Ogni volta che per qualche motivo viene nominata Margaret Thatcher ritorna a girare il video di una signora scozzese che, fermata da un intervistatore il giorno dei funerali di Thatcher, dice: «Se potessi le pianterei un palo nel cuore per essere sicura che non torni mai più indietro». Il giornalista, che forse sperava in parole di cordoglio, prova a richiamarla, ma la signora scuote la testa: «Too bad, too bad».
Questa è Margaret Thatcher: un ricordo che si vorrebbe non dover più rivangare, ma i cui effetti sono ancora tangibili, e dolorosi, nella Gran Bretagna di oggi. Con le sue politiche Thatcher è entrata nelle famiglie britanniche, smantellandole.
Una di queste famiglie è quella di Douglas Stuart, autore del romanzo vincitore del Booker Prize Storia di Shuggie Bain, uscito per Mondadori nella traduzione di Carlo Prosperi e vincitore del Booker Prize nel 2020. Stuart è cresciuto a Sighthill, Glasgow, in un nucleo monogenitoriale con una madre dipendente da alcol e droghe. Negli appartamenti accanto la vita si svolge quasi uguale. Gli uomini, che in quella zona sono per lo più minatori, hanno perso il lavoro quando Thatcher ha chiuso le miniere di carbone sulla costa occidentale, le donne vanno a ritirare il lunedì e il martedì i pochissimi sussidi statali; su LitHub, Stuart ricorda quante ne ha viste crollare davanti alla prospettiva di non avere niente di meglio in vista. In ogni casa scorrono fiumi di birra e vodka.
Anche Shuggie Bain nasce a Sighthill: Agnes, la madre, ha avuto due figli dal primo matrimonio con un cattolico prima di fuggire con il tassista protestante Shug Bain, e trovare rifugio con la famiglia nell’appartamento dei genitori. Sotto quel tetto, tutti bevono. Agnes più platealmente, i genitori di lei, bravi cattolici, nascondono le lattine di Tennent’s sotto la poltrona, e bevono insieme quando gli altri dormono. Per Shuggie le donne disegnate sulle lattine di Tennent’s sono come delle bambole, che lui colleziona mentre gli adulti cercano di arrivare in fondo alla giornata. Un giorno il padre trova una casa dove possono trasferirsi lontano dai nonni, in un angolo di Glasgow sperduto, oltre i quartieri centrali che conoscono e oltre persino i quartieri residenziali eleganti, in un luogo dall’evocativo nome di Pithead. Le strade della zona sono fangose, e finiscono in un punto cieco, la miniera chiusa. Arrivati lì, Shug Sr. lascia moglie, figlio e figliastri e con il suo taxi nero si allontana alla volta della casa della sua amante.
Storia di Shuggie Bain è una storia di formazione e distruzione: mano a mano che Agnes si sgretola, abbandonata da chi ama – marito, figli maggiori – Shuggie cresce, scontrandosi contro un mondo esterno che tenta di inquinare il più possibile la bellezza che nonostante tutto conserva in sé.
Agnes e Shuggie sono simili in questo: emarginati, lei perché considerata una poco di buono, lui tormentato a scuola perché non è come gli altri maschi, ma entrambi decisi a elevarsi al di sopra delle persone che hanno intorno, attraverso una lingua forbita, un’eleganza nel vestire. I due collezionano statuette, ninnoli che tengono in bella mostra come segno speranzoso di una moltiplicazione continua di ciò che è bello e prezioso, per essere loro stessi fedeli riproduzioni di un sogno, anche dove quelle statuette sono dei falsi.
Da giovane Agnes si è fatta togliere tutti i denti per poterli sostituire con una dentiera bianca, smagliante, e così ogni segno che l’alcolismo lascia sul suo corpo viene mascherato il più possibile.
Lo spazio intorno a loro è racchiuso nelle vie fangose di Pithead: le puntate verso Glasgow sono rare, e passano attraverso ostacoli ripetuti, che siano aquazzoni improvvisi, che inzuppano la pelliccia destinata al banco pegni, o tassisti molestatori. E del resto, la Glasgow che li attende porta un sé un «cuore di tenebra vittoriano» che si unisce a un sentore di sconfitta:
«La città stava cambiando; lo notava sulle facce della gente. Glasgow si stava scoraggiando e lui lo vedeva con chiarezza da dietro il vetro del suo taxi. Lo percepiva nei passeggeri che caricava. Li sentiva dire che la Thatcher non sapeva più che farsene di onesti lavoratori; che per lei il futuro era nella tecnologia, nel nucleare, nella sanità privata. I tempi dell’industria manifatturiera erano finiti, e le ossa dei cantieri navali e degli stabilimenti ferroviari giacevano disseminate per la città come scheletri di dinosauri putrefatti. I giovani di interi quartieri popolari, cui erano stati promessi i mestieri dei loro padri, adesso non avevano futuro.»
I personaggi che popolano il minuscolo universo di Pithead sono inaffidabili, gli uomini violenti; in mezzo a famiglie che rimangono unite in apparenza, il legame tra Shuggie e sua madre emerge limpido, nel suo essere doloroso ma inossidabile.
Stuart rievoca i luoghi della sua infanzia riportandone sulla pagina odori e umori, con quella capacità, propria anche del cinema inglese, di fondere nella narrazione gli aspetti più schiaccianti del reale, puntando il dito senza remore. Non c’è patetismo nelle pagine di Storia di Shuggie Bain, ma un ultimo, disperato tentativo di riportare in vita qualcuno, di chiedere scusa per colpe che non gli appartengono; nel fare i conti con un passato condiviso da molti della sua generazione e classe sociale, si svela, delicata, una dichiarazione d’amore.
© Raymond Depardon / Magnum Photos