Un’isola «che non c’era», come recita il titolo, e adesso c’è, affiorata in una zona del canale di Sicilia, come l’isola Ferdinandea nel secolo XIX, subito contesa da più stati e poi scomparsa; e ancora, un’isola-continente, sede di sperimentazioni utopistiche, come l’Atlantide, che invece di affiorare affonda nelle regioni indistinte del mito.
Ingredienti presi dalla realtà come dalla leggenda, tutti indirizzati alla costruzione di un romanzo dal forte sentore figurato, che anzi procede di capitolo in capitolo offrendoci un repertorio di simboli legati ai luoghi esplorati dal protagonista Leo o derivati dallo scandaglio delle sue più intime tensioni: questo è L’isola che non c’era di Leonardo Bonetti, che inaugura l’attività editoriale di una nuova casa editrice con sede a Roma, Il ramo e la foglia.
Ciò che colpisce di questo romanzo, ad apertura di libro, è anzitutto la grana della scrittura, il lavorìo di definizione delle immagini, di continua messa a punto dello stile, elemento ancora più pregevole a fronte di molta produzione francamente sciatta, o atteggiata a quella sciatteria, facsimile di tanta narrativa americana o inglese, a cui spesso anche i nostri scrittori indulgono. Il lettore che si appresti ad affrontare un romanzo come questo resterà subito deluso, o sorpreso, dal decisivo cambio di rotta. Del resto, l’efficacia di un simbolo, ovvero di ciò che viene a sostituire il suo correlativo assente, sta proprio nell’esattezza, nella forza con cui è capace di ricordare, di evocare ciò che è chiamato a rappresentare.
Questa ossatura simbolica prosegue di tappa in tappa, o meglio, di episodio in episodio, verso quello che sembra allestirsi come un Bildungsroman, il cui protagonista, ancora giovane, ha però oltrepassato la canonica soglia dell’adolescenza e si trova ad affrontare una crisi ben più profonda, apparentemente innescata da una delusione sentimentale. Dico apparentemente, poiché l’antefatto che ci viene narrato nelle pagine iniziali sembra più un pretesto per intraprendere una vera e propria quest, una ricerca interiore di ben più ampia portata.
Ed è una ricerca che si intreccia con una dimensione che non stenteremmo a definire politica, nel significato più alto, poiché la scrittura sposta tutta quella carica simbolica verso un preciso obiettivo, che è l’isola stessa, luogo del mistero (il termine di gran lunga più ricorrente nell’intero romanzo e variamente declinato) e soprattutto scenario di una distopia, che finisce per ledere le già sparute certezze di Leo. Il quale, infatti, non tarda a scoprire che quella costa sperduta e difficilmente accessibile è in realtà un grande organismo autofago, che si regge su precise norme e distinzioni di classe (c’è un’«isola di sopra» e poi ci sono paesi che è meglio evitare, come Salicundo, Surdo, Curi, che compongono invece una contro-isola, un’isola di sotto segnata da un’evidente alterità). Ed è, anche, un approdo arduo come una partenza impossibile. Sembra di essere entrati all’inferno, come in una vecchia canzone degli Eagles: si può sempre arrivare, si può sempre fare il check-out, ma non si riesce mai a fuggire.
Ogni personaggio sembra rivestito di una patina di mistero, perfino un’iguana, esplicito omaggio che ogni lettore di Anna Maria Ortese riconoscerebbe. Si tratta forse di un piccolo segnale nei confronti di un’autrice che tanto avrebbe in comune con questo romanzo, quanto a descrizioni di fatti, situazioni, infine persone segnate allo stesso modo dal segreto (l’isola stessa lo è, come dichiara l’enigmatico Dottor Elwin), come da una sorta di creaturalità offesa, costretta a subire decisioni e azioni altrettanto enigmatiche, e contenute in luoghi precisi: strani opifici, una «casa delle gravide» e un «necrolario» che stanno a segnare un alfa e un omega esistenziale, ma anche un preciso confine ancora una volta simbolico tra la potenzialità di ciò che nasce, anche sul piano delle idee, e ciò che è destinato a perire scontrandosi con una realtà definita quanto incombente.
Può sembrare che Bonetti, autore che forse si rispecchia nel suo protagonista a partire dal nome, sia rimasto indeciso sulla direzione di genere, come il suo personaggio fatica a conquistarsi nuove consapevolezze in un ambiente a cui non può adeguarsi; è piuttosto vero, al contrario, che proprio in questo coacervo tra simbolo, avventura, distopia si realizza un’opera singolare, che lascia molto da pensare sulle nostre grandi attese, singole e collettive.