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Il vocale mostra il racconto nella sua forma più pura. Calls di Fede Àlvarez



Avvertenza: contiene spoiler

Con l’acquisizione del pacchetto Marvel Studios e l’avvio della quarta fase del suo universo audiovisivo, Disney+ ha da poco diffuso alcune delle serie più costose di tutti i tempi, WandaVision The Falcon and the Winter Soldier. Valori produttivi stellari, una lavorazione dell’immagine di poco inferiore alle post-produzioni cinematografiche. Eppure, nelle scorse settimane, AppleTv tramite la sua piattaforma streaming ha mostrato qualcosa che oggi, in un momento in cui quasi ognuno di noi è in grado di produrre immagini proprie, di filmarle, montarle e lavorarle, sembra una rivoluzione.
Calls è una serie vocale, evoluzione del radiodramma (che a breve compirà cento anni), in cui esistono solo le voci degli attori e attraverso quelle, e i rumori, si dipana un racconto. Realizzata da Fede Àlvarez sulla base di un’originale francese, la serie si sviluppa attraverso una serie di telefonate che vari personaggi si fanno durante il corso di un anno, telefonate che sono tutte legate a una distorsione del continuum spazio-tempo e che sembrano condurre a un evento apocalittico.

Calls serie

L’apparenza è quella di una serie antologica, in cui ogni episodio racconta una piccola storia a sé stante (durata tra i 15 e i 20 minuti) che durante il corso della serie capiamo essere connessa a un evento che rischia di distruggere la Terra, solo gli ultimi due episodi sono collegati tra di loro per portare Calls a una conclusione, perlomeno stagionale (la serie francese consta di tre stagione e Apple dovrebbe aver comprato i diritti per l’intero adattamento). Come dei piccoli esercizi di stile a tema paura, variazioni sulla suspense in stile Ai confini della realtà.
Una serie incredibilmente low-budget, diremmo quasi no-budget: lo schermo rimanda le voci degli attori (tra i quali Aaron Taylor-Johnson, Aubrey Plaza, Danny Huston, Rosario Dawson e molti altri), la trascrizione delle loro conversazioni, le onde sonore di quelle conversazioni. Quanto basta per creare un senso di tensione difficile da realizzare con la rappresentazione, perché Calls va dritta alla radice di ogni racconto: permettere all’immaginazione dell’ascoltatore/spettatore di espandersi, perché mostrargli l’impossibile è meno efficace emotivamente di lasciare che lo crei con la sua mente. 

Hochet – il creatore della serie originale – e Àlvarez assieme ai loro sceneggiatori hanno risalito la corrente del tempo e della storia per prendere la tradizione della narrazione orale e agganciarla al presente facendone un prodotto incredibilmente contemporaneo: Calls è un podcast narrativo, è una serie di stanze di Clubhouse unite da uno spaventoso filo rosso, è una serie di note vocali che costruiscono un mondo che sta implodendo e che noi, come i personaggi, siamo costretti a sentire implodere. Soprattutto, è una riflessione riuscitissima sul potere della suggestione, sul lasciare intendere come arma di affabulazione e reazione emotiva, un’arma ancestrale che anche il miglior cinema Usa, l’arma che ha fatto la fortuna della radio e delle forme di intrattenimento vocale, un’arma che nonostante le evoluzioni tecnologiche non si è mai spuntata o inceppata.

Calls serie

È appunto, una teoria vecchia come il mondo: se chi ascolta o guarda può crearsi nella propria testa un’immagine compatibile con ciò che sta sentendo o vedendo, la storia avrà una resa migliore. È una teoria applicabile anche alla letteratura, senza però il calore umano della voce; possiamo applicarla anche al cinema o alla tv certo, ma l’immagine spesso toglie quella suggestione. Calls è in grado invece di restituirla in forma smagliante, attraverso un’attentissima scrittura e la costruzione di un universo narrativo che abbraccia in modo sempre più angoscioso le voci e i suoni: per esempio, una delle conseguenze della frattura nello spazio-tempo è che le persone che ne approfittano, sfuggendo quindi al loro destino, vanno a distruggere il tessuto dell’universo, causando a loro stessi (ma non solo) una sorta di fisica implosione, di decomposizione in vita dei loro corpi. È un’idea di racconto che per realizzarla necessita di molti soldi, di grandissime capacità creative e tecniche nel settore degli effetti speciali; ad Àlvarez (regista di tutti i nove episodi) invece basta il tono della voce degli attori, la descrizione di cosa sta succedendo loro, le distorsioni dei rumori ambientali e il terribile gioco è fatto.

Se Calls resuscita forme purissime di racconto, riporta anche il concetto di regia alla sua radice: ossia dirigere, dare una direzione e un senso attraverso gli elementi a disposizione del regista. Attori e scrittura in primis, il calibro dei loro ritmi che diventa fondamentale per dare vita all’attesa, ma anche in maniera inaspettata l’immagine assente: il modo in cui il regista usa le trascrizioni e le onde sonore è sorprendente, perché servono ad aumentare la tensione e la paura generate dai suoni, danno loro un contesto visivo che ne accresce l’impatto. Le onde sonore che accompagnano le telefonate rendono visivo il mood, rendono grafici gli eventi come fosse arte visiva sperimentale degli anni Sessanta, danno concretezza al campo elettromagnetico dentro cui si svolge la narrazione e che ne è anche parte centrale, soprattutto, al fine della suspense, servono ad annunciare l’arrivo dell’orrore, del parossismo, come quando in un thriller vediamo l’assassino comparire da lontano dietro la vittima; anche le trascrizioni, che hanno la funzione pratica di riempire l’immagine e quella sociale di coinvolgere anche il pubblico non udente, assumono un ruolo filmico, perché si muovono nello spazio come personaggi in un ambiente, perché l’invisibile macchina da presa li riprende come fossero persone in carne e ossa, usando il montaggio, i piani di ripresa, la composizione delle inquadrature – primi piani, piani di insieme, piani d’ascolto – con la scansione ritmica di un perfetto découpage cinematografico.

Utilizzando tecniche millenarie e tecnologie contemporanee, Calls racconta il disfacimento del mondo attraverso il disfacimento delle sue componenti fisiche, ma soprattutto attraverso la metafora della famiglia e dei rapporti umani, sempre al centro di ogni telefonata (per questo è vincente l’idea, rispetto all’originale, di avere solo chiamate e non messaggi registrati), che si distruggono e sfaldano per le nostre mancanze emotive, prima che per gli effetti dell’Apocalisse. 
Sembra una sorta di adattamento fantascientifico di Gli uomini vuoti (The Hollow Men), poesia di T. S. Eliot del 1925, in cui il poeta mostra un branco di esseri umani ridotti a fantocci privi di tutto, come in un limbo, come in un territorio dopo la fine del mondo. I personaggi di Calls sono questo: «Figure senza forma, ombra senza colore, forza paralizzata, gesto privo di moto». E, come loro, come Àlvarez, sanno che la morte è prima di tutto un suono che non ha bisogno di immagini: «Così il mondo finisce / non con uno schianto ma con un lamento».




Photo credits
Copertina: Victor He tramite
Unsplash
Ritratto di Fede Àlvarez di Gage Skidmore, licenza
Creative Commons


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