Quest’anno lasciare il Lido è più malinconico del solito: sarà che il tempo passato su Boxol sembra aver dimezzato i giorni effettivamente trascorsi, tra le sveglie che suonano in sala per assicurarsi un posto settantadue/settantaquattro ore prima della proiezione desiderata e la delusione immensa di vedere un sedile colorato che diventa grigio sotto i tuoi occhi nel giro di mezzo secondo, mentre stai cercando di fermarlo tastando compulsivamente lo schermo del telefono. Non sono state poche le polemiche per il sistema di prenotazione online degli spettacoli per gli accreditati – anche per il pubblico: Dune sembra essere andato sold out nell’istante stesso in cui sono state aperte le vendite – e c’è chi è quasi nostalgico delle ore passate in fila, dove in fondo potevano nascere amicizie e anche aperitivi improvvisati, ma alla fine, si può dire, abbiamo portato a casa anche questo festival. Sabato si è svolta la cerimonia di premiazione: L’événement di Audrey Diwan ha vinto il Leone d’Oro di questa 78esima Mostra, diventando il secondo film francese di fila a sbancare, dopo la Palma d’Oro a Titane di Julia Ducournau a luglio. Non è solo la nazionalità ad accomunare i due titoli: in due concorsi che vedevano ben poche registe tra i titoli in gara, Diwan e Ducournau si sono distinte con due opere di altissimo livello, che, utilizzando codici molto differenti tra loro, girano intorno al tema del corpo.
La Mostra per noi è cominciata con l’inaspettato Sorrentino: È stata la mano di Dio attinge direttamente dalla sua storia personale, e si rivela un film di puro cuore. Fabietto (Filippo Scotti, Premio Mastroianni) è un sedicenne di Napoli che ama Maradona, il cinema e un pochino anche – da lontano, di nascosto – la zia Patrizia (Luisa Ranieri). La sua adolescenza si srotola tra amicizie quasi nulle e una famiglia invece estesa e rumoreggiante; in particolare i genitori, interpretati da Toni Servillo e Teresa Saponaro, emergono con una vividezza che va a contraddire una battuta che segue nella sceneggiatura – «La realtà è scadente». Dove più pesca dalla realtà, Sorrentino compone al meglio sequenze a volte spassose a volte commoventi, muovendosi tra i due registri con discrezione. Sì, la realtà è scadente, e amara, ma la sua elaborazione si rivela sulla pellicola sincera, e va a segno.
Il primo, in effetti, è stato un giorno di commozione: Madres Paralelas di Almodóvar intreccia la vicenda di due donne che partoriscono lo stesso giorno con la piú grande Storia spagnola. L’identificazione, che passa dalla genealogia, è un’altra faccia della memoria, e non si può costruire nel presente senza fare i conti con l’irrisolto, quello che è sepolto nel passato. Ci sono fraintendimenti, e altre faccende un po’ paradossali un po’ melò, da classico film di Almodóvar, ma si ritorna a se stessi, e al ruolo che si può avere per pacificarsi con la realtà. Penélope Cruz ha vinto la Coppa Volpi per questo ruolo, scalzando due favorite: la protagonista rivelazione di L’événement Anamaria Vartolomei e Kristen Stewart, che si è fatta notare per la sua Diana nello Spencer di Pablo Larraín.
Mentre i giorni festivalieri si susseguivano e da lontano il pubblico vedeva gli approdi al Lido delle celebrità, il popolo degli accrediti scambiava vivacemente informazioni: quelli con i badge rossi e blu, ambitissimi perché garantiscono l’accesso alle proiezioni anticipate riservate alla stampa o alle produzioni, spesso hanno visto i titoli per primi e per primi hanno dato lapidari pareri. Ne vale la pena, non ne vale la pena. È una situazione simile alle chiacchiere prima degli orali all’università: gli ansiosi in attesa del loro turno che chiedono «è facile, è difficile, che cosa chiede, l’assistente fa domande bastarde?» e quelli che si atteggiano a professionisti dell’esame che con aria saputa «questo lo chiede sempre, ah se non hai ripassato quest’altro sei spacciato» e poi non è mai come raccontano, quella cosa che chiede sempre a te non la domanda, l’assistente temutissimo ti prende in simpatia. Anche ai festival impari presto che non devi fidarti del parere di nessuno: il rischio di perderti un capolavoro per farti una dormita aumenta con la stanchezza al ritmo di quattro o cinque proiezioni giornaliere intervallate da caffè e spritz. Domenica 5 settembre la giornalista Alice Oliveri ha twittato: «[…] il festival di Venezia è la più grande fabbrica di FOMO della terra». (La FOMO è la Fear Of Missing Out, è una sensazione ipercontemporanea e primomondista per eccellenza, è l’ansia di tenersi al passo, aggiornati, di non perdersi le cose migliori e più interessanti.) Vale per chi si accredita in tutti i maggiori festival e Venezia non è un’eccezione: una ricchissima selezione di film d’autore che appare infinita, mentre il tempo di chi detiene l’accredito invece è finito. Avrai fatto le scelte giuste? Quella proiezione a cui hai rinunciato per quell’altra era davvero più interessante? Potrai recuperare quel titolo per cui hai annullato la prenotazione su Boxol?
Ci siamo aggirate di sala in sala: Darsena, Volpi, pausa nella sala stampa (gelida ma con vista mare), Palabiennale, Perla, è una manifestazione che punta alla neutralità carbonica ma ai bar allestiti per l’occasione non ci sono opzioni vegane (ah, al Leone d’Oro trovi un cous cous?), Giardino, Sala Grande, pausa spritz, Astra.
Siamo andate a vedere anche Ana Lily Amirpour, la cineasta statunitense di origine iraniana, in concorso con il suo terzo titolo: Mona Lisa And The Blood Moon. Per chi ha visto le opere precedenti di Amirpour (A Girl Walks Home Alone At Night e The Bad Batch) cominciano a delinearsi degli elementi ricorrenti, evidentemente a questa regista piacciono: le atmosfere notturne, personaggi ai margini tra cui nascono sodalizi improbabili, le strobosfere e i colori fluo che brillano al buio. Mona Lisa And The Blood Moon è un incrocio bizzarro in cui si incontrano i blockbuster di supereroi, le storie avventurose ed edificanti che hanno per protagonisti dei ragazzini in stile John Hughes ma anche Stranger Things e il cinema indie d’autore. Amirpour si diverte, mentre mette in mezzo temi d’impegno come la salute mentale e la sicurezza dei sex workers, gira scene in cui colonna sonora e composizione estetica e cromatica chiaramente prendono il sopravvento sul narrato. È un film che saltella ridanciano sul confine tra serio e superficiale, che ci tiene alle sue stranezze.
Per rimanere in tema di stranezze segnaliamo alcune coincidenze bizzarre e faunistiche: nella selezione ufficiale in ben due titoli assistiamo al funerale di un uccello (sono Vidblysk e Il paradiso del pavone di Bispuri); in altri due film i maiali hanno un ruolo cruciale e piuttosto impressionante (Old Henry e Sundown); se temete gli insetti guardatevi da Freaks Out di Gabriele Mainetti; invece per bestiole meno problematiche, ma comunque molto inaspettate, vi raccomandiamo le anatre in Illusions Perdues di Xavier Giannoli, riuscitissimo adattamento da Balzac, consigliato soprattutto a chi si occupa di editoria e giornalismo, perché ci mostra l’immortalità dei classici riuscendo a dimostrarsi, a poco meno di due secoli di distanza dalla sua nascita su carta ancora inquietantemente pregnante.
The Power of the Dog, da buon western, è ricco di mucche, cavalli, e di nuovo mucche, protagoniste assolute di questa stagione cinematografica (un magnifico esempio è First Cow di Kelly Reichardt, su MUBI): nonostante le praterie, Campion si discosta però dalle usuali narrazioni di frontiera, per concentrarsi sugli squilibri e il potere all’interno di un gruppo ristretto di persone.
In effetti, quando si iniziano ad accumulare i film, ritornano simboli, oggetti, ripetizioni comuni che fanno da ponte tra i titoli più disparati, per quanto possano essere diversi per provenienza e ispirazioni – e c’è da dire che una grossa pecca di questa edizione è che rispetto al passato c’è meno cinediversità, pochissimi i film non europei o statunitensi, e relegati per lo più alla seconda settimana, quando il Lido si svuota e il wifi arriva persino in giardino.
Atlantide di Yuri Ancarani, sezione Orizzonti, e The Card Counter di Paul Schrader trovano un labile legame nelle inquadrature sulle unghie – lunghe, dipinte, ricostruite. Ancarani, regista e videoartista che si è fatto notare già con la sua trilogia sulle radici della violenza (San Siro, San Vittore e l’ultimo capitolo, in lavorazione, San Giorgio), porta la macchina da presa proprio in laguna, avvicinandosi ai giovani di Sant’Erasmo. Sembra nascere come un documentario – il cast è composto dagli stessi ragazzi che ha studiato, e con cui ha costruito una storia senza una sceneggiatura di partenza – ma muovendosi tra i canali, sfrecciando sui barchini insieme ai suoi protagonisti, che ascoltano trap, mangiano Kinder Pinguì e bevono succhini Conad, arriva a distorcere l’immagine stessa che abbiamo di Venezia, che si mostra a noi a volte claustrofobica, a volte spalancata, a volte tortuosa come un labirinto sottomarino.
Schrader invece ritorna ai suoi uomini perduti, alle prese con una qualche forma di redenzione: già uscito in sala con il titolo Il collezionista di carte – ma nessuno colleziona niente – il suo film segue Oscar Isaac in un pellegrinaggio incessante, di casinò in casinò. Punta il giusto, vince in maniera contenuta per non dare nell’occhio; dorme in anonimi motel di cui avvolge il mobilio in lenzuola che si porta sempre dietro. Non lascia un segno di sé, come se evitasse di contaminare la scena di un crimine che però non è lì; l’incontro con un giovane legato al suo passato fa emergere quello che l’ha portato a condurre una vita che non disturba più nessuno. È una narrazione di vuoti, di strade cieche; sequenze che sembrano arricchire la trama si risolvono in se stesse senza condurre da nessuna parte: può essere frustrante, e invece questo ascetismo incolla lo sguardo, e impedisce di distoglierlo persino di fronte alle scoperte più agghiaccianti.
I motoscafi legano di nuovo Atlantide a È stata la mano di Dio; bambini e bambine ingestibili si ritrovano in À plein temps, un titolo angosciante su una madre divorziata (la Laure Calamy dell’adorabile serie Dix pour cent) che deve giostrarsi tra la prole in periferia, un lavoro sfiancante nel centro di Parigi, scioperi dei mezzi e colloqui, e in The Lost Daughter, dove Maggie Gyllenhaal, ricorrendo a insistiti primi piani, e intrecciando le linee temporali, dipinge un ritratto soffocante della maternità.
Così passa una Mostra, alla caccia dei collegamenti più buffi, dandosi appuntamenti che non si riescono a rispettare perché le proiezioni si sovrappongono, e gli orari dei vaporetti non coincidono, e si rimane bloccate nella folla che esulta al passaggio di Timothée Chalamet e Zendaya, protagonisti dello splendido quanto atteso Dune, e la domenica invece c’è sempre la regata storica per cui bisogna organizzarsi in maniera certosina se si dorme in isola.
Si fanno i pronostici sui vincitori, per quanto il direttore del Festival Alberto Barbera non apprezzi questa pratica – ma direttore, come Oscar Isaac noi puntiamo poco e saggiamente – e si segue la diretta della premiazione come ultimo atto di queste giornate frenetiche. Raccogliamo i commenti che riferiremo, a nostra volta, a chi ci chiederà un consiglio; ragioniamo su quale sia lo spritz migliore (quello del giardino o quello del chiosco vicino al Palabiennale?), e partiamo, rimpiangendo la perduta abitudine della preziosa gastronomia all’angolo di fotografare gli avventori. Ogni anno, a settembre, si ritornava e si rivedevano le stesse facce, nelle file davanti alle sale e appese al muro sopra i pacchi di biscotti. Sopravvivenze.
Photo credits
Copertina – Leonardo Malaguti, Lido di Venezia, settembre 2021
Tutti i frames dei film e la locandina ufficiale della manifestazione provengono dalla cartella stampa ufficiale della 78esima Mostra d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia.