Se fino a oggi qualcuno poteva ancora nutrire dubbi in merito, La ferrovia sotterranea consacra Barry Jenkins tra i più validi e incisivi esponenti del nuovo panorama black americano. È questo senz’altro il progetto più ambizioso dell’autore di Moonlight che qui crea, dirige e co-produce con Amazon Studios l’adattamento dell’omonimo romanzo di Colson Whitehead, tra i più acclamati autori afroamericani degli ultimi anni, premiato per questo libro col National Book Award nel 2016 e il Pulitzer nel 2017. Con la serie, pensata come un lungo film suddiviso in capitoli più che una successione di episodi, il regista si pone a cavallo tra due delle principali tendenze del cinema e della cultura nera coevi. Da una parte prosegue la decostruzione dell’immaginario iconografico legato all’afroamericano che è cifra stilistica delle sue opere, dall’altra restando quanto più fedele al testo di partenza ne sposa l’intento originale, ovvero la riscrittura della Storia nazionale da un punto di vista alternativo rispetto a quello tradizionale. Un’operazione che non ha intenti revisionisti quanto piuttosto riequilibratori, proponendo uno sguardo alternativo a quello maggioritario bianco, espressione della pluralità di voci e prospettive che costituisce l’essenza stessa della società multietnica statunitense troppo a lungo rifiutata a livello istituzionale.
E Jenkins lo fa partendo dalle origini stesse del Paese, quella schiavitù che è peccato originale della Nazione, conflitto interiore mai del tutto sanato le cui ferite ancora aperte sono alla base di pregiudizi e discriminazioni odierni. La connessione col presente è voluta e costante (basti pensare ai rap e funky sui titoli di coda di ogni episodio) facendo così delle vicende della giovane Cora, scappata dalla Georgia verso il Nord, allegorie della comunità nera statunitense da sempre alla conquista di un’agognata emancipazione. Ecco quindi che la piantagione allude al ghetto, dove gli afroamericani vivono in condizioni disastrate, oppressi dagli schiavisti bianchi che mantengono lo status quo con terrore e prevaricazione in forme non tanto dissimili ad esempio dalla violenza e oppressione mostrate nei filmati delle uccisioni d’inermi per mano della polizia. Il potere esercitato sul corpo e sullo spirito del nero diviene, ieri come oggi, la cifra di un controllo che soggioga le sue vittime rendendole indifese, fragili e vulnerabili. E specularmente la fuga dalla piantagione si fa non solo disperato tentativo di salvezza, ma ricerca fisica e mentale di libertà intesa nel suo senso più alto, espressione del proprio arbitrio e autodeterminazione nel rispetto proprio e altrui.
Jenkins come Whitehead sceglie il simbolismo del treno, elemento cardine della mitologia americana, unico mezzo capace di attraversare interamente il Paese ed espressione del graduale insediamento della civiltà sulla wilderness dell’Ovest. Ma il convoglio ferroviario è da sempre associato anche all’idea di fuga e alle grandi migrazioni interne – soprattutto nere – che hanno caratterizzato la storia sociale statunitense nel graduale abbandono del passato rurale del Sud alla moderna urbanizzazione del Nord. Un veicolo dunque che porta la civiltà e che al contempo conduce alla civiltà. Per sua stessa natura, l’orizzontalità del mezzo sottende un’idea di espansione più che di elevazione, un principio ugualitario che, come in precedenza le diligenze, rende i passeggeri pur divisi in classi tutti uguali, membri di una medesima comunità in spostamento da un punto all’altro della nazione. In quest’ottica, l’idea degli autori di trasformare la rete di itinerari e luoghi sicuri usati dagli schiavi per fuggire verso gli stati abolizionisti in una vera e propria ferrovia sotterranea che attraversa il Paese, diventa metafora della storia afroamericana sviluppatasi a lungo in parallelo a quella bianca e sotto di essa, all’oscuro, fondamenta portante ma scomoda e perciò elusa.
Si esplica allora il rimando a I viaggi di Gulliver, libro più volte associato alla protagonista eternamente fuori posto come il personaggio swiftiano e come esso impossibilitato a fermarsi, a mettere radici. Il percorso di Cora diventa una sorta di compendio della storia del popolo afroamericano in costante fuga da un passato mai superato né superabile, le cui cicatrici indelebili fungono da monito, una consapevolezza da cui è necessario partire verso prospettive di reale evoluzione che coinvolgano egualmente bianchi e neri. I primi perché superino i propri atteggiamenti dominanti, i secondi perché fungano da coscienzioso richiamo verso quanto ancora c’è da fare in tale direzione.
«Se volete conoscere tutto di questa nazione, percorrete questa ferrovia. Guardate fuori durante il viaggio e vedrete il vero volto dell’America.» L’invito del capostazione Fletcher rivolto a Cora e al suo compagno di fuga Caesar nel primo capitolo funge anche da esortazione al pubblico, a cui è garantita la graduale rivelazione a patto che tenga gli occhi puntati sullo schermo. È effettivamente questo lo sforzo maggiore richiesto dal regista allo spettatore, in particolare quello bianco: reggere lo sguardo e osservare la realtà attraverso altri occhi. Facendo piazza pulita della falsa retorica del Sud di Via col vento, degli stereotipi buffoneschi di Django Unchained e della salvifica intercessione del “grande padre bianco” di 12 anni schiavo, Jenkins inchioda i responsabili alle proprie colpe, creando da subito una spaccatura tra carnefici e vittime, senza sconti, assoluzioni, riconciliazioni. La schiavitù è il dramma nero perpetrato dai bianchi e non può che essere raccontato da quella prospettiva. Questo è letteralmente espresso nell’esecuzione pubblica del fuggiasco catturato Big Anthony, evento che motiva definitivamente Cora a seguire Caesar. Nella soggettiva dell’uomo messo al rogo, con l’obiettivo che si stringe gradualmente a simulare la chiusura degli occhi, Jenkins racchiude l’intento politico che caratterizza l’opera: mettere lo spettatore nei panni dell’altro, scuoterlo dal torpore di osservatore passivo chiamandolo in causa, suscitando in lui un positivo disagio che porti alla riflessione e alla crescita intellettuale.
Un pensiero quasi inconcepibile per un pubblico abituato alla logica protettiva e consolatoria tipica di Hollywood ma che trova un predecessore nella miniserie Radici (1977), tratta dall’omonimo romanzo di Alex Haley ispirato alla storia della sua famiglia. Ma se lì le diverse fasi storiche della schiavitù erano affrontate di generazione in generazione in una saga familiare, La ferrovia sotterranea si concentra su un unico personaggio che già ha ereditato le traumatiche esperienze di avi e conoscenti e si trova ora a esperire le proprie sul piano fisico e soprattutto psicologico. Cora diventa perciò incarnazione stessa del nero, un corpo che palpita e sanguina ma vive, resiste, combatte per affermare sé e la propria natura.
Ma la carica drammaturgica e violenta dell’opera va oltre la compassione per il personaggio, evidenziando piuttosto un intento ulteriore. Come già Dee Rees che in Mudbound aveva messo in scena in forma esplicita un’azione del Ku Klux Klan – forse per la seconda volta nel cinema americano, dopo Within Our Gates del pioniere dei race films Oscar Micheaux (1920) – Jenkins manifesta la medesima volontà di riappropriazione iconografica del passato afroamericano. Come con l’Olocausto, il cinema viene a porre in tal modo la storia nera nell’immaginario comune, una memoria collettiva nella quale finalmente trovano spazio eventi ancora oggi troppo poco conosciuti.
Il paragone con le persecuzioni naziste che provocarono 15-17 milioni di vittime non è casuale né esagerato. Secondo i principali studi sulla schiavitù, i deportati africani nella sola Tratta atlantica (Africa-America) furono in totale 12 milioni, cifra approssimativa dedotta dai diari di bordo delle navi negriere a cui vanno aggiunti i figli di schiavi frutto di unioni consensuali oppure forzate, se non stupri perpetrati dai padroni, al fine di accrescere la forza lavoro dato che per legge un nato da schiava era schiavo a sua volta. Un numero incalcolabile per mancanza di documentazione ufficiale in merito, ma che rende appropriata la terminologia nera black holocaust per definire il fenomeno. Allude a questo Jenkins col personaggio di Jasper, il fuggitivo catturato da Ridgeway che Cora conosce sul carro del cacciatore di schiavi diretto in Georgia. Il corpo scheletrito e denudato dell’uomo deciso a lasciarsi morire di fame piuttosto che tornare alla piantagione da cui era scappato ricorda troppo da vicino quello dei reduci dai campi di concentramento. Tornano in mente allora le parole con cui Primo Levi apriva Se questo è un uomo: «Meditate che questo è stato:/ vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore/ stando in casa andando per via,/ coricandovi alzandovi;/ Ripetetele ai vostri figli». La Storia è anche questo e non può essere ignorata.