Con Borat – Seguito di film cinema Sacha Baron Cohen torna letteralmente a vestire i panni dell’immaginario giornalista kazako Borat Sagdiyev, questa volta incaricato dal suo Governo di ingraziarsi il Presidente americano visti gli stretti legami instaurati da Trump con leader internazionali dalle idee poco democratiche.
A quattordici anni dal precedente Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan, il comico di origini inglesi rispolvera il suo più noto e controverso personaggio per affondare nuovamente il dito nelle ferite aperte di una società complessa e contraddittoria come quella statunitense di oggi. Dove però il primo film riusciva efficacemente a mettere alla berlina l’ipocrisia diffusa di una parte di Paese in crisi d’identità, resa insicura e instabile dal post-11 settembre, oggi il medesimo approccio non risulta altrettanto valido. L’America odierna è profondamente diversa da quella di Bush: in mezzo c’è stata un’ingente crisi economica globale, la rivoluzione di Obama e un conseguente riaffermarsi di tensioni razziali che hanno reso ancora più insicuro il tessuto comunitario locale, un clima di rabbia e paura alimentato ulteriormente dall’aggressiva politica del tycoon. Gli Stati Uniti di Trump sono la versione grottesca e volgare di sé stessi e la dissacrante comicità politicamente scorretta di matrice anglosassone qui, più che deridere, non fa che confermare una realtà ben poco ilare.
Se dunque il film di Jason Woliner non riesce sempre nel suo intento satirico, compromesso anche da trama e sketch troppo simili al precedente – nonché da un personaggio divenuto ormai celebre che non riesce più a passare inosservato come nel 2006, rovinando spesso in partenza l’effetto comico – è proprio nel rapporto col reale che il nuovo Borat ha il suo asso nella manica. Dalle prime scene in America, l’attore è costretto a camuffarsi più volte per non mandare a monte il princìpio della candid camera su cui fa perno la sua operazione. Questa scelta dettata da necessità, porta un significato ulteriore al lungometraggio. Se nel primo Borat era l’estraneo, espressione di una cultura distante da quella americana con la quale si confrontava cercando di scimmiottarne e assimilarne le forme ma non i contenuti, qui lo stesso personaggio si mimetizza nell’ambiente circostante assumendone gli atteggiamenti, al fine di muoversi liberamente al suo interno in maniera non tanto dissimile dal Leonard Zelig di Woody Allen. Ma se il personaggio interpretato dal comico newyorkese era mosso da un istintivo e incontrollato bisogno di accettazione, per Borat è una consapevole necessità per raggiungere i propri scopi. Un esempio per tutti quando, intenzionato a entrare a una convention repubblicana, il giornalista kazako attraversa la hall dell’albergo che ospita l’evento in tunica e cappuccio bianco del Ku Klux Klan suscitando solo un lieve stupore sui volti di alcuni presenti. È l’iperbolica esasperazione della realtà, resa tanto assurda da risultare veritiera. Ma il confine è labile e basta spingersi poco oltre perché il trucco sia scoperto: Borat si cambia ed entra nella sala travestito tra Trump e stavolta viene fermato.
Su questo delicato equilibrio si costruisce tutto il film che come il precedente viene a toccare diversi temi, ognuno sviluppato nell’incontro con singoli o gruppi che, ignari, interagiscono con l’attore e la sua spalla, qui interpretata da Maria Bakalova nei panni della figlia di Borat Tutar, ideale dono erotico destinato al vicepresidente Mike Pence, perché questi si adoperi col suo superiore. Antiabortisti, ultra-conservatori, complottisti, suprematisti, antisemiti, misogini sono i soggetti presi di mira dal duo in forme via via più ciniche e non prive di colpi bassi che hanno già sollevato in patria numerose polemiche. Ma, al contempo, il meccanismo produce l’effetto opposto nelle persone di maggior buon senso, come la baby-sitter Jeanise Jones o la sopravvissuta all’Olocausto Judith Dim Evans. Convinte di partecipare a un documentario, rispettivamente su una giovane dell’Est promessa sposa a un vecchio magnate americano e l’altro sulla Shoah, entrambe prendono a cuore la situazione che le vede coinvolte cercando di smontare le credenze di Tutar e spingerla a emanciparsi così come raccontare la propria esperienza nei campi di concentramento. Sono i due lati della stessa medaglia, la reazione spontanea a una provocazione che da una parte è sostenuta, incoraggiata oppure taciuta se fonte di imbarazzo, dall’altra invece diviene oggetto di dialogo pacifico nel tentativo di capire e far capire.
Quando poi una disinvolta Tutar si presenta come avvenente giornalista in un albergo blindato a intervistare Rudy Giuliani, ex-sindaco di New York e avvocato di Trump, dopo una breve quanto banale chiacchierata, l’uomo tenta un goffo approccio sessuale che in tempi di #MeToo imbarazza e scandalizza ancora maggiormente. Da comico mockumentary di partenza, Borat 2 si trasforma mano a mano davanti agli occhi dello spettatore in una sorta di film vérité, un instant-movie che è anche la fotografia spietata di un’America ormai priva completamente di qualsiasi orientamento. È quanto si palesa da circa metà film, quando l’inattesa epidemia di COVID-19 e il conseguente coprifuoco mettono in seria difficoltà la produzione. Girando in semi-clandestinità e ignorando le prescrizioni governative, Baron Cohen raccoglie gli umori e le opinioni dell’“uomo medio” che in questi mesi dilagano similmente in tutta la società occidentale: un inquietante pensiero maggioritario che scova sempre nuove dietrologie e capri espiatori su cui sfogare frustrazioni e malcontenti. Come la teoria complottista del “virus cinese” sostenuta da Trump e dal suo staff che il film smonta nel graffiante epilogo, un monito rivolto non solo all’America: cercare regolarmente la minaccia nell’altro, nello sconosciuto, nel lontano spesso non permette di vedere il pericolo più prossimo, sé stessi.