All’inizio di febbraio diversi media indiani e internazionali pubblicavano articoli che cercavano di trovare risposta a un interrogativo che da alcune settimane circolava tra la comunità scientifica: i motivi della lenta ma costante regressione della pandemia da Covid-19 in India. Il paese asiatico, colpito da un’ondata di infezioni a partire dal mese di giugno, aveva registrato durante l’estate un rapido aumento di casi che aveva portato l’India al secondo posto nel mondo per numero di casi registrati e al quarto per decessi. Questa ondata era stata ampiamente prevista, data la situazione del paese che fin dall’inizio della pandemia generava grande apprensione. L’India è un paese caratterizzato da molti contesti di sovraffollamento e promiscuità abitativa e da un sistema sanitario generalmente inadeguato e inefficiente. Ciò che nessuno aveva previsto invece era che, dopo un’estate problematica, a partire dal mese di ottobre la situazione potesse tornare lentamente ad un’apparente normalità.
Occorre premettere che ogni analisi basata sui numeri ufficiali della pandemia ha poco senso in India, per una serie di ragioni, in primis la scarsa capacità di testare la popolazione, in particolare al di fuori dei centri urbani, in un paese in cui ancora oggi circa i due terzi degli abitanti vive in zone rurali. Pur considerando un numero di casi di positività e di decessi di gran lunga superiore alle stime ufficiali, è innegabile che la situazione fosse migliorata tra la fine del 2020 ed i primi mesi del 2021. Fino al mese di settembre i decessi giornalieri ufficiali erano compresi tra i 900 e i 2.000 circa, un numero comunque relativamente basso per un paese che conta circa 1,38 miliardi di abitanti. Tra ottobre e dicembre il numero giornaliero di decessi era passato da una media superiore a 1.000 a meno di 250. Il dato più importante era però quello relativo agli ospedali: alcuni casi di grandi difficoltà non solo nel gestire i ricoveri ma anche nell’approvvigionamento di ossigeno erano stati segnalati durante l’estate, ma a partire da ottobre la situazione era tornata complessivamente sotto controllo, tanto che sia il governo di Delhi sia i governi locali avevano consentito la riapertura di ristoranti e bar e la possibilità di svolgere liberamente matrimoni, cerimonie religiose ed eventi elettorali.
L’ottimismo dei mesi autunnali aveva dunque lasciato spazio a febbraio ad una compiaciuta e diffusa sensazione di scampato pericolo. Mentre in molte aree del mondo la situazione di grande difficoltà proseguiva, il primo ministro Narendra Modi, intervenendo in videoconferenza al World Economic Forum di Davos il 20 gennaio, arrivò ad affermare che l’India avesse fatto un regalo al mondo sconfiggendo la pandemia. Secondo Modi il fatto che la popolazione indiana non fosse più in pericolo avrebbe consentito all’India di destinare una parte consistente della sua enorme produzione di vaccini al resto del mondo, salvando ovunque vite umane. Con questo spirito il governo indiano iniziò a fornire vaccini ai paesi vicini, ovviamente anche per perseguire obiettivi di natura politica e strategica. Così centinaia di migliaia di dosi sono state donate a Nepal, Bhutan, Maldive, Bangladesh e ad alcuni paesi africani. Nel frattempo, la produzione indiana diventava l’architrave su cui poggiava il programma internazionale Covax per la fornitura di vaccini ai paesi più poveri del mondo.
Questa estrema sicurezza si basava su due presupposti illusori, ovvero che il Covid-19 non rappresentasse più un problema in India e che il paese, forte della sua straordinaria capacità di produzione di vaccini, avrebbe presto vaccinato quantomeno le persone maggiormente a rischio. A favore di questa falsa certezza giocava anche la particolare struttura demografica della popolazione. Con un’età media attorno ai 27 anni, il governo indiano era convinto che, anche in caso di seconda ondata, la gestione sarebbe stata tutto sommato semplice, perché, una volta vaccinati gli anziani, gran parte della popolazione avrebbe sviluppato solo sintomi di lieve entità.
Eppure nessuno in India era realmente in grado di spiegare il motivo per cui la pandemia avesse iniziato una fase di costante discesa da ottobre, nonostante le riaperture e il sostanziale ritorno alle condizioni di vita precedenti. E qui torniamo alla domanda iniziale e a una possibile risposta: a gennaio il ministero della salute di Delhi commissionò un’indagine sierologica a campione in diverse aree del paese. Il risultato fu per certi versi sorprendente, ma finì involontariamente per avere conseguenze molto gravi sugli sviluppi futuri. Questo studio, condotto su circa 700.000 indiani, mostrò come il 55% del campione avesse già contratto il Covid. Improvvisamente tutti i media, indiani e internazionali, pensarono di avere compreso il motivo della lenta discesa dei casi nonostante l’allentamento delle misure di contenimento. L’India aveva raggiunto “un certo grado di immunità di gregge”, e quindi si stava avviando all’uscita dalla pandemia. L’enorme numero di infettati era sfuggito alle statistiche per via dell’elevato numero di casi asintomatici o scarsamente sintomatici, dovuto all’età media molto bassa della popolazione.
Il disastro alle porte
Questa convinzione spiega in parte la lentezza e l’incapacità delle istituzioni indiane nel far fronte al disastro che ha iniziato a delinearsi a partire dalla fine di febbraio. Un rapido aumento di casi ha investito inizialmente alcune aree del paese e nel giro di pochi giorni diverse città dell’India occidentale hanno iniziato a mostrare preoccupanti segnali di pressione sulle strutture ospedaliere. Ma la convinzione che la pandemia fosse finita, o quantomeno che il peggio fosse passato, era oramai talmente radicata che in pochi hanno dato peso a segnali che vennero liquidati come colpi di coda di una malattia oramai sconfitta.
Questa certezza si sposava bene anche con altre considerazioni, eminentemente motivate da interessi personali, da parte del governo Modi. Tra marzo e aprile erano previste importanti elezioni locali in cinque stati, tra cui il popoloso Bengala Occidentale, teatro di una delle battaglie elettorali più tese e incerte degli ultimi anni. Inoltre si era nel pieno della stagione delle grandi feste religiose indù, tradizionali momenti di propaganda da parte del partito di Modi, che ha forti legami con le organizzazioni religiose. Così il festival di Holi, occasione di grandi assembramenti in tutta l’India settentrionale, è stato celebrato senza particolari restrizioni tra il 28 e il 29 marzo, in una situazione di ripresa della pandemia già molto grave. Nella città di Haridwar era nel frattempo iniziato il Kumbha Mela, la più grande festa religiosa indù che si svolge a rotazione in quattro diversi luoghi del paese ogni tre anni e che sarebbe entrata nel vivo tra l’11 marzo e il 27 aprile. Tradizionalmente il Khumba Mela richiama da tutto il paese decine di milioni di devoti. Nonostante numerose grida di allarme da parte del mondo scientifico, il governo indiano ha inizialmente deciso di lasciare che la festa si svolgesse senza restrizioni.
L’allarme rosso è iniziato nella seconda metà di marzo, quando i casi registrati di Covid sono triplicati nel giro di due settimane. Già alla fine del mese iniziavano a fare il giro del mondo immagini di ospedali sovraffollati e mancanza di ossigeno in diverse aree del paese. Ma era solo l’inizio. Il mese di aprile ha visto crescere i contagi con una inedita rapidità. Da poco più di 81.000 casi del 1 aprile si è arrivati agli oltre 200.000 del 14 aprile. Alla fine del mese i contagi registrati erano oramai oltre 400.000 al giorno. Nel frattempo i decessi passavano da meno di 500 al giorno a oltre 3.500. Ma la situazione era in realtà molto peggiore di quanto i numeri potessero mostrare. A partire dalle città più grandi come Delhi e Mumbai, giungevano immagini di ospedali al limite del collasso, con occupazione di tutte le terapie intensive, carenza di posti letto, mancanza di ossigeno da somministrare ai pazienti. Presto queste scene si sarebbero ripetute anche in centri meno grandi, mentre sappiamo molto poco di ciò che sta accadendo nelle aree rurali in cui spesso manca la possibilità di testare la popolazione e in cui la grande maggioranza dei decessi non viene attribuito al Covid.
La risposta del governo a questo punto è stata contraddittoria. Da un lato, comprendendo la gravità della situazione, Modi ha lanciato diversi appelli alla popolazione per mantenere il distanziamento e seguire le regole per la prevenzione ma dall’altro ha continuato la campagna elettorale. Tra il 12 e il 17 aprile lo stesso Modi ha tenuto diversi comizi in Bengala, davanti a una folla di centinaia di migliaia di persone. Anche i leader dell’opposizione hanno continuato la campagna elettorale come se niente fosse. Solo il 20 aprile, in seguito a raccomandazioni da parte della Election Commission, tutti i partiti si sono accordati per limitare gli eventi della campagna elettorale. Il Kumbha Mela nel frattempo proseguiva. Il 14 aprile secondo il Times of India circa un milione di devoti ha preso parte al tradizionale rituale di immersione nel Gange. Solo un appello di Modi alla sospensione delle cerimonie, in seguito alla scoperta di migliaia di casi di positività tra i pellegrini, ha portato il 16 aprile ad una modifica del programma da parte degli organizzatori. Questa decisione, molto contrastata, ha finalmente portato ad una prosecuzione dei rituali del Kumbha Mela solo in forma simbolica e senza assembramenti.
Varianti e vaccini
Ma cosa può essere esattamente accaduto tra febbraio e marzo per avere causato un’ondata così rapida e terribile da essere definita uno “tsunami” dallo stesso Modi? Probabilmente si è trattato della combinazione di diversi fattori, tra cui la diffusa sensazione di scampato pericolo, sostenuta dal governo e dai media, che ha portato gli indiani ad abbassare la guardia. Oltre a questo si è molto parlato della presenza nel paese di nuove varianti molto contagiose. Proprio la questione delle varianti è stata al centro del grande interesse mostrato verso l’India da parte dei media internazionali. La scoperta nel corso di questa nuova ondata di due nuove varianti, la B.1.167 (detta appunto “indiana”) e la B.1.168 (detta “bengalese”) ha portato un certo panico nei media di tutto il mondo per la possibilità che queste nuove varianti potessero “bucare” la protezione immunitaria data da precedenti infezioni o addirittura dai vaccini. In realtà la rapidità del contagio in India nelle ultime settimane è data dalla presenza contestuale di diverse varianti, con un ruolo molto importante giocato dalla cosiddetta “variante inglese” già protagonista in Europa e negli USA di nuove preoccupanti ondate di contagi.
Nel complesso la comunità scientifica non è in ancora grado di dimostrare in modo incontrovertibile quanto le due varianti sequenziate per la prima volta in India siano pericolose per i guariti dal Covid o per i vaccinati. Ciò che sappiamo di certo è che la convinzione di un presunto raggiungimento di una parziale immunità di gregge si è mostrata fallace. La presenza delle varianti e l’intervallo di tempo trascorso tra la prima e la seconda ondata ha di fatto reso illusoria la convinzione che gran parte della popolazione fosse protetta rispetto a possibili reinfezioni. L’improvviso aumento dei casi ha inoltre mostrato in modo evidente come la campagna vaccinale nel paese procedesse a rilento. L’11 aprile, mentre la situazione sanitaria era già prossima al collasso, il governo indiano annunciava con enfasi di avere somministrato 100 milioni di dosi di vaccino in soli 85 giorni dall’inizio della campagna. Il problema è che 100 milioni di dosi in India corrispondono ad appena 7,2 dosi per 100 abitanti. E dato che i due vaccini somministrati, Covaxin della indiana Bharat Biontech, e Covishield, nome dato in India al vaccino Astrazeneca, richiedono due dosi, ad oggi la percentuale di popolazione vaccinata è inferiore al 3% del totale.
Eppure gran parte dell’ottimismo mostrato dalla classe dirigente indiana nei primi mesi del 2021 si basava proprio sulla capacità produttiva del paese. Sempre nel corso del WEF di Davos, Modi aveva dichiarato che l’India con la sua produzione di vaccini avrebbe aiutato tutto il mondo salvando milioni di vite. Poi però qualcosa si è inceppato, proprio nel momento in cui il paese aveva maggior bisogno di velocizzare la campagna. Il più grande produttore di vaccini al mondo, il Serum Institute di Pune, si è confrontato con una serie di problemi nelle ultime settimane, dalla scarsità in India di alcune componenti a causa soprattutto di un divieto all’esportazione deciso dal governo statunitense, ad un tira e molla sul prezzo delle fiale, che il governo vorrebbe sensibilmente abbassare ma che il produttore considera al limite della profittabilità. Nel frattempo Modi, per dare slancio e priorità alla campagna vaccinale, ha bloccato l’esportazione di vaccini, mettendo in crisi le campagne vaccinali di molti paesi e portando allo stallo l’intero programma Covax. Anche se i problemi di approvvigionamento sono stati nel frattempo parzialmente risolti, è molto improbabile che la campagna vaccinale possa risolvere i problemi in tempi brevi. La popolazione da vaccinare è davvero enorme e sebbene ci sia una capacità produttiva notevole è difficile ipotizzare che l’obiettivo di immunizzare almeno 900 milioni di indiani entro agosto possa essere raggiunto.
Le responsabilità del governo
Al di là delle considerazioni di natura elettorale, la contrarietà di Modi all’imposizione di nuove misure di contrasto al Covid ha radici più profonde, legate alle oggettive difficoltà nell’imposizione dell’unica misura in grado di limitare il disastro in corso: l’introduzione di un duro lockdown nazionale. Molto spesso in queste ultime settimane la gestione della pandemia da parte di Modi è stata paragonata a quella di altri leader, soprattutto Trump e Bolsonaro. Va detto però che, pur condividendo molto dell’ideologia e della retorica di altri leader populisti di destra, Modi non ha mai fatto proprie posizioni al limite del negazionismo, al contrario di Trump e Bolsonaro. Fin dagli inizi della pandemia, il governo indiano si è mostrato molto preoccupato, probabilmente consapevole del rischio cui andava incontro il paese per via soprattutto dell’inadeguatezza del sistema sanitario. Modi ha imposto tra il 25 marzo e il 31 maggio 2020 uno dei lockdown più duri del mondo: l’India si è completamente fermata per oltre due mesi, con le scuole e la maggior parte degli uffici pubblici chiusi e pesanti limitazioni allo spostamento delle persone con il blocco totale della circolazione di treni e bus.
Questa decisione ha consentito al paese di rallentare l’arrivo della prima ondata, ma ha comportato conseguenze economiche molto dure, in particolare per i più poveri. Con oltre l’80% della popolazione che lavora nel cosiddetto “settore informale”, senza dei veri contratti di lavoro e con pagamenti che avvengono di norma alla giornata, il lockdown ha creato problemi economici di gran lunga maggiori rispetto a quelli creati dal virus. Milioni di migranti interni, rimasti intrappolati tra marzo e aprile nelle grandi città senza salario, hanno cercato disperatamente di fare ritorno ai villaggi di origine. In assenza di mezzi circolanti migliaia di persone hanno compiuto lunghi viaggi a piedi per potere raggiungere il proprio villaggio. Immagini di lavoratori migranti stremati, spesso trattati con estrema durezza dalla polizia, hanno fatto il giro del mondo mostrando con evidenza inconfutabile la fragilità di un sistema in cui le differenze economiche, la precarietà del lavoro e l’incapacità del governo di far fronte alle necessità dei propri cittadini sono la regola. Dopo due mesi in cui milioni di indiani si sono trovati improvvisamente in condizioni di estrema indigenza e l’economia reale è letteralmente crollata, era evidente come il paese non avrebbe potuto sopportare un nuovo lockdown. Questo spiega meglio di ogni altra considerazione la volontà del governo di evitare nuove chiusure ad ogni costo e di conseguenza i disperati tentativi di minimizzare la gravità della situazione.
Mentre nelle principali città del paese si creavano code chilometriche per potere acquistare bombole di ossigeno, mentre gli ospedali registravano interminabili file di ambulanze che non potevano scaricare i malati per l’esaurimento dei posti letto, mentre le immagini di crematori improvvisati nelle strade di Delhi e di altre città facevano il giro del mondo, il governo indiano era impegnato in una campagna di censura dei social network che puntava a coprire le voci critiche per la gestione della pandemia. Solo il 20 aprile Modi si è rivolto alla nazione ammettendo che l’India sta combattendo una battaglia durissima contro il virus, invitando tutti i cittadini a comportamenti responsabili. Ammettendo che la situazione era particolarmente grave e fuori controllo, il governo indiano ha iniziato ad accettare aiuti internazionali, in particolare la fornitura di respiratori polmonari e di ossigeno. Ma il picco di questa seconda ondata non è ancora arrivato e la campagna vaccinale non ha ancora ripreso slancio. In una situazione come questa gli scenari sono davvero sinistri e l’emergenza è ancora lungi dall’essere superata.
In copertina:
Cremazione di massa a New Delhli, 26 aprile 2021. ©IPA/Fotogramma