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Il duplicato distorto della civiltà. L’anomalia, romanzo-mondo di Hervé Le Tellier



Nessun autore scrive il libro del traduttore, e nessun traduttore legge il libro dell’autore. Possono, al limite, condividerne ‘la memoria’, se per memoria s’intende l’archivio di libri, musiche, immagini, (e in tempi a noi vicini) film, programmi radiofonici e televisivi, ricordi e memorie collettive che insieme tratteggiano lo sfondo e i sedimenti di quel testo.
E mai come nel caso de L’anomalia di Hervé Le Tellier (La nave di Teseo, 2021), ultimo premio Goncourt dall’enorme successo di vendite in Francia, la serie di rimandi, nel passaggio da autore a traduttore, finisce con l’esplodere, innescando un curioso effetto di riverbero. A cominciare dalla folla di personaggi, ben undici, che in un gioco di intrecci e incastri molto simile alla trama colorata di un tappeto, si rincorrono in una storia multipla, costruita come un meta-romanzo che ingloba in sé generi diversi, dal noir alla chick-lit, dal romanzo psicologico alla spy story, alla pastorale americana, con un ritmo incalzante che tanto deve ai meccanismi delle serie televisive (e degli antichi feuilletons).

La forma tripartita del racconto accompagna verso un’ideale sintesi dialettica le vicende dei passeggeri di un volo Air France Parigi-New York che, per un bizzarro tiro del destino, incappano in una piega del tempo e si raddoppiano, dando origine a una vertiginosa serie di biforcazioni che non sarebbe dispiaciuta a Borges e a Calvino (un altro aereo identico al primo atterrerà infatti tre mesi dopo, con lo stesso carico ed equipaggio). Ognuno dei personaggi di cui seguiamo le vicende – un killer, un architetto di successo, una giovane montatrice, una mamma con due bambini, una giovanissima attrice, un romanziere stralunato, un’avvocata carrierista, un pilota, un rapper nigeriano – ha destini ed esiti diversi nei tre mesi che separano i due atterraggi, usufruendo di una magica, o tragica a seconda dei casi, “seconda chance”, come in un lontano film di Alain Resnais, L’amour à mort.

Anomalia

Fin qui il plot, che strizza l’occhio a celeberrime serie televisive, da Lost a The Leftovers. Ma è nell’uso dei generi, tutti e molto letterari, che sta il punto forte del romanzo, con un incipit da hard-boiled cupo e mortuario alla Spillane, costruito intorno a un misterioso killer, Blake, di cui seguiamo l’educazione a uccidere sin da bambino. Blake, sorta di filo nero che attraversa e connette il romanzo, impone una prosa ritmata e saltellante, percorsa da rime e assonanze che sono la sua cifra:

«Ammazzare, non è una vocazione, è una inclinazione. Uno stato d’animo, se preferite. Blake ha undici anni e non si chiama Blake. È accanto a sua madre, nella Peugeot, su una carrozzabile vicino a Bordeaux. Non vanno tanto veloci, un cane attraversa la strada, lo scossone li dirotta appena, la madre urla, frena, con troppa violenza, la macchina sbanda, il motore si spegne.
(…) Il collie ansima sull’asfalto crepato, il suo corpo distrutto, contorto, assume una strana postura, è agitato da scosse che vanno scemando, agonizza sotto gli occhi di Blake e Blake, curioso, osserva la vita che abbandona l’animale. È finita.»

Personaggio ‘globalizzato’ a cominciare dal nome – Blake, contrazione di black e lake, e da William Blakevive una doppia vita già prima di sdoppiarsi nella piega del tempo. Padre di famiglia nell’una e assassino prezzolato nell’altra, Blake è una figura moderna e antica insieme: imprenditore radical chic molto parigino, ma con filiali a New York e a Berlino, è l’erede di Rocambole, nipote dei vari criminali nei polar anni Settanta, ma anche un personaggio da serie televisiva alla Dexter.
Risponde alla stessa oscillazione tra locale e globale e tra antico e moderno, il tono delle varie storie d’amore, costruite di volta in volta secondo i canoni della commedia rosa, del classico romanzo introspettivo o del Legal movie. I personaggi si amano, si prendono e si lasciano sul filo della propria duplicazione, mossi dalla logica ferrea del racconto e vincolati a generi e metalinguaggi come pezzi di una gigantesca scacchiera. E sullo sfondo, qui, c’è davvero di tutto: il Perec combinatorio del Tentativo di esaurimento di un luogo parigino, o della Vita istruzioni per l’uso, Calvino con l’accumulo seriale degli incipit in Se una notte d’inverno un viaggiatore, Queneau poeta, i cui versi forniscono i titoli dei tre grandi capitoli, la struttura a scatole cinesi del romanzo nel romanzo, entrambi con lo stesso titolo, o della mise en abîme delle immagini, vecchia quanto il Ritratto dei coniugi Arnolfini, ma anche potenti narrazioni visive come Melancholia  e Dogville di Lars von Trier.

Anomalia

I personaggi dunque, mai compiutamente descritti, sono in fondo quasi tòpoi, figure duplicabili all’infinito di cui constatiamo l’insondabile fungibilità come quando, affacciandoci su Facebook, scopriamo con un misto di curiosità e malessere i nostri omonimi. E l’idea stessa del doppio, che innerva l’intero romanzo, alimenta l’ipotesi di una gigantesca simulazione di cui saremmo in fondo tutti parte. Romanzo-mondo di questo strano inizio di Millennio, L’anomalia risponde in maniera arguta e mai banale alla smaterializzazione del lavoro e dei rapporti, alla serialità degli incontri e all’esplosione globalista dei legami tra individui. Lo spazio in cui si muovono le tante figure ha scala mondiale, ci si sposta da Lagos a Londra in jet privati, o da New York a Bruxelles, da Mumbai al Canada e davvero, leggendolo, e traducendolo, vien da pensare un po’ al canto del cigno del tempo di ‘prima’, prima della pandemia e dell’azzeramento degli spostamenti spaziali, prima della migrazione digitale che da un anno a questa parte ci ha inghiottiti davvero tutti quanti. L’andirivieni della mente del lettore tra scampoli di letteratura e spezzoni di immagini, resti di ballate pop e minutaglie poetiche, richiama un altro grande riferimento visivo anni Settanta, l’esplosione al ralenti della villa futuribile in Zabriskie Point che, per sette lunghissimi minuti, accompagnata da un brano dei Pink Floyd, scaraventa sullo schermo ciò che resta della nostra civiltà.

La conclusione, a sorpresa, è anch’essa coerentemente visiva e insieme iperletteraria, con un’occhiata ai video catastrofisti, penso a The Deluge di Bill Viola, – altro virtuoso del ralenti – , un richiamo ai calligrammi di Apollinaire, ma soprattutto un omaggio all’amato Calvino e alla fine malinconica e rarefatta del Barone rampante, in cui si affaccia, come in filigrana, il sorriso insondabile del gioco meta letterario:

«Ombrosa non c’è più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se è davvero esistita. Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, (…) era un ricamo fatto di nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi si intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito.»

Gioco meta-letterario che si duplica una volta di più nella pagina di chiusa di questa affascinante anomalia dove, nello sgranarsi delle parole italiane, s’intravede acquattato il francese, che affiora a tratti, impalpabile e sfuggente, come sottili scaglie di colore di una vecchia scritta, dietro la superficie di un muro ridipinto.

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