Esiste tutta una narrazione tossica intorno alla malattia mentale, che confonde i piani e continua a non chiamare le cose con il loro nome. L’origine di questo atteggiamento si perde indietro nel tempo, attraversa i secoli e avvolge i disturbi psichici in una nebbia che non riesce a mostrarli (e spesso neppure a curarli) per ciò che sono: malattie e disfunzioni che poco hanno a che vedere con la volontà o il carattere di chi ne è affetto. Ecco allora che la letteratura, il racconto stesso della cosiddetta follia (un concetto romantico che andrebbe superato), può rappresentare un ottimo strumento di conoscenza, a patto che sia veritiero e autentico. Non mi riferisco quindi ai racconti di finzione, ambientati in manicomi spettrali dove uno o più personaggi finiscono col perdere aderenza con la realtà, ma alle storie che traggono spunto dalla propria esperienza personale, descrivendo un vissuto e una percezione che altrimenti sono destinati a restare inaccessibili.
Per molto tempo ai pazienti psichiatrici è stata preclusa questa possibilità di racconto in prima persona: quello in manicomio era quasi sempre un viaggio senza ritorno e in ogni caso l’esservi stati rappresentava un marchio che rimuoveva ogni autorevolezza, ogni credibilità. A riportare sintomi, diagnosi, risposta alle cure erano quindi i medici stessi, osservatori privilegiati di cui i pazienti non potevano che essere casi di studio. Malgrado la loro preparazione e, nei casi più illuminati, la loro umanità – Franco Basaglia sarà il primo a spostare l’interesse dalla malattia al malato stesso, al quale restituisce la dignità di persona – si tratta comunque di un punto di osservazione esterno, che annota i cambiamenti e diagnostica la malattia, di cui poi segue l’andamento. In continuità con questo approccio, e partendo dalla sua esperienza di medico prima in un Centro di Salute Mentale a Genova, poi in un reparto ospedaliero di psichiatria d’urgenza, Paolo Milone dedica un’ode ai suoi pazienti, i tanti che ha conosciuto, curato e perso in quarant’anni trascorsi a esercitare «il lavoro che fa più paura a tutti»: lo psichiatra. Ci consegna il suo corpo a corpo con i malati, che spesso si dimenano e si ribellano, e da qui il titolo indovinato proprio nella sua ambivalenza: L’arte di legare le persone al letto, per contenerle quando necessario o se i farmaci non fanno il loro dovere – interessante la constatazione delle urla che prima riecheggiavano ininterrotte nei riparti psichiatrici quasi come tratto distintivo e che solo i farmaci di ultima generazione («siano benedetti», scrive) hanno fatto cessare – ma anche l’arte di legare le persone a chi le cura, o semplicemente alla realtà. Fra le pagine sfilano tanti episodi raccolti in altrettanti anni di carriera: soddisfazioni e rimpianti, insieme a un caleidoscopio di pazienti, perché la pazzia non è una sola. Allora troviamo «i pochissimi che si suicidano per volontà» e quelli che non si riesce ad aiutare, i depressi che se ne stanno «attaccati al letto come naufraghi in mezzo al mare», e ancora gli euforici, i maniacali. Nel corso della sua lunga carriera Milone ricava una stanza dei colloqui nello sgabuzzino per le scope e intercetta le sbavature tipiche di chi deve curare: capelli in disordine, macchie sui vestiti, discorsi senza logica. Una sorta di manuale poetico (edito da Einaudi) che narra di molteplici esperienze procedendo per frammenti e senza rispettare un ordine cronologico. Ci sono alcune perle: «Se non hai mai provato il dolore psichiatrico, non dire che non esiste. Ringrazia il Signore e taci». O ancora: «C’è chi ritiene che il ricovero in Psichiatria sia la cosa più brutta al mondo. Talvolta la vita è ancora più brutta. Gli animali feriti si nascondono in una tana e si leccano le ferite: Psichiatria è una tana». E Psichiatria sempre maiuscolo, come a volerle restituire dignità. A un tratto Milone ammette: «Sono un vigliacco: io guardo l’abisso con gli occhi degli altri». E centra il punto della questione: «I matti sono nostri fratelli. La differenza tra noi e loro è un tiro di dadi riuscito bene – l’ultimo dopo un milione di uguali – per questo noi stiamo dall’altra parte della scrivania».
Proprio del labile confine fra salute e patologia parla un racconto composto da Anton Čechov nel 1892, in cui il medico di un ospedale psichiatrico della provincia russa duella con uno dei suoi ricoverati affetto da manie di persecuzione. Reparto n° 6 racconta di una ribaltamento, di uno psichiatra che finisce col diventare a sua volta paziente: «Nessun posto, nessun posto fa per noi. Siam deboli noialtri, mio caro… Io ero così indifferente a tutto: eppure è bastato che la vita mi facesse sentire il suo contatto brutale, perché subito io m’accasciassi… subito questa prostrazione… Siam deboli noialtri, siam poveri cenci…», dice a colui che prima curava e con cui ora divide la cella.
Solo alcuni anni prima, la giornalista Nellie Bly si era finta paranoica per dare vita a Dieci giorni in manicomio, un reportage all’inferno per il quale stava rischiando di perdere davvero il senno. Avvalendosi di un trucco simile a quest’ultimo, ma più di un secolo dopo, Stefano Redaelli si cala come un etnografo in una struttura psichiatrica a Lanciano, Abruzzo, per raccontare con Beati gli inquieti (Neo edizioni) la vita in queste «terre di mezzo sopravvissute alla chiusura dei mostri manicomiali dopo la legge Basaglia del 1978». Un’esperienza che ricorda anche quella vissuta in un centro post manicomiale femminile da Fabrizia Ramondino e descritta in Passaggio a Trieste, un testo del 1998 purtroppo attualmente introvabile, nel quale registra i primi cambiamenti messi in atto proprio da Basaglia e dai suoi collaboratori.
Ma sono davvero beati, gli inquieti? Credo che avrebbero difficoltà a definirsi tali: quando sintomi come dissociazione, anedonia e delirio li si sperimenta in prima persona, smettono di risultare tanto poetici. Probabilmente gli stessi medici cui si devono importanti passi avanti in psichiatria sarebbero descritti dai loro pazienti in modo poco lusinghiero, o sono talvolta i primi portatori di pregiudizio. Tornando a Redaelli, il protagonista del racconto, Antonio, si accorda con la dottoressa della struttura sulla possibilità di trascorrervi un periodo: dovrà fingere di essere un paziente. «Far finta: quello che si fa quando si scrive», puntualizza nel testo l’autore con un paragone curioso. Come il nome di fantasia dato alla struttura, Casa delle farfalle: ospedale o agriturismo? Sebbene parta da un intento nobile – raccontare ciò che sono oggi le strutture psichiatriche – l’entrarvi in incognito, sotto le mentite spoglie di un paziente, d’accordo con la direzione, può forse essere un buon espediente letterario ma era necessario? Se il protagonista si fosse presentato per ciò che è, un ricercatore universitario affascinato dai disturbi psichici, probabilmente i paranoici e i depressi con cui è entrato in contatto avrebbero interagito con lui nello stesso modo, perché troppo impegnati a combattere la loro personale guerra. Ferisce allora, in alcuni testi, il tono vagamente canzonatorio, nel riportare dialoghi e stranezze, quando la malattia mentale non è mai un divertissement, almeno non per chi ne è portatore. In alcuni casi calarsi nei panni del paziente può essere utile non solo a fini letterari, ma anche per rapportarsi adeguatamente a chi si deve curare. Nella formazione psicoanalitica, ad esempio, bisogna sottoporsi obbligatoriamente a un periodo di analisi passando dall’altra parte della barricata. Ecco allora che in un altro testo di recente pubblicazione Nella stanza dei sogni. Un analista e i suoi pazienti (Enrico Damiani editore), Pietro Roberto Goisis riporta al centro questo rapporto dialettico immedesimandosi nei suoi pazienti, un insieme variegato che affolla e si succede nella sua stanza. Qui la particolarità sta nel linguaggio, perché Goisis assume punti di vista diversi scrivendo a volte in prima persona come medico e psicoanalista, altre come se fosse il paziente stesso: dalla ragazza DOC ai presunti suicidi, dalle famiglie problematiche ai pazienti arroccati nelle proprie torri. Ogni seduta è una sfida. «Si possono avere tante paure nella vita, alcune giustificate, altre meno. Ma fino a quando non coinvolgono il mondo esterno ti senti a posto, legittimata nelle tue ansie e nei tuoi meccanismi, con qualche fatica ti ci muovi dentro. Il problema nasce quando gli altri le giudicano insensate, quando cominciano a dirti che così non va, che esageri, che devi controllarti, a modo loro. E allora si incasina tutto. A volte sono gesti, a volte comportamenti, a volte pensieri. È uguale. È una gabbia nella quale ci si muove sempre più faticosamente», scrive lui nei panni di una paziente. Nelle sue parole ci sono empatia e conforto, attenzione ai momenti più critici, come quello delle vacanze estive, sempre difficile per chi soffre di disturbi psichici, e in cui gli sembra quasi di abbandonare i suoi pazienti interrompendo la terapia.
Se l’alleanza fra chi cura e chi va curato è indispensabile, c’è un grande bisogno di racconti da parte di chi la patologia psichiatrica l’ha vissuta o la vive sulla propria pelle, descrizioni accurate che potrebbero rappresentare anche un ausilio terapeutico per il futuro. Serve un cambio di prospettiva, che supplisca le lacune avute fin qui. Senza voler creare nette dicotomie che non giovano a nessuno, penso a scrittori come Andrea Pomella, che ne L’uomo che trema (Einaudi) ripercorre le tappe della sua lotta alla depressione, o a Daniele Mencarelli, vincitore del premio Strega giovani con Tutto chiede salvezza (Mondadori) dove racconta della sua esperienza di TSO. A scarseggiare, allora, non sono i ritratti tratteggiati da psichiatri e ricercatori. Sarò di parte, ma vorrei che a raccontare reparti psichiatrici e disturbi mentali fosse sempre più spesso chi ne soffre in prima persona.