppa a briglia sciolta verso l’entropia comica, innescando una serie di cortocircuiti micidiali, implacabili, grazie a un meccanismo tanto semplice quanto efficace (e collaudato fin dai tempi di Greta Garbo, Katherine Hepburn e delle marionette androgine del muto): il ribaltamento degli stereotipi di genere. Nella Barbieland per teenager di Josie e PJ la rapacità sessuale è femmina, il desiderio e la cupidigia sono femmina, così come femmina è la violenza. Le studentesse si picchiano e vengono picchiate con brutalità, assaporando con evidente compiacimento il gusto proibito e ancestrale della sopraffazione fisica (la sequenza dei duelli alla Fincher è tra le migliori in assoluto del film, così come quella della sfida tra il bruto campione di pugilato e una gracile fanciulla che nemmeno ci pensa a tirarsi indietro); mentre il maschio alfa della scuola, l’asso del football Jeff, è dipinto come una reginetta di fine anno, un Ken asessuato che vive in un mondo di Barbie manesche e che nel segreto della cameretta si scioglie ascoltando Total Eclipse of the Heart di Bonnie Tyler, protetto da un cordone sanitario di isterici compagni di squadra che assomiglia più a un harem che a un branco.
Il mondo alla rovescia. Un sottosopra queer e sboccato (molto sboccato: ecco perché la versione doppiata è ancora più vietatissima del solito) nel quale non ci sono remore a fare tabula rasa di luoghi comuni e buone maniere. Rispetto alla Greta Gerwig del fenomeno Barbie, che viaggia spedito verso il miliardo e mezzo di dollari di incassi, il duo Seligman-Sennott, responsabile del soggetto e della sceneggiatura, non sembra troppo ossessionato dall’idea di far quadrare i conti a livello didattico. Certo, ci sono dei passaggi rivelatori, dei punti di frizione tra il piglio dissacratore e la morale di fondo (la sequenza della terapia di gruppo, ad esempio, durante la quale tutte le ragazze ammettono di essere state molestate almeno una volta), ma complessivamente prevalgono il nonsense, il grottesco, il buffo atroce, la parodia selvaggia, con lo spettatore che si trova costretto a vedersela da solo, tra una risata e l’altra, tra uno schiaffo alla rispettabilità e un calcio negli stinchi ai progressisti da vernissage, con tutto quello che non torna dal punto di vista etico.
Non a caso le sgangherate avventure delle nostre eroine, e della variopinta masnada di vestali che le circondano (i personaggi secondari sono un altro dei punti di forza del film), culminano in un finale tutto sangue e sganassoni: la resa dei conti tra la squadra di football della scuola rivale, che si appresta a mettere a repentaglio l’incolumità del vitello d’oro Jeff, e le reginette del fight club, le uniche in grado di salvare l’onore e il buon nome del liceo. Come? Massacrando di botte i giocatori con la divisa di un altro colore, durante una rissa tra bande rivali che sembra uscita da The Warriors o The Outsiders. Benvenuti a Bottomsland, dove i maschi sono un gregge disordinato di inetti, di scimmie litigiose, di inabili alla vita e all’azione, e alle femmine non passa nemmeno per l’anticamera del cervello che per costruire una società migliore, basata magari sulla sorellanza e sulla solidarietà affettiva, si possa fare a meno della violenza o di prendere a calci in culo qualcuno. I buoni propositi li lasciamo a Barbie e agli Oscar, qui siamo troppo impegnati a darcele di santa ragione.
Immagine nel corpo del testo: frame dal film con le due protagoniste