Pochi scrittori riescono così bene nella spietatezza come i russi degli anni d’oro, il grandioso trentennio 1850-1880, le cui narrazioni sanno essere tanto lucide quanto corrosive. Storie che rodono chi legge spogliando sulla pagina l’astrattezza delle depravazioni che sappiamo pensare. Fanno parossismo delle piccole cadute quotidiane, le minuscole meschinità che coviamo nella parte recondita del nostro cervello. Per questo sono tanto spietati: fanno così male perché si fanno portavoci di narrazioni familiari e vicine, spinte un po’ più in là.
Romanzo con cocaina rientra nel novero dei romanzi schietti e crudeli. L’autore, ignoto e del quale conosciamo solo la firma M. Ageev, è una voce appuntita che si mantiene acuta e nitida anche nel pieno di deliri prolungati, e il romanzo nel suo intero si potrebbe dire un delirio ininterrotto di 215 pagine. Come informa Ernesto Valerio nella postfazione Dalle memorie di un malato, era il 1934 quando la redazione del periodico Čisla a Parigi ricevette un manoscritto proveniente dall’allora Costantinopoli, che, oltre al testo, recava solo un titolo, un sottotitolo e un nome. Bisogna aspettare gli anni Ottanta per vederlo di nuovo in circolazione, pubblicato anche in Italia a opera di Mondadori, e il 2020 per ritrovarlo nell’inedita veste di Gog edizioni, nella traduzione di Vittorio Bonino.
«Ginnasio», «Sonja», «Cocaina», «Pensieri» decanta l’indice del romanzo. Quattro capitoli che articolano i capisaldi di ogni parabola discendente – il principio, l’auge, il declino e la caduta – immortalando e racchiudendo i momenti fondamentali della vita di Vadim Maslennikov, che vanno dagli anni del ginnasio all’università, passati a Mosca tra il tramonto dell’epoca zarista e l’aurora di una rivoluzione che rimane sottotraccia fino alla conclusione del romanzo. Non c’è spazio per la Storia, per la politica, per il presente in Romanzo con cocaina. Non c’è spazio per niente che sia esterno, per definizione. In un Romanzo con cocaina ci può essere solo narrazione del sé, Vadim Maslennikov, e della la sostanza. Il resto non conta.
Vadim Maslennikov è una creatura della dimensione ctonia, imparentato con l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij: entrambi sanno pensare anche il bene e compiere solo il male, costretti dall’irresistibile attrazione per l’autodistruzione: «il bisogno, che in quegli ultimi mesi provavo così spesso, di dimostrare a me stesso la mia miseria intellettuale». In entrambi i romanzi il nadir è raggiunto attraverso la volontà di umiliazione del sé, portando alla rovina i rapporti personali, magistralmente fallendo in quelli amorosi, compromettendo gravemente la propria salute. L’allucinazione di Vadim Maslennikov è arricchita però dalla sostanza bianca, che la voce narrante, provata dalla solitudine e dalla noia, prova una sera in una locanda con amici. Per questo bisogna aspettare il penultimo capitolo, per vedere compiersi il destino a cui Vadim si era inconsapevolmente votato da anni; in questa ottica i primi capitoli assumono la forma di un rito preparatorio all’interno di una vicenda circolare e predefinita: «E tutto mi è diventato chiaro quando provai per la prima volta la cocaina», confessa Vadim negli ultimi giorni prima della fine. Con la prima sniffata ha inizio un trip fatto di allucinazioni uditive e vertiginosi sobbalzi umorali con conseguenti turbinii di pensiero accelerati e inarrestabili che trovano fine solo con la somma liberazione: la morte, l’overdose, il suicidio.
Nel romanzo di M. Ageev sono consistenti le pagine dedicate alla descrizione dei deliri del protagonista a seguito dell’assunzione della cocaina. La descrizione del trip è un esercizio letterario ardito. Riesce divinamente a Pier Vittorio Tondelli, di cui ricorre quest’anno il trentesimo anniversario dalla morte, con una delle migliori traslitterazioni su carta: Camere separate (Bompiani). In una manciata di pagine l’autore emiliano penetra fino in fondo a una testa in subbuglio, quella di Leo, in seguito all’assunzione di diverse sostanze (hascisc, oppio, un beverone verde non identificato). Qui la scrittura si fa sensoriale, fisica, abbandona il linguaggio delle cose per rintanarsi nella parte posteriore delle orbite, sottostando in silenzio e aderendo totalmente all’impazzamento dei sensi, in preda alla dilatazione temporale e alla distorsione percettiva. «Lui pregava e implorava, in quella corsa, di potersi arrestare, di potersi fermare un istante su un’idea o su di un pensiero, ma non era possibile. La vertigine lo trascinava in un gorgo senza alto né basso, senza sotto né sopra, all’interno stesso dell’idea di vertigine, nell’essenza stessa di una parola che non esisteva». Alla velocità della luce in cui nascono, muoiono, si susseguono i pensieri, si allinea anche la lingua – e in queste pagine sono tanti i termini che Tondelli mutua dal lessico scientifico\spaziale – che procede secondo una scala crescente fino al raggiungimento dell’apice, quando la parola e il pensiero quasi si bruciano per la prossimità al sole, il punto più alto di non ritorno, «un istante di orrore». Oltre il confine – ed è questo il limite del linguaggio – c’è solo il precipizio: ci si schianta a terra. Per uscirne morti o rinati.
Anche M. Ageev in Romanzo con cocaina descrive con sapienza dettagliata il ribaltamento della realtà, una realtà addizionata prima migliore e poi, una volta concluso il trip, peggiore, quando la luce bianca della mattina diventa una scheggia affilata per gli occhi e ogni scricchiolio un tonfo orrendo che ghiaccia l’animo di Vadim, spinto fino all’assunzione di tre grammi e mezzo e a una narcosi di ventisette ore.
La chiusura nel dentro e il terrore del fuori hanno reso in letteratura i trip prolungati da cocaina dei set narrativi magici, più sadiani-pasoliniani che boccacceschi. Isole regolate dalle leggi dell’allucinazione e dell’alterazione psichica in cui tutto può diventare possibile e non esiste più limite né freno al pensiero e all’atto. La presenza della cocaina incombe in molti dei libri e racconti di Ercole Patti, scrittore siciliano del quale La nave di Teseo ha recentemente ristampato l’opera omnia, ma trova pieno spazio e compimento nel romanzo Giovannino (1954), che comprende un intero capitolo in cui si narra l’esperimento narcotico di Giovannino e i suoi amici, che si rinchiudono per giorni in casa al buio a consumare grammi e grammi di cocaina. Alcuni passaggi di M. Ageev trovano piena corrispondenza nella narrazione di Patti:
«E se, come io stesso mi ero sincerato, un piccolo pizzico di cocaina provoca nel mio organismo, in un unico e potente momento, una sensazione di felicità immensa mai provata prima, viene meno allora la necessità stessa di un qualsiasi evento esterno», Romanzo con cocaina.
«Una pienezza felice passava nel suo corpo, un senso di appagamento totale che non gli faceva desiderare nulla oltre a quello che lo circondava», Giovannino.
Il luogo chiuso assume una valenza quasi simbolica, si trasforma agli occhi del cocainomane, diventa altro e si tramuta in un luogo della mente. Come se diventasse la proiezione di una coscienza che si trova in bilico, sfigurata tra dimensione reale e immaginifica. Alla fine di tutto, rimane solo il luogo testimone e depositario, impregnato dal parossismo di azioni e pensieri allucinati. Della forza misterica e malvagia del luogo racconta Nicola Lagioia in Città dei vivi (Einaudi, 2020), quando, durante un sopralluogo nell’appartamento romano nel quale si è consumato il ferrato omicidio di Luca Varani per mano di Manuel Foffo e Marco Prato, l’autore viene investito dalla percezione di sospensione temporale: un luogo fuori dal tempo perché fuori dall’immaginabile umano, in cui galleggia solo «idiozia, solitudine, disperazione». Nel corso del romanzo Lagioia ritorna spesso sulla forza misterica della casa di Foffo, quasi come fosse un luogo stregato che esercita un’attrazione oscura, all’interno del quale si sono concentrate forze spirituali maligne.
Contiene l’orrore e la vergogna anche la camera in cui Vadim trascorre le settimane di narcosi. Dopo essere stato cacciato da casa dalla madre a causa di un furto, il giovane cocainomane trova riparo nella camera dell’amico Jag, in partenza per l’estero. La stanza, che si presenta «in disordine, carica di abbandono e malinconia» con «piatti sporchi e avanzi della cena», diventa lo scenario del delirio prolungato: quattro mura serbatoio di pensieri atroci e gesta vergognose.
«E gli innumerevoli stimoli a pisciare, quando diventa necessario, quando bisogna superare l’impacciata rigidità del corpo, e farla nella stanza, in un vaso da notte, i denti congelati, che digrignano, che producono un rumore mostruoso in tutta la casa, e poi, coperto di un sudore appiccicoso, insolitamente freddo e caustico, risalire al buio sul divano, come su una montagna ghiacciata, tremando selvaggiamente per i brividi, con il ginocchio incastrato nella molla saltellante, impaurito, congelato fino al prossimo stimolo.»
Solo dopo intere settimane, quando la stanza, già lurida, trasuda un’insopportabile sporcizia morale, Vadim affronta il mondo esterno e viene messo di fronte alle conseguenze estreme delle sue azioni, tanto tragiche da ricacciare subito il protagonista nel vortice della sostanza bianca. Affermando l’impossibilità di salvezza e guarigione per un uomo tanto compromesso e così votato al male, Romanzo con cocaina di M. Ageev, oltre che una storia di una narcosi, è anche una riflessione sul male, che, nonostante lo scarto di anni, si pone in dialogo con la contemporaneità e riafferma stilemi letterari, tanto tipici quanto efficaci nella narrazione del delirio narcotico.